La mia corsa nel tempo
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La mia corsa nel tempo

  1. 560 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La mia corsa nel tempo

Informazioni su questo libro

La storia di Vittorino Andreoli comincia nell'euforia del dopoguerra, quando, giovanissimo, decide di abbandonare l'impresa di famiglia per diventare "un medico dei matti". Una scelta inconsueta, segnata dalla prima visita nel manicomio di Verona, e dall'incontro con alcuni uomini formidabili come André Breton e Eugène Minkowski. Dopo gli studi come "scienziato puro" a Cambridge, a New York e nei laboratori della Nasa in New Mexico, Andreoli capisce che la ricerca e la cura di un malato diventano possibili solo all'interno di una relazione. Nel 1972 torna a Verona e inizia la professione clinica che lo renderà un acuto osservatore anche dei malesseri del nostro Paese. Qui si occupa anche dei casi limite della cronaca nera: da Pietro Maso, omicida dei propri genitori, al serial-killer Donato Bilancia, Andreoli tratta da un punto di vista nuovo crimini incomprensibili, e dà inizio a un percorso che cerca di comprendere l'uomo oltre il pazzo. Con la competenza del grande psichiatra e la penna dell'uomo di lettere, oggi ripercorre la propria formazione, i sogni e la lotta, portata avanti per tutta la vita, per cambiare il volto della follia.

