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Padre nostro
Santo Padre, il 13 marzo 2013 per me è stata una serata un po’ strana. Ero davanti alla televisione, avevo appena recitato i vespri, quindi per la liturgia della Chiesa ero già nel cuore del 14 marzo, e il 14 marzo compie gli anni la mia mamma. Il 13 marzo lei è uscito dalla loggia vaticana e noi abbiamo appreso con immenso stupore che si sarebbe fatto chiamare Francesco, Papa Francesco, e il mio papà si chiama Francesco… Quella sera ho avuto la sensazione di avere Dio così vicino come non l’avevo mai avuto prima. Per questo mi piace iniziare chiamandola Santo Padre. Per due motivi: prima di tutto perché c’è il termine Padre che richiama la figliolanza, e poi Santo perché lei è un padre che proclama la santità di Dio. Mi piace partire proprio da qui, dal concetto di «padre», perché nella preghiera che mi ha insegnato papà quando ero bambino, il Padre nostro, c’è quasi lo stupore nel vedere un Dio che si fa dare del tu dalle sue creature. Mi piacerebbe sapere da lei l’emozione di pregare il Padre nostro dando del tu a Dio, anche per il Papa oggi.
A me dà sicurezza. Incomincio da qui: il Padre nostro mi dà sicurezza, non mi sento sradicato, non ho un senso di orfanezza. Ho un padre, un papà che mi porta la storia, mi fa vedere la radice, mi custodisce, mi porta avanti e anche un papà davanti al quale io mi sento sempre bambino, perché Lui è grande, è Dio, e Gesù ha chiesto quello, di sentirsi bambino. Dio offre la sicurezza di un padre, ma un padre che ti accompagna, ti aspetta. Pensiamo alle parabole del capitolo 15 del Vangelo di Luca: la pecorella smarrita, il figlio prodigo… Un padre che, quando ti sei pentito delle strade brutte, delle strade difficili che hai preso e ti prepari il discorso da fare, non ti lascia parlare, ti abbraccia, ti festeggia. Un papà che ammonisce – «Stai attento, tieni conto di questo…» – ma ti lascia libero. Credo che oggi il mondo abbia un po’ perso il senso della paternità. È un mondo malato di orfanezza. Dire e sentire il «nostro» del Padre nostro significa capire che non sono figlio unico. È un pericolo, quello di sentirci figli unici, che corriamo noi cristiani. No, no: tutti, anche quelli disprezzati, sono figli dello stesso Padre. Gesù ci dice: saranno i peccatori, le prostitute, gli scartati a entrare prima di voi nel regno dei cieli, tutti.
Infatti penso che se potessimo noi metteremmo il cartello «Proprietà privata», solo mia: è proprio questa la tentazione. Sarebbe facile pregare un Dio che ha solo un figlio e quel figlio sono io. Invece sapere che il Padre è «nostro» forse ci fa sentire un po’ meno soli, nei momenti difficili ma anche in quelli di spensieratezza.
«Non vi lascerò orfani»
Una parola più di ogni altra è cara a noi cristiani, perché è il nome con il quale Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio: «padre». Il senso di questo nome ha ricevuto una nuova profondità proprio a partire dal modo in cui Gesù lo usava per rivolgersi a Dio e manifestare il suo speciale rapporto con Lui. Il mistero benedetto dell’intimità di Dio, Padre, Figlio e Spirito, rivelato da Gesù, è il cuore della nostra fede cristiana.
«Padre» è una parola nota a tutti, una parola universale. Essa indica una relazione fondamentale la cui realtà è antica quanto la storia dell’uomo. Oggi, tuttavia, si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una «società senza padri». In altri termini, in particolare nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa. In un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione: genitori che trattavano i figli come servi, non rispettando le esigenze personali della loro crescita; padri che non li aiutavano a intraprendere la loro strada con libertà – ma non è facile educare un figlio in libertà; padri che non li aiutavano ad assumere le proprie responsabilità per costruire il loro futuro e quello della società.
Questo, certamente, è un atteggiamento non buono; però come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su se stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani. Già da vescovo di Buenos Aires avvertivo il senso di orfanezza che vivono oggi i ragazzi; e spesso domandavo ai papà se giocavano con i loro figli, se avevano il coraggio e l’amore di perdere tempo con i figli. E la risposta era brutta, nella maggioranza dei casi: «Mah, non posso, perché ho tanto lavoro…». E il padre era assente da quel figliolo che cresceva, non giocava con lui, no, non perdeva tempo con lui.
Ora, vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi. E in effetti le devianze dei bambini e degli adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli nella loro vita di ogni giorno, alla carenza di vicinanza, alla carenza di amore da parte dei padri. È più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani.
Sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti, anche fisicamente, da casa, ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano con i loro figli, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, quei valori, quelle regole di vita di cui hanno bisogno come del pane. La qualità educativa della presenza paterna è tanto più necessaria quanto più il papà è costretto dal lavoro a stare lontano da casa. A volte sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare in famiglia e come educare i figli. E allora, nel dubbio, si astengono, si ritirano e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto «alla pari» con i figli. È vero che tu devi essere «compagno» di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre! Se tu ti comporti soltanto come un compagno alla pari del figlio, questo non farà bene al ragazzo.
E questo problema lo vediamo anche nella comunità civile. La comunità civile, con le sue istituzioni, ha una certa responsabilità – possiamo dire paterna – verso i giovani, una responsabilità che a volte trascura o esercita male. Anch’essa spesso li lascia orfani e non propone loro una verità di prospettiva. I giovani rimangono, così, orfani di strade sicure da percorrere, orfani di maestri di cui fidarsi, orfani di ideali che riscaldino il cuore, orfani di valori e di speranze che li sostengano quotidianamente. Vengono riempiti magari di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; vengono illusi con il dio denaro, e negate loro le vere ricchezze.
E allora farà bene a tutti, ai padri e ai figli, riascoltare la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18). È Lui, infatti, la Via da percorrere, il Maestro da ascoltare, la Speranza che il mondo può cambiare, che l’amore vince l’odio, che può esserci un futuro di fraternità e di pace per tutti.
Che sei nei cieli
Quella localizzazione, «nei cieli»: mi colpisce l’estrema vicinanza di chi dice «papà», però anche la distanza. Tra questa vicinanza e questa distanza nascono le religioni. Forse la cosa bella della nostra è che non è l’uomo che va in cerca di Dio, ma è Dio che si mette alla ricerca dell’uomo. Che cosa sono i «cieli»?
I «cieli» significano la grandezza di Dio, l’onnipotenza. Lui è il primo, è grande, è colui che ci ha fatto. I «cieli» indicano l’immensità della sua potenza, del suo amore, della sua bellezza. Ma pensiamo al Dio di Abramo che si avvicina e gli dice: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1). Guarda, vai avanti, credi, spera, non mollare. Un Dio così vicino, dunque; ma pensiamo anche al Dio che si rivela sul Sina...