Il trasformista
Avviso a chi sta leggendo. Questo racconto non è come gli altri che lo precedono e che hanno avuto per protagonisti un doge, un prete, un commendatore, un padre della patria, un tenore, un dissidente... È la storia di un trasformista, cioè di un personaggio che di volta in volta si adatta agli avvenimenti e che non può essere raccontato come un personaggio normale, perché passa in continuazione da una storia all’altra. Davanti a un uomo come l’ispettore della polizia segreta fascista (poi generale dell’esercito antifascista, poi questore di Roma al tempo della democrazia e della Repubblica) Saverio Polito, uno scrittore deve prendere coscienza dei suoi limiti, e deve chiedere aiuto al lettore. Deve dirgli: questa storia io posso fartela conoscere soltanto attraverso le testimonianze di chi l’ha vissuta, e ho bisogno che tu mi dia una mano per rimetterla insieme; ma è una bella storia, e non ti pentirai di avermi aiutato. Ci sono dentro due testimoni d’eccezione: i coniugi Rachele e Benito Mussolini, che in un’estate di tanti anni fa incrociarono le loro vite con quella del trasformista, e ne ebbero un’avventura indimenticabile. (Per loro e anche per noi.) E poi, ci sono le annotazioni di un anonimo funzionario di polizia, e le mie annotazioni con tutto ciò che è venuto alla luce in seguito su quei fatti. In quanto al personaggio principale, cioè all’ex ispettore Saverio Polito... quello, caro lettore, devi immaginartelo da solo. Io non te lo racconto, per due buonissime ragioni. La prima ragione è che, come si fa a raccontare un uomo che si sta trasformando? La seconda ragione è che Saverio Polito non è soltanto Saverio Polito, ma è il riassunto e, per così dire, il simbolo di una metamorfosi che interessò milioni di italiani. Da fascisti ad antifascisti. Un «esodo» gigantesco, una migrazione che si compì in pochi mesi e che per qualcuno, come Polito, si compì in un istante. Un momento prima erano lì, e un momento dopo erano già qui... Lo scenario che fa da sfondo alla storia del trasformista è quello della seconda guerra mondiale, tra l’arrivo in Italia degli Alleati, la caduta del fascismo e il governo del generale Pietro Badoglio. I fatti sono molto semplici. L’ex ispettore di polizia Saverio Polito viene incaricato di scortare l’ex dittatore Benito Mussolini e sua moglie Rachele, portandoli, prima l’uno poi l’altra, in due luoghi appartati e lontani dalla guerra. Tutt’e due i viaggi avvengono di notte. Buona lettura!
Benito Mussolini (parla di sé in terza persona, come Giulio Cesare):
La sera era già calata, quando un ufficiale entrò nella stanza e disse a Mussolini:
«È venuto l’ordine di partire!».
Mussolini discese accompagnato da un gruppo di ufficiali dai quali, giunto al pianterreno, si accomiatò, e mentre stava per salire nella macchina un generale si presentò con queste parole:
«Generale di brigata Polito, capo della Polizia militare del Comando supremo!».
Mussolini non domandò nulla, convinto che la meta del viaggio notturno fosse la Rocca delle Caminate. Le tendine erano abbassate, ma non i vetri: da uno spiraglio, Mussolini si avvide che la macchina passava davanti all’ospedale di Santo Spirito. Non si andava dunque verso la Flaminia, ma verso l’Appia. Agli innumerevoli posti di blocco i carabinieri, avvertiti dalle staffette, si limitavano a far rallentare un poco la corsa della macchina. Giunto all’imbocco della grande strada per Albano, Mussolini domandò:
«Dove andiamo?».
«Verso il sud.»
«Non alla Rocca?»
«È venuto un altro ordine.»
«Ma voi chi siete? Io ho conosciuto in altri tempi un ispettore di P.S. che si chiamava Polito.»
«Sono io.»
«Come siete diventato generale?»
«Per equiparazione di grado.»