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1

La guerra vista con gli occhi di un bambino

Sono nato il 19 aprile 1940, in tempo per poter vivere la guerra nella sua interezza. E infatti al conflitto mondiale si legano i miei più lontani ricordi.
Il primo di cui ho coscienza mi vede bambino mentre chiedo di essere preso in braccio da mia madre, implorandola di farlo subito. Non appena mi sollevò sentii, stretto tra le sue braccia, che lei si era messa a correre. Ricordo anche il corridoio che dal cortile conduceva al portoncino d’ingresso della casa in via Santa Chiara, al numero 5.
Ansimando, mi portò dentro un luogo buio. Era il rifugio che si trovava nella piazzetta antistante al Teatro Romano. Ora so che quel buio serviva per non essere avvistati dagli aerei che bombardavano la città, e quella corsa era accompagnata dall’urlo delle sirene che avvisavano del pericolo.
Quando si accesero le tenui luci del rifugio, ero ancora in braccio alla mamma, che si era seduta su una panchina di cemento, accostata a un muro. Doveva essere una cantina, parte delle fondamenta di quella costruzione che proteggeva una grande calca di persone, spaventate dal mostro della guerra.
L’appartamento di via Santa Chiara era su due piani: di sotto un’ampia cucina con un tavolo per pranzare, sopra invece tre piccole stanze con i servizi. Il proprietario era il tabaccaio, che l’aveva affittato a mio padre.
Io però sono nato nell’area che appartiene al Teatro Romano, famoso per la scenografia naturale dell’Adige che scorre proprio lì davanti. Sorge nella parte più antica della città, che dal teatro si raggiunge attraversando il ponte romano.
Il palcoscenico è poco più alto del livello della strada, mentre la parte riservata al pubblico è costituita da una scalinata a semicerchio. Ma continuando a salire, si trovava e si trova ancora una casa con una veduta che passa sul teatro e poi si perde nella prospettiva della città vecchia. In questa casa sono nato io.
Mio padre nel 1937, dopo il matrimonio, si insediò con la famiglia in questo stupendo edificio, allora abbandonato, come guardiano. Lui era originario di Mizzole della Valpantena, una frazione del comune di Verona, a sei chilometri dalla città. Mia madre era invece di Vallelunga, che si trova nel comune di Domegliara, sul lago di Garda.
Il primo ricordo mi permette di accennare ai miei genitori e alle loro condizioni economiche molto modeste. Quando si sposarono, il papà aveva ventisei anni e la mamma ventuno. Lui era rimasto orfano del padre all’età di nove anni. Il nonno aveva lasciato cinque figlioli: in sequenza cronologica venivano tre femmine, poi mio padre e quindi suo fratello.
Mio nonno era un bravissimo muratore. Passava ogni anno «la stagione» in Germania, dove c’era una grande richiesta nel settore edile. Poi ritornava e lavorava per lo più in città, a Verona.
Ogni giorno andava e tornava a piedi; oppure in bicicletta.
Una sera, non è arrivato a casa: lo hanno trovato con la sua bicicletta lungo la strada, morto per un infarto.
Il suo primogenito maschio, mio padre, prese il suo posto, incominciando, come si dice, dalla gavetta e quindi da manovale. Si definiva con questo termine chi assisteva un muratore, colui che fa il muro. Quel bambino, che così piccolo doveva aiutare la famiglia, aveva dunque il compito di preparare la malta, di portare i mattoni e tutto ciò richiedeva forza e velocità.
Aveva interrotto la scuola mentre frequentava la quarta elementare, che dunque non completò.
Si alzava molto presto il mattino, poiché doveva raggiungere il cantiere a piedi. La bicicletta di suo padre infatti non c’era più, era stata venduta per permettere alla famiglia di sopravvivere.
Mi raccontava che la sera ritornava molto stanco, ma ancora pieno di vita. Con suo fratello dormivano nella soffitta di una casa che era vicino alla chiesa e si addormentava leggendo qualche pagina di romanzi allora di grande successo, come Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas o I Promessi sposi di Alessandro Manzoni.
Mia nonna, che era molto presa a tenere a bada i cinque figli, era anche molto religiosa. Di quella religiosità che non ammette dubbi, che faceva parte dell’ambiente naturale in cui allora le famiglie povere si trovavano a vivere. Seppi che il parroco le aveva consigliato di usare la bicicletta del nonno per una lotteria, così da raccogliere una somma maggiore di quella che avrebbe ottenuto vendendola. E lui si era fatto promotore del premio dal pulpito.
Mia madre era una bellissima donna, non solo agli occhi di me bambino, ma secondo i canoni della bellezza di allora. La sua famiglia era di tradizioni contadine, originaria dell’entroterra del lago di Garda. Suo padre era mezzadro di un podere di dieci ettari, dove, come allora si usava, si produceva tutto ciò che era necessario al sostentamento di una famiglia numerosa: la vite, qualche campo di mais, un frutteto e poi l’orto, il pollaio e gli animali da stalla, che davano latte, carne e sollevavano un poco la fatica dell’uomo nell’arare la terra.
A pensare a quest’ultima funzione c’erano i buoi e Mario, il cavallo che tirava il biroccio.
Il secondo ricordo si situa proprio in Vallelunga. Di sicuro dopo l’8 settembre ’43, quando tutti avevano pensato che la guerra fosse finita e, invece, l’Italia doveva ancora essere letteralmente distrutta dai nuovi alleati, gli angloamericani, e dai vecchi, i tedeschi, che ritirandosi verso il Brennero distruggevano tutto quanto era possibile, per rallentare gli americani, sbarcati nel Sud della penisola, che li inseguivano.
In questo nuovo clima di terrore il papà decise di lasciare la città e di mettersi al sicuro presso i miei nonni materni a Vallelunga.
Avevo dunque compiuto i tre anni. Ricordo che amavo molto la vita di campagna, libera dall’ossessione della guerra, dove si seguivano i ritmi della natura, il ruotare delle stagioni, gli impegni differenti dei contadini.
Un giorno lo zio Luigi attaccò il carro al giogo dei buoi per andare a raccogliere l’erba che doveva servire durante l’inverno, quando le mucche non potevano pascolare all’aperto. Io ero sul carro ancora vuoto. Mi sembrava un grande cortile mobile, una sorta di tappeto volante, quelli delle favole delle Mille e una notte.
Non sapevo nulla delle leggi del movimento, per cui la trazione anteriore mi portava a indietreggiare, rispettando il principio della «reazione uguale e contraria». Non dovevo certo nemmeno capire gli inviti dello zio di stare fermo e seduto. E così precipitai dal carro, lo zio fermò i buoi, scese per raccogliermi e, come mi raccontò molte volte, vide che la testa era a qualche centimetro da una delle ruote: sarebbe bastato un nulla per travolgermi.
