Sognando la luna
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Sognando la luna

  1. 528 pagine
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Sognando la luna

Informazioni su questo libro

È il 1989 quando Michael Chabon, pochi mesi dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, I misteri di Pittsburgh, raggiunge la casa della madre, a Oakland, per far visita al nonno gravemente malato. Reso loquace dai potenti antidolorifici, la memoria più nitida, affilata e urgente per l'imminenza della morte, in una settimana l'uomo dispiega davanti al giovane scrittore una storia rimasta sepolta, quasi dimenticata per una vita intera, un fiume alimentato da una molteplicità di affluenti, di voci spesso drammatiche, a volte beffarde, travolgenti per il nipote come per il lettore di oggi.È questa la mappa su cui si compone Sognando la luna, la confessione finale di un uomo a cui il narratore si riferisce sempre e solo come «mio nonno». È un racconto che parla di follia, di guerra e di avventura; che affronta il sesso, il matrimonio, il desiderio; che partendo dal modellismo aerospaziale osserva e descrive l'America di metà Novecento, le aspirazioni tecnologiche e i progressi di una nazione. Eppure, sopra ogni altra cosa, è il ritratto dell'amore passionale e impossibile tra il nonno dell'autore e sua moglie, un'enigmatica donna francese arrivata negli Stati Uniti, profondamente segnata, dopo la guerra. Insieme, a muovere queste pagine è l'impatto distruttivo - eppure così potenzialmente creativo - dei segreti e delle menzogne.Sognando la luna è un romanzo in forma di memoir, al tempo stesso una sorta di autobiografia immaginata, capace di descrivere un'epoca nel racconto di una sola vita, contraendo un'esistenza intera in un incontro di appena una settimana. Una bugia che ci porta la verità, in cui Chabon si offre toccante e creativo come mai prima d'ora.è una delle voci più prestigiose della narrativa americana contemporanea. Vincitore del Premio Pulitzer nel 2001 con Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, ha all'attivo romanzi, raccolte di racconti, saggi, sceneggiature e fumetti. Tra i suoi titoli più importanti, tutti editi da Rizzoli, I misteri di Pittsburgh, Il sindacato dei poliziotti yiddish, Uomini si diventa, Telegraph Avenue. Vive a Berkeley, in California con i figli e la moglie, la scrittrice Ayelet Waldman, con la quale ha curato la raccolta di racconti Cenere e ulivi, pubblicata da Rizzoli nel 2017 in occasione dei cinquant'anni di occupazione israeliana dell

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
Print ISBN
9788817095709
eBook ISBN
9788858691038

XXXIII

Verso la fine del periodo di lutto, mio nonno partecipò al XII Space Congress di Cocoa Beach, in Florida.
Il sabato di apertura, la prima tavola rotonda in programma si svolse tra caffè e brioche danesi nella sala Egret dell’Atlantis Beach Lodge. Un ingegnere del team che stava sviluppando il nuovo space shuttle aprì il suo intervento negando di aver mai definito il corpo astronauti della NASA «un branco di camionisti volanti». Il suo accento era stato progettato a Flatbush, puro Brooklyn. Aveva una cravatta e i risvolti della giacca larghi come battistrada, occhialetti rotondi da nonnina e una vaporosa palla di capelli biondo cenere. Gli astronauti erano eroi, disse, su quello non c’era dubbio. E tali sarebbero rimasti fino al giorno in cui lo Space Transportation System (STS) non fosse diventato operativo. A quel punto, «camionisti volanti» sarebbe stato il termine adatto. In sala Egret scoppiarono tutti a ridere.
Rise anche mio nonno. Stava per uscire dalla porta con un caffè bollente in un bicchiere di polistirolo preso dal tavolo del catering, ed era già in ritardo per il suo settimanale appuntamento col dolore.
«Nel 1975 il viaggio spaziale è ancora un’avventura incredibilmente emozionante» disse il giovane ingegnere. «Ma non preoccupatevi, perché qui alla NASA stiamo facendo di tutto perché non lo sia più.»