L’ispettore di P.S. Polito era ben noto a Mussolini. Egli aveva effettuato, durante gli anni del Regime, alcune brillanti operazioni come la cattura di Cesare Rossi a Campione e la liquidazione della banda Pintor in Sardegna. Il Polito durante il viaggio narrò molti interessanti e anche inediti particolari sulle due operazioni. Dopo Cisterna la macchina rallentò la sua corsa. I discorsi cessarono. Il Polito, che aveva continuamente fumato, abbassò il vetro e chiamò il colonnello dei carabinieri Pelaghi per sapere dove erano.
«Vicino a Gaeta» rispose.
«È Gaeta la mia nuova residenza?» chiese Mussolini. «Forse dove fu relegato Mazzini? Troppo onore.»
«Non è ancora stabilito!» ribatté Polito.
Giunti a Gaeta, deserta, un uomo si fece incontro agitando una lampadina. La vettura si fermò e un ufficiale di Marina disse:
«Al molo Ciano!».
Ivi attendeva l’ammiraglio Maugeri che accompagnò Mussolini alla corvetta Persefone. Di lì a poco levò le ancore. Già albeggiava. Mussolini scese nella cabina insieme con gli ufficiali che lo scortavano. In vista dell’isola di Ventotene, a giorno fatto, la corvetta si fermò. L’ispettore Polito scese per vedere se l’isola fosse conveniente per ospitare Mussolini. Di lì a poco tornò e lo escluse. Nell’isola c’era un presidio germanico. La corvetta proseguì allora per l’isola di Ponza, dove, entrata nella rada, gettò le ancore alle ore 13 del giorno 28 luglio. Polito venne verso Mussolini e indicandogli una casa verdastra, seminascosta da grandi pescherecci in disarmo, disse: «Quello è il vostro domicilio temporaneo». Intanto non si sa per quale fenomeno tutte le finestre e i balconi si erano gremiti di uomini e donne, armati di binocoli, che seguivano la barca che si dirigeva verso terra. In un baleno tutta l’isola conobbe l’arrivo.
Rachele Mussolini (detta la sua testimonianza a un funzionario di polizia):
Nella Villa Feltrinelli in Gargnano del Garda il 4 aprile 1944-XXII, alla presenza del sottoscritto, funzionario di P.S. ed ufficiale di Polizia Giudiziaria, l’eccellenza donna Rachele Mussolini dichiara:
«Nell’interesse della giustizia sento il dovere di denunziare il trattamento usatomi da un alto funzionario del governo di Badoglio, all’atto del mio fermo e dell’accompagnamento da Roma alla Rocca delle Caminate.
A sette giorni dalla tragedia che si era abbattuta sull’Italia e sulla mia famiglia, la sera del 2 agosto, dopo perentorio preavviso, si presentò a Villa Torlonia, accompagnato da un tenente colonnello dei Carabinieri, l’ispettore generale di Polizia Saverio Polito, incaricato dal governo di condurmi via da Roma.
Conoscendo da anni il generale Polito, che in ogni occasione si era mostrato devoto al Duce e alla mia famiglia, fui lieta che la scelta per il mio accompagnamento fosse caduta su di lui, che credevo gentiluomo. La realtà deluse la mia fiducia in modo così brutale, da lasciare nel mio animo un’impronta di sdegno che non riuscirò a cancellare finché avrò vita.
Nessuna perquisizione venne operata nel mio domicilio. Chiesi ed ottenni di portare con me, unica ricchezza in casa Mussolini, le decorazioni di mio marito nel mio piccolo bagaglio, in quella stessa piccola valigia che il generale Polito tante volte, in passato, a Bologna, aveva voluto portare per me, dichiarandosi onorato di farlo.
Mi fecero salire in una grossa autovettura, nella quale prese posto accanto a me il generale, mentre il colonnello dei Carabinieri si mise davanti con l’autista.