Anche questo ricordo non è racchiuso da un singolo fotogramma, ma si svolge in una sequenza che termina con il mio sguardo, un po’ sorpreso di essere per terra e con gli occhi su una ruota coperta da una lasagna di acciaio. Mi sembra ancora adesso di vederla luccicare. Forse c’era il sole.
Ma c’è un altro ricordo di quel periodo. Avevo i capelli biondi, anzi biondissimi e ricci, tanto che mia madre sovente li acconciava in strane «banane» sopra la mia testa. Fu proprio lei, un giorno, a portarmi nella stalla. C’erano quattro mucche e due buoi, e sempre qualche gallina che saltava qua e là.
Quel giorno, quando entrai vidi che dietro di loro c’era un mastello di legno. Lo vedevo fumare.
L’acqua era veramente calda. Mia madre mi mise dentro, mi bagnò il capo e mi tagliò i capelli a zero. Passò la testa rapata più volte con il sapone che, di solito, serviva per lavare le lenzuola.
Mi ero riempito di pidocchi e lei li aveva tolti tutti.
Fu la mia prima grande metamorfosi. Non ero affranto, anzi, non tolleravo i commenti sui miei capelli che, sovente, spingevano gli altri a descrivermi come una bella bambina. E, con tutto il rispetto, quell’attribuzione proprio non mi piaceva. Ma c’è una storia che mi pare più seria, in cui entrano in scena i camaldolesi.
La casa e la campagna di Vallelunga confinavano con l’eremo dei camaldolesi della Rocca del Garda. Si tratta di uno sperone di roccia che si erge a picco sul lago. E qui, i seguaci di san Romualdo avevano edificato una delle loro tante dimore, segno della voglia che talora prende l’uomo di isolarsi in qualche angolo di mondo per incontrare Dio.
L’eremo comprendeva sei celle unite a una piccola chiesa e, a costituire un insieme, c’era anche un cimitero che era formato da una decina di cassetti che parevano penetrare dentro la roccia, ma che si potevano tirare per vederne il contenuto: l’eremita che lo aveva occupato, almeno con il corpo, poiché la sua anima sale ancora più alto, in Paradiso.
Vista la vicinanza dell’eremo alla casa dei nonni materni e alla terra che gestivano in mezzadria, se ai monaci capitava di avere bisogno della carne di qualche animale da cortile, che essi solitamente non potevano mangiare se non quando erano colpiti da qualche malattia, era al nonno che si rivolgevano.
Un passaggio segreto permetteva ai due terreni confinanti di passare dall’uno all’altro. E ciò significava che c’era anche un pertugio nel muro che circondava l’eremo.
Ed è proprio entro questa cornice che si colloca un mio ricordo della guerra.
La domenica era possibile recarsi ad ascoltare la Messa nella chiesetta. Una volta ci andai con il nonno e due zii. La famiglia di mia madre contava ben otto fratelli. La regola di san Romualdo impediva alle donne di essere ammesse negli eremi, e non potevano nemmeno avvicinare gli eremiti. Quella domenica dunque con il nonno e gli zii seguimmo la via segreta per giungere fino a lì.
Entrammo in chiesa e io assistetti alla mia prima funzione religiosa, almeno la prima di cui avevo consapevolezza. Ricordo anche l’eccezionalità di quel giorno.
Sento ancora la voce profonda che proveniva da dietro l’altare, dal coro: era un vero salmodiare che si faceva musica, suono, senza che potessi comprendere una sola parola che nemmeno i grandi e il nonno dovevano cogliere.
Io comunque mantenevo il silenzio, mi guardavo attorno e avvertivo sensazioni in cui, forse, c’entrava persino la paura. La chiesa era in penombra e quindi tutto sembrava segreto.
Alla fine della cerimonia, quando il sacerdote scese dall’altare, noi rimanemmo fermi in quel banco della prima fila. Tutti gli altri se ne erano andati.
Sembrava proprio che aspettassimo quel monaco che, uscito dal coro, aveva attraversato l’altare e si era diretto verso di noi. Anzi verso di me, potrei dire.
Mi prese in braccio. Io rimasi immobile come una statua, come chi non sa quel che sta per succedergli. Mi sentivo stringere e guardavo soprattutto quel cappuccio di colore bianco come la tonaca di panno. Non sorridevo di certo, mentre mi pareva che l’eremita esprimesse con la mimica un sentimento di gioia. Lui si accorse che qualcosa non funzionava e allora si sfilò il cappuccio dalla testa, che gli rimase appeso al collo, e io assistetti a un miracolo: l’eremita era mio padre. Allora cominciai ad agitarmi, a stringermi al suo collo, con la voglia di giocare, mentre lui si commuoveva.
Certo allora non potevo saperlo, me lo spiegarono solo molto tempo più tardi: eravamo andati dai nonni dopo l’8 settembre anche per nascondere il papà, che era un antifascista e che era nelle cosiddette liste di proscrizione, dei nemici del Duce.
Nei primi anni della guerra mio padre lavorava nelle ferrovie, si occupava di manutenzione, di riparazione delle stazioni, dei depositi, ma era stato cacciato, perché non aveva corrisposto a tutti i «giuramenti» e le «riverenze» che il partito fascista richiedeva. A denunciare il suo antifascismo era stato un suo amico, che lavorava con lui.
San Romualdo lo aveva accolto e così capitava di vederlo arrivare a casa dei nonni, approfittando di quel passaggio segreto che percorreva in un senso e poteva subito ripercorrere nell’altro per ritornare eremita.
Devo ammettere che ho una grande simpatia per i camaldolesi e, come dirò più avanti, ci fu un periodo in cui addirittura pensai di entrare nell’Ordine, chissà, forse per identificarmi con mio padre.
Il 25 aprile 1945 eravamo tutti in città. La casa di via Santa Chiara era stata colpita, ma era ancora in piedi, mentre la chiesetta, proprio di fronte, dedicata alla Santa, si era trasformata in un cumulo di macerie.
Quando fu certa la vittoria delle truppe alleate, la città si animò, anzi sarebbe meglio dire si agitò.
Ricordo mio padre che la mattina presto mi prese per mano e si diresse verso un grande magazzino. Apparteneva a un uomo che vendeva ogni bene alimentare al mercato nero, e fino ad allora solo pochi avevano potuto goderne. Quel giorno però era letteralmente preso d’assalto da persone che per cinque anni avevano saputo che là dentro c’era da mangiare, ma non per loro, condannate al digiuno.
Mio padre, che era fortissimo, si era caricato sulla spalla due sacchi: uno di zucchero e l’altro di farina. E ritornammo a casa, con la sensazione che la storia, anche quella piccola della nostra famiglia, stesse per cambiare.