Nonno rise di nuovo, attardandosi sulla porta. Dal suo punto di vista, l’eroismo (ammesso che esistesse) era sempre il residuo dell’addestramento. Se ti addestravano bene, allora le avventure preferivi evitarle.
Sentendolo ridere, una donna seduta nell’ultima fila si girò e gli sorrise. Diede un paio di colpetti sulla sedia vuota accanto a lei e alzò un sopracciglio. Era sulla cinquantina, ma con mani da ragazza, lo smalto rosa geranio. Era la vicedirettrice amministrativa del Walt Disney World e la segretaria d’assemblea del comitato che ogni anno organizzava il congresso aerospaziale. Viveva a Orlando. Aveva una figlia alla Duke University e un ex marito che aveva pilotato i caccia della marina in Vietnam. Profumava di L’Air du Temps. Portava anche dei collant, indumento con cui fino alla sera prima mio nonno non era mai entrato in contatto ravvicinato, avendo la nonna preferito fino all’ultimo – 10 febbraio 1974, all’età (probabile) di cinquantadue anni – culotte e reggicalze. Compagna di classe di Tony Bennet alle superiori. Fotografa dilettante. Proprietaria di una Mercury Cougar ultimo modello color latte condensato.
Nonno passò in rassegna questo mazzo di fatti cercando di individuare l’asso del suo nome. Con orrore si rese conto che dalla sera prima l’aveva dimenticato. Il nome della prima donna con cui era andato a letto da quando aveva perso sua moglie, la prima dal 1947 che non fosse stata mia nonna! Lei diede un altro colpetto sulla sedia vuota, come se cercasse di attirare un micetto riluttante. Nonno sentì un formicolio nelle guance e dietro il collo. Scosse la testa sperando che la sua espressione risultasse malinconica, ma sentendo che risultava nauseata, come di fatto era. Si girò per andarsene, usando il bicchiere di caffè bollente come punto focale di attenzione, della volontà di trattenersi dal vomitare. Accompagnò il suo stomaco e il bicchiere troppo pieno giù per il corridoio moquettato come se non avesse la minima fretta. Superò la sala Panther, la sala Manatee, uscì nell’atrio del motel.
Lei lo raggiunse al banco accoglienza, che era coperto da pile di copie degli atti congressuali dell’anno prima, quando il relatore ospite era stato Gene Roddenberry. Il loro flirt era cominciato al cocktail di benvenuto di venerdì sera alla Ramon’s Rainbow Room, in cima a un ammasso modernista da era spaziale nel centro di Cocoa Beach, con la reciproca confessione dell’amore per Star Trek. Mio nonno frequentava quel congresso da dieci anni consecutivi, in qualità di comproprietario e responsabile di sviluppo prodotto della MRX, Inc., e fino a quella sera aveva saltato nove cocktail di benvenuto consecutivi. Non poteva escludere del tutto la possibilità, anche durante quell’anno di lutto per mia nonna, di essere stato a caccia di compagnia femminile. Ma una conferenza annuale di professionisti e dilettanti della missilistica e del viaggio spaziale era abbastanza stupido come terreno di caccia, perfino alla Ramon’s Rainbow Room.
«Tutto bene, mister?» La donna gli aveva portato un coperchio di plastica per il bicchiere e una banana. Gli scrutò rapidamente il viso, il sudore all’attaccatura dei capelli, la cravatta con il nodo riciclato dal giorno prima. «Sei un po’ verdognolo. Tieni.»
Gli diede la banana. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca del blazer di seta grezza, più o meno del colore delle sue unghie, che doveva essersi messa al mattino una volta uscita di soppiatto dalla sua stanza. Alle sette in punto la sveglia del nonno era suonata, e cercandola con il braccio lì dove da molti mesi c’erano solo fredde lenzuola, la traccia del suo calore e uno strascico di L’Air du Temps gli avevano fatto sembrare il letto più vuoto del solito; conviveva con l’assenza da undici mesi, ma non si era mai sentito così solo.
