CAPITOLO DIECI
Martedì notte, gran parte di quello che credevo di sapere su me stesso si era rivelato sbagliato. Domenica mattina io e papà avremmo fatto i bagagli per tornare a casa. Avevo pochi giorni per decidere. Restare o andarmene? Nessuna scelta sembrava quella giusta. Come potevo restare lì e dire addio al mio mondo? Ma dopo tutto ciò che avevo scoperto, come potevo tornare a casa?
In più, non avevo nessuno con cui parlarne. Papà era fuori questione. Emma adduceva argomentazioni di vario tipo, tutte appassionate, per spingermi a rimanere, senza però tenere conto della vita a cui avrei rinunciato (per quanto misera fosse) o di quanto l’improvvisa e inesplicabile scomparsa del loro unico figlio avrebbe sconvolto i miei genitori; o ignorando il senso di soffocamento che lei stessa ammetteva di provare dentro l’anello. Diceva solo: «Con te qui, andrà meglio».
Miss Peregrine mi era ancor meno d’aiuto. Si limitò a rispondermi di non poter prendere una decisione del genere al posto mio, anche se io volevo soltanto discuterne un po’. Eppure era chiaro: voleva che restassi; la mia presenza lì nella casa avrebbe tenuto più al sicuro non solo me, ma anche gli altri. Però a me non sorrideva l’idea di passare la vita a fare il cane da guardia. (Iniziavo a sospettare che il nonno si fosse sentito allo stesso modo. Anche per questo, forse, non era più tornato sull’isola dopo la guerra.)
Se fossi andato a vivere con i bambini Speciali, non avrei finito il liceo, non sarei andato all’università, non avrei fatto nessuna delle cose normali che le persone fanno quando crescono. D’altronde, come dovetti rammentarmi, io non ero Normale. E finché i Vacui mi davano la caccia, ogni vita vissuta fuori dall’anello sarebbe stata quasi sicuramente breve. Avrei passato il resto dei miei giorni nella paura, a guardarmi le spalle, tormentato dagli incubi, aspettandomi di vederli comparire per farmi secco. Una prospettiva molto meno allettante che rinunciare al college.
Poi pensai: Non c’è una terza possibilità? Non potrei fare come il nonno? Lui ha vissuto cinquant’anni fuori dall’anello sfuggendo ai Vacui. A quel punto, la parte autocritica della mia coscienza prese la parola.
Lui era un soldato, scemo. Un vero duro. Aveva un armadio pieno di fucili a canne mozze. Quell’uomo era Rambo, in confronto a te.
Potrei iscrivermi al poligono di tiro, pensava il lato ottimista di me. Imparare il karate. Fare ginnastica.
Scherzi? Non sapevi proteggerti neppure al liceo! Hai dovuto pagare un energumeno per farti da gorilla. E te la faresti sotto, se solo puntassi un fucile vero contro qualcuno.
No, non è vero.
Sei debole. Sei un perdente. Ecco perché lui non ti ha mai detto chi eri. Sapeva che non avresti retto.
Sta’ zitto. Sta’ zitto.
Per diversi giorni andai avanti così. Restare o andarmene? Ero ossessionato. Non avevo via d’uscita. Nel frattempo, papà perse completamente la voglia di scrivere il libro. Meno lavorava, più si demoralizzava, e più si demoralizzava, più tempo passava al bar. Non l’avevo mai visto bere tanto – sei, sette birre a sera – e non volevo stargli vicino quando si comportava in quel modo. Aveva l’umore sotto le scarpe, e se non rimuginava in silenzio, allora mi raccontava cose che proprio non ci tenevo a sentire.
«Uno di questi giorni tua madre mi lascerà» disse una sera. «Se non mi do una bella regolata, prima o poi lo farà.»
Iniziai a evitarlo. Forse non se ne accorse neppure. Diventò fin troppo facile mentire sui miei spostamenti.
Nel frattempo, alla casa per bambini Speciali, Miss Peregrine istituì una politica di segregazione quasi totale. I bambini più piccoli non potevano fare un passo senza una scorta, i più grandi dovevano muoversi a coppie, e lei pretendeva di sapere in ogni momento dove fosse ciascuno. Ottenere il permesso di uscire era un’impresa.
Furono piazzate sentinelle a rotazione sul davanti e sul retro della casa. A ogni ora del giorno e per gran parte della notte facce annoiate scrutavano fuori dalle finestre. Se vedevano avvicinarsi qualcuno, tiravano una catena che faceva suonare un campanello nella stanza della direttrice; così, quando arrivavo la trovavo sempre nell’ingresso, pronta a interrogarmi. Cosa succedeva fuori dall’anello? Avevo visto qualcosa di strano? Nessuno mi aveva seguito, vero?