2

A scuola

Mio padre, negli anni che hanno preceduto il matrimonio, quando dunque abitava a Mizzole, oltre a lavorare per contribuire alla sopravvivenza della sua famiglia, si era impegnato a completare la scuola che aveva dovuto interrompere alla morte del nonno. Fece gli esami e quindi terminò, seguendo dei corsi serali, prima le elementari e poi le scuole medie.
Ma fu durante i primi anni della guerra, quando abitavamo in via Santa Chiara, che decise di frequentare un’altra scuola, questa volta non con l’intento di sanare l’anomalia che lo aveva portato bambino a svolgere, in qualche modo, la funzione del padre morto troppo presto. Il nuovo corso di studi, che sarebbe durato tre anni, gli avrebbe infatti permesso un salto di qualità professionale, promuovendolo da muratore a capomastro. Quel diploma gli avrebbe permesso di aprire un’impresa edile, di diventarne titolare e, quindi, di costruire egli stesso degli edifici e persino di fare dei progetti.
Ricordo che la sera rientrava per cenare, si cambiava, andava alla scuola serale e, quando ritornava e io ero già a dormire, si dedicava allo studio, alla preparazione di tavole che mostravano qualche particolare costruttivo.
Terminò quei corsi proprio nel ’45, dopo la Liberazione.
Avevo cinque anni e già mostravo uno straordinario attaccamento al papà, lo aspettavo, lo pensavo, gli saltavo in braccio, cercavo di occupare la sua attenzione.
Ricordo in particolare una sera, mi pare che fosse tra la cena e il momento in cui lui usciva per andare a scuola (credo che le lezioni iniziassero alle venti e terminassero alle ventitré). Probabilmente stava «studiando», guardando gli appunti. Io gli giravo attorno, come al solito; devo avergli detto qualcosa che lui fraintese e mi sgridò con voce severa. Io rimasi stupito, imm...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La mia corsa nel tempo
  4. Preambolo
  5. 1. La guerra vista con gli occhi di un bambino
  6. 2. A scuola
  7. 3. Sei anni vissuti con «timore e tremore»
  8. 4. I miei anni da scienziato «puro»
  9. 5. La mia vita da psichiatra
  10. 6. Il fascino del crimine
  11. 7. Le malattie della politica
  12. 8. La percezione sociale dello psichiatra
  13. 9. Il manicomio di Mosca e altri viaggi
  14. 10. Nuove strategie di sopravvivenza psichiatrica
  15. 11. Solitario, con la voglia di scrivere
  16. E domani
  17. Indice