«Sono certa che sia l’ultimo dei tuoi desideri, ma se mangi questa banana ti sentirai meglio.» Gli asciugò la fronte umida col fazzoletto. «Potassio. Elettroliti.»
Nonno sbucciò la banana, ne mangiò mezza. Si sentì quasi subito meglio. «Ah» disse, sentendosi stupido per non esserci arrivato prima. «Sono i postumi di ieri.»
«Era un bel pezzo, eh?»
Più che una domanda, era un laminato di allusione e impertinenza. La sera prima, il nonno doveva aver consumato più alcol che in tutti gli anni trascorsi dalla fine della guerra. Era evidente che lei sapeva più cose sul suo conto e sulla sua vita di quante lui ricordasse di avergliene rivelate. Interrogò rapidamente la memoria, concludendo che parte della sera prima con tutta probabilità non sarebbe mai più riemersa. Sperò di non aver deluso sessualmente quella brava donna. Sperò di non averle pianto sulla spalla. Temette di aver fatto entrambe le cose.
«È meglio che vai» disse lei. Guardò il suo orologio da polso, un grosso Accutron Astronaut da uomo. La signora era una fanatica dello spazio fatta e finita. «Per Melbourne una mezz’oretta ci vuole, a seconda del traffico.»
Fra le cose che il nonno non ricordava di averle detto c’era evidentemente anche che avrebbe perso l’incontro di quel mattino su «Space Shuttle (STS): a che punto siamo» per andare in macchina a Melbourne, in Florida, un posto dove non era mai stato, a dire kaddish per la nonna. Aveva trovato la Beth Isaac sulle Pagine Gialle.
«Dammi» gli disse lei. Gli prese il bicchiere di caffè e lo chiuse affettuosamente con il coperchio che aveva portato. Una goccia le schizzò sul pollice, e lei fece: «Ahi». La leccò e gli restituì il bicchiere. «In aramaico, giusto?»
A quanto pareva le aveva fornito parecchi dettagli sulle usanze ebraiche in materia di morte e di lutto. «Esatto» rispose.
«E l’aramaico dov’è che si parla?»
«Da nessuna parte.»*
Lei gli diede una strizzatina al braccio, appena sopra il gomito. Nonno non fu contento di intuire nei suoi occhi una certa dose di pietà. Lei gli sfiorò la guancia con le labbra. «Finisci la banana» disse.
Quel pomeriggio, tornato dal suo impegno a Melbourne, l’avrebbe avvistata mentre entrava nella sala ricevimenti dell’Atlantis Beach Lodge per presenziare al pranzo di premiazione, in mezzo al gruppo di ammiratori e appassionati che circondava l’imponente e canuto signore venuto a Cocoa Beach per ritirare il premio in questione. Quell’avvistamento sarebbe stato, nel successivo ricordo di mio nonno, l’ultima volta che l’aveva vista. Eppure si sarebbe rivelata una figura cruciale nel plasmare il successivo corso della sua vita.
Finì la banana mentre usciva per andare a prendere la macchina, e fu allora che di colpo gli tornò in mente il suo nome, anche se anni dopo, quando mi raccontò questa storia, l’aveva nuovamente dimenticato.*
* * *
«Ogni sabato per un anno» mi disse mio nonno. «Non importa dove fossi. E di posti ne ho girati. Tuo padre e Ray, lasciatelo dire, coi loro casini erano andati parecchio lontano.»
Faceva caldo, quel pomeriggio. Su sua richiesta l’avevo portato nel patio che amava osservare, oltre la finestra, dal suo letto d’ospedale in affitto. L’abutilon era in fiore, coperto di mille grasse lanterne rosse. Nella mangiatoia per gli uccelli c’era stato parecchio movimento, e il ciottolato sottostante era coperto di semi. «Sono riusciti a farsi citare in giudizio in quattro Stati. New York, New Jersey, Maryland e Pennsylvania.»
«E nel Delaware.»
«È vero. Anche nel Delaware. Come fai a saperlo?»
«Curiosavo.»
Da bambino era l’unico modo per reperire informazioni certe.