Non c’era da stupirsi che i bambini dessero un po’ fuori di matto. I più piccoli diventarono indisciplinati; i più grandi invece depressi, e si lamentavano sbuffando delle nuove regole. A volte sentivi all’improvviso un sospiro melodrammatico, unico indizio della presenza di Millard nella stanza. Gli insetti di Hugh ronzavano e pungevano tutti, quindi vennero banditi dalla casa; lui cominciò a passare tutto il suo tempo alla finestra, con le api posate sull’altro lato del vetro.
Olive dichiarò di aver smarrito le scarpe zavorrate e si mise a camminare carponi sul soffitto come una mosca: lasciava cadere chicchi di riso sulle teste dei compagni finché quelli non alzavano lo sguardo e la notavano, e lei scoppiava a ridere così forte che doveva aggrapparsi a un lampadario o a un bastone da tenda per non precipitare di botto. Il più strano di tutti era Enoch. Si era barricato nel suo laboratorio in cantina e praticava operazioni chirurgiche sperimentali sui suoi soldatini d’argilla, roba da impressionare persino il dottor Frankenstein: amputava gli arti di due soldati per trasformarne un terzo in un orribile uomo-ragno, oppure stipava quattro cuori di gallina in un solo petto nel tentativo di creare un instancabile superuomo d’argilla. Uno dopo l’altro i corpicini grigi stramazzavano per lo sforzo e la cantina assomigliava ormai a un ospedale da campo durante la Guerra civile.
Dal canto suo, Miss Peregrine non si fermava un attimo, fumava una pipa dietro l’altra e zoppicava di stanza in stanza per controllare i bambini, come se potessero volatilizzarsi nel nulla se si fosse distratta un istante. Miss Avocet restò con noi; emergeva ogni tanto dal suo torpore per aggirarsi nei corridoi, chiamando disperatamente i suoi poveri allievi abbandonati prima di accasciarsi tra le braccia di qualcuno che la riportava a letto. Prese forma una lunga serie di speculazioni paranoiche a proposito della sua tragica avventura e del perché i Vacui volessero rapire le ymbryne. Le teorie andavano dal bizzarro (per forgiare l’anello temporale più grande della storia, largo abbastanza da fagocitare l’intero pianeta) al risibilmente ottimista (per tenere compagnia ai Vacui: anche un mostro orribile soffre la solitudine).
Alla fine, una quiete morbosa calò sulla casa. Due giorni di confino ci avevano resi letargici. Convinta che la routine quotidiana fosse la miglior difesa contro la depressione, Miss Peregrine cercava di stimolare l’interesse di tutti per le sue lezioni, per la preparazione dei pasti e la pulizia meticolosa di ogni angolino. Ma ogni volta che non avevano un ordine diretto a cui obbedire, i ragazzi si lasciavano cadere su una sedia, fissavano il vuoto fuori dalle finestre sigillate, sfogliavano libri con le orecchie alle pagine, già letti cento volte, oppure dormivano.
Non avevo mai visto in azione il talento speciale di Horace finché, una sera, si mise a gridare. Io e altri ragazzi corremmo al piano di sopra, nel sottotetto dov’era di guardia, e lo trovammo rigido su una sedia, in preda a una specie di incubo a occhi aperti, le mani protese a ghermire l’aria. All’inizio gridava e basta, poi cominciò a blaterare che i mari ribollivano e la cenere pioveva dal cielo e una coltre infinita di fumo soffocava la terra. Dopo qualche minuto di vaneggiamenti apocalittici, sfinito, piombò in un sonno agitato.
I compagni, abituati alle sue performance (c’erano foto di quegli episodi nell’album di Miss Peregrine), sapevano cosa fare, e lo trasportarono a letto. Quando si svegliò, qualche ora più tardi, affermò di non ricordare nulla, e che i sogni che non ricordava si avveravano raramente. Gli altri presero per buona questa spiegazione perché avevano già troppo di cui preoccuparsi. Io sospettai che Horace ci nascondesse qualcosa.
In un paese piccolo come Cairnholm, la sparizione di una persona non passa inosservata. Ecco perché mercoledì, quando Martin non aprì il museo e non fece un salto al Priest Hole per il solito bicchierino serale, la gente iniziò a chiedersi se non fosse malato. Quando poi la moglie di Kev andò a sincerarsi che stesse bene e trovò la porta spalancata, il portafogli e gli occhiali sul bancone della cucina, e nessuno in casa, la gente iniziò a chiedersi se non fosse morto.
Il giorno dopo non ricomparve. Così, alcuni uomini furono inviati ad aprire capanni e guardare sotto le barche rovesciate, e ovunque uno scapolo amante del whisky potesse smaltire una sbornia. Avevano appena iniziato le ricerche quando arrivò una chiamata sulla radio a onde corte: il corpo di Martin era stato ripescato nell’oceano.