«Ti ricordi quella volta, o forse non te la ricordi… L’estate che tu e tuo fratello siete venuti a stare da noi.»
«Quando mamma preparava l’esame di Stato.»
«Stavate giocando fuori. E tuo fratello… mi pare avesse pestato una cacca di cane. Senza accorgersene.»
«Vagamente.»
«Dopo un po’ siete rientrati, avevate finito di giocare. Lui va in cucina. Poi in soggiorno, nella stanza della TV. Su per le scale, giù per le scale. In bagno. In garage. Entra perfino nel ripostiglio! Come se stesse mostrando la casa a qualcuno. E in ogni stanza lascia una piccola impronta marrone puzzolente.»
Risi.
«Vedi?» disse lui. «Mica sei l’unico che si inventa delle belle metafore.»
«Già.»
«Mi riferisco al casino che hanno combinato tuo padre e quell’idiota di mio fratello.»
«Sì, c’ero arrivato.»
«Cioè, tua madre si è appena laureata in giurisprudenza. E di colpo deve perdere la faccia? La casa? Allora mi sono messo a girare, Washington, Baltimora. Cercavo di capire quanta merda c’era e fin dove l’avevano portata. Poi ho iniziato a tentare di venirne a capo, di trattare con il fisco. Con quelli che gli avevano fatto causa. A tuo padre aveva fatto causa anche Sam Chabon, lo sai?»
«Sì.»
«Suo zio che gli fa causa.»
«Roba di cui andar fieri.»
«Scusa» disse il nonno. «È tuo padre, è giusto che tu gli voglia bene.»
«Giusto no» dissi. «Ma gliene voglio.»
«Comunque sia, non importa dove fossi, se era sabato io prendevo e andavo a dire kaddish. All’Adath Jeshurun o alla B’nai Abraham di Philadelphia. All’Ahavas Sholom di Baltimora, ovviamente. Alla Rodef Sholom di Pittsburgh. Alla Beth El di Silver Spring.»
«Alla Beth El mi ci hai portato.»
«Un paio di volte.»
Il Bastardino apparve sul tetto e cominciò il suo sopralluogo.
«Non so nemmeno perché lo facevo, sinceramente. Trascinarmi settimana dopo settimana in posti come Reisterstown Road o non so dove per dire una preghiera.»
«Qualcosa ne avrai ricavato.»
«O comunque l’intenzione era quella.» Tirò fuori la lingua. «Momenti di debolezza.»
Il Bastardino cominciò a scendere giù per il tetto.
«Ma guarda quello.»
«Lo so. Mi verrebbe voglia di dargli un po’ di semi e farla finita.»
«Non saprebbe comunque cosa farsene» disse mio nonno. «Penserebbe che ci hai messo il veleno.»
«Dici che è così sveglio?»
«È un bastardino.»
Non aggiungemmo altro per un po’, e lui chiuse gli occhi. Mi aveva già detto che si sentiva il sole «nelle ossa» e che il tepore era «piacevole».
«Con la morte siamo bravi, questo sì» disse poi.
«Noi ebrei?»
«È tutto un: “Fai questo, fai quello. Non fare quest’altro”. Ecco cosa ti serve, qualcuno che ti dica cosa fare. Strappa un nastro, copri lo specchio. Osserva la settimana di rito. Fatti crescere la barba per un mese. E poi per altri undici, ogni volta che vai in una sinagoga, alzati in piedi e… ed è come… non lo so.»
Di nuovo chiuse gli occhi. Un refolo di brezza gli mosse il morbido ciuffo bianco. «Se ti muore una moglie, un fratello, o non sia mai un figlio. Nella tua vita rimane un buco. Quel buco è molto meglio far finta che non ci sia. Non provare nemmeno a, come si dice oggi, passarci sopra.»
Pensai che mi sembrava intrinseco alla natura umana trascorrere la prima parte della vita a deridere gli stereotipi e le convenzioni degli anziani, e la seconda a deridere gli stereotipi e le convenzioni dei giovani.
«Per cui, come dire, quando ti tocca dire kaddish tu ti alzi in piedi, fai vedere a tutti quel buco e dici: “Ecco. Ecco con cosa devo convivere, con questo buco. Per undici mesi ogni settimana. Ed è una cosa che non va mai via, non te la puoi ‘lasciare alle spalle’”.»
«Si può dire anche così.»
«E poi dopo un po’ ti abitui. Almeno in teoria. Per quello io ci andavo ogni settimana, non importa dove mi trovassi. Per abituarmi. Con i miei genitori aveva funzionato. Pensavo che forse avrebbe funzionato anche con la nonna.»
* * *
La Congregazione Beth Isaac aveva sede in un villino modernista anni Cinquanta i cui timpani azzurri tradivano la precedente funzione di International House of Pancakes. E in effetti da quelle parti, scoprì il nonno, la shul veniva chiamata «Beth IHOP». In una vetrina appesa a un muro dell’ingresso, in mezzo a ritagli di giornale che lodavano la generosità e lo spirito comunitario di svariati fedeli vivi e morti, nonno notò un trofeo decorato in cima da un ragazzetto d’oro con una racchetta. Accanto c’era la foto di un giovane uomo in carne che stringeva la mano a un tizio smilzo, entrambi in polo bianca e calzoncini bianchi. L’atleta dal volto ossuto, c’era scritto, era il campione del British Open Geoff Hunt. Il giovane robusto all’altro capo della stretta di mano risultava essere il rabbino Lance Teppler.
Entrando nel santuario, un’anziana fedele vide il nonno che guardava la vetrina. Chiese al suo compagno di aspettarla un attimo, un momento solo. Indossava pantaloni di lana sformati arancione cheddar, e un maglione, anche quello sformato e di lana, a papaveri nero arancio su sfondo bianco. Erano arancioni anche gli occhiali.
«Il rabbino Lance è il più grande campione ebreo di squash al mondo» comunicò al nonno.
Lui rise, più forte e con più trasporto di quanto avrebbe voluto. Più forte e con più trasporto di quanto avesse riso da mesi, da anni, da quando aveva portato mio padre a vedere Buddy Hackett* al Latin Palace nel 1966. C’era qualcosa di assurdo non solo in quell’affermazione, ma nell’espressione solenne e nell’accento da vecchio continente con cui lei l’aveva pronunciata. Ridendo, il nonno arrivò a sentire male; male al cuore. E si dispiacque vedendo che l’anziana signora, comprensibilmente, se l’era presa. Il suo tentativo di spacciare la risata per un attacco di tosse non la ingannò. Gli voltò la schiena.
«È pazzo» disse in yiddish la donna al suo compagno, con uno di quei sussurri perfettamente udibili a cui da millenni le anziane ebree ricorrevano nel generoso tentativo di garantire che nessuno, e in particolare il bersaglio delle loro maldicenze, ignorasse mai chi era il bersaglio delle maldicenze in questione. Nonno colse appena la risposta in inglese del compagno: «Secondo me ha bevuto».
Non c’era tanta gente quella mattina alla Beth IHOP, e salendo tutto baldanzoso sul bimah il rabbino Lance individuò immediatamente la faccia nuova con la cravatta mal annodata in ultima fila. Fece un cenno d’assenso, con un’espressione indecisa fra il compiaciuto e il rassicurante: Sei in ottime mani. Era biondo, con la mascella squadrata, bello di una bellezza alla George Segal.
«Vorrei cominciar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sognando la luna
  4. Nota dell’autore
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. XII
  17. XIII
  18. XIV
  19. XV
  20. XVI
  21. XVII
  22. XVIII
  23. XIX
  24. XX
  25. XXI
  26. XXII
  27. XXIII
  28. XXIV
  29. XXV
  30. XXVI
  31. XXVII
  32. XXVIII
  33. XXIX
  34. XXX
  35. XXXI
  36. XXXII
  37. XXXIII
  38. XXXIV
  39. XXXV
  40. XXXVI
  41. Ringraziamenti