Il pescatore che l’aveva trovato entrò nel pub verso mezzogiorno, e nonostante l’orario gli fu spillata una birra d’ufficio. Pochi minuti dopo raccontò la sua storia. Io, mio padre e quasi tutta la popolazione di Cairnholm pendevamo dalle sue labbra.
«Ero su a Gannet’s Point a tirare le reti. Erano pesantissime… strano, perché da quelle parti di solito trovo solo pesciolini e gamberetti. Mi dico: si sarà incastrata in una trappola per granchi. Allora che faccio? Prendo la fiocina e la passo sotto la barca, e resta impigliata in qualcosa.» Tutti ci sporgemmo in avanti sugli sgabelli, come bambini affascinati da una fiaba macabra. «Era Martin, sì. Forse è caduto da uno scoglio e sono arrivati gli squali. Bah! Lo sa Dio cosa ci faceva sugli scogli in piena notte, in vestaglia e mutande.»
«Non era vestito?» chiese Kev.
«Vestito per andare a letto, magari» disse il pescatore. «Non per una passeggiata all’umido.»
Brevi preghiere furono pronunciate per l’anima di Martin, poi la gente cominciò a confrontare le rispettive teorie. Nel giro di pochi minuti il pub si trasformò in un fumoso ritrovo di Sherlock Holmes brilli.
«Magari aveva bevuto» ipotizzò un uomo.
«Oppure era sulle tracce dell’assassino di pecore» ipotizzò un altro.
«Cosa mi dite del tizio strambo arrivato da poco?» domandò il pescatore. «Quello con la tenda da campeggio.»
Papà si drizzò sullo sgabello. «L’ho incontrato due sere fa.»
Mi voltai verso di lui, sorpreso. «Non me l’avevi detto.»
«Stavo correndo in farmacia prima che chiudesse, e quel tizio era diretto dalla parte opposta, fuori dal paese. Andava molto di fretta. Passando gli ho dato una spallata, solo per infastidirlo. Lui si ferma e mi fissa. Cerca di intimidirmi. Io gli dico chiaro e tondo che voglio sapere cosa ci fa qui, a cosa sta lavorando. Perché qui la gente non si nasconde, dico.»
Kev si chinò sul bancone. «E lui?»
«Mi guarda come se stesse per tirarmi un pugno, ma poi se ne va.»
Gli uomini si misero a fare domande: che mestiere fa un ornitologo, perché il tizio dormiva in tenda… Io ne avevo solo una. «Hai notato qualcosa di strano in lui? La faccia?»
Mio padre rifletté un momento. «Sì, in effetti. Portava gli occhiali da sole. Di sera.»
Mi venne la nausea. Papà aveva rischiato molto più di un pugno? mi chiedevo. Sapevo di doverlo riferire a Miss Peregrine, al più presto.
«Figuriamoci» sbottò Kev. «Da cent’anni non avviene un omicidio su Cairnholm. E poi, chi mai avrebbe voluto uccidere il vecchio Martin? Non ha senso. Dall’autopsia salterà fuori che era ubriaco marcio.»
«Potrebbe volerci un po’, prima di avere il referto» considerò il pescatore. «Il meteorologo dice che la tempesta in arrivo sarà bella tosta. La peggiore dell’anno.»
«Ah, be’, se lo dice il meteorologo…» borbottò Kev. «Non mi fiderei di quel coglione se mi dicesse che sta piovendo mentre piove.»
Gli isolani avevano l’abitudine di prodursi in cupi presagi su ciò che Madre Natura aveva in serbo per Cairnholm – erano alla mercé degli elementi, d’altronde, e pessimisti di carattere –, ma stavolta i loro timori furono confermati. Quella sera, il vento e la pioggia che per tutta la settimana avevano sferzato l’isola si coagularono in una tempesta violenta. Il cielo si oscurò all’improvviso, le onde schiumavano. Per via del tempaccio, e delle voci sul possibile omicidio di Martin, il paesino si barricò proprio come i bambini di Miss Peregrine: la gente si chiudeva in casa, sbarrando porte e finestre.
Nessuna barca lasciò il porto, perché uscire in quelle condizioni sarebbe stato un suicidio. E poiché la polizia della terraferma non poteva recuperare il corpo di Martin finché il mare non si calmava, restava il pressante problema di cosa farne del cadavere. Infine si decise che il pescivendolo, dotato della scorta più abbondante di ghiaccio sull’isola, lo avrebbe tenuto in fresco nel retrobottega, tra i salmoni e i merluzzi. Che, come Martin, erano stati pescati in mare.
Mio padre mi aveva intimato di non mettere il naso fuori dal Priest Hole, ma avevo anche l’ordine d...