Appena la vettura fu in moto il Polito si rivelò in tutta la bassezza del suo animo, dando sfogo ad ingiustificato livore verso il Duce. Smesso il contegno di diplomazia che si era imposto fino al momento di salire in macchina, il generale, con un continuo sorriso di scherno sulle labbra immonde, cominciò a darmi del tu come a una qualsiasi volgare detenuta. Egli disse che ormai Mussolini era a terra e che avrebbe inesorabilmente pagato la rovina causata all’Italia e tutte le malefatte commesse in tanti anni di governo.
Non ebbi la forza di resistere alle sue frasi ingiuriose, per quanto sapessi di essere in suo potere, e reagii contestandogli la sua partecipazione e quella dei suoi capi al tradimento infame, mentre tutti, a tutti i venti e in ogni dove, avevano professata fedeltà al Duce e incondizionata adesione all’opera sua, agendo, invece, in tutti i modi, sotto terra, per la rovina dell’Italia pur di abbattere Mussolini.
La rabbia repressa mi diede le lacrime agli occhi ed egli: “Cosa piangi a fare? Vuoi forse accorarti per tuo marito? Non curarti di lui; ha fatto sempre i suoi comodi, ti ha offeso con quelle donne e con tante altre. Pensa a te ora; tu puoi salvarti in qualche modo, se ci intenderemo, perché, in fondo, con te non l’ha nessuno, tu non ne hai colpa”.
Intanto, aveva tolto la giacca, aveva sbottonato il pantalone e sprofondatosi sguaiatamente sui cuscini della macchina, si avvicinava a me fino ad opprimermi e, tra una boccata e l’altra di un fetido ed asfissiante sigaro, si sforzava di assumere un atteggiamento “accomodante” che accresceva lo schifo. Cercavo di serrarmi quanto più possibile al mio angolo per sfuggire alle insidie che mi tendeva quella bestia vestita da generale. Ma la mia resistenza sembrava divertire il vile che incalzava sempre più: “Non devi aver rimorsi per tuo marito. Pensa che se diventi la mia amica, ti salvi; con me potrai star bene più che con Mussolini”. Così dicendo prese a palparmi ed a baciare la mia persona come meglio poteva.
Avrei troncata in quel punto la turpe vicenda, usando della pistola che avevo nella mia borsa se non mi avesse trattenuto il pensiero di dover rivedere i miei figli, per tentare di proteggerli in qualche modo. Tenevo a bada come potevo l’energumeno che non si servì solo di frasi blande per indurmi al suo volere: “In Italia, subito dopo Badoglio, sono io che conto. Posso fucilare chi voglio e quando voglio; anche tu sei in mio potere”.
E, per dar più forza persuasiva alle sue parole, mi mostrava ora la pistola, ora una bomba. Io ero seduta così come mi vedete, serrandomi con le mani la gonna sotto le gambe, tuttavia egli riuscì ad aver ragione del mio braccio sinistro ed a portare la mia mano tra le sue luride vergogne ed a scoprirmi le gambe. Ero avvilita; le mie implorazioni di lasciarmi stare e avere almeno rispetto del mio dolore a nulla servivano.
Ad un certo punto, nel viaggio reso ad arte lunghissimo, la vettura si arrestò perché non si era sulla strada giusta. Il generale ed il colonnello scesero dalla macchina e profittarono della sosta per cercare dell’acqua da bere. Io rimasi chiusa nella vettura. L’acqua non fu trovata ed allora io offrii una bottiglia di caffè sport che avevo con me. Della bottiglia mi fu restituito il vuoto soltanto.
Durante il percorso ebbi modo di accorgermi che in tutti i paesi e villaggi dalla vettura che ci precedeva venivano lanciati dei manifestini che il vento faceva cadere anche contro i vetri della nostra macchina. Feci intendere di aver capito e il generale mi disse: “Sei abbastanza furba, tu”. Ricordo di aver chiesto al Polito se mi consentivano di riunirmi ai miei figli, al che egli rispose: “Se ti metti d’accordo con me, potrai ottenere molte cose. Alla Rocca il trattamento dipende dalla tua decisione”. Mi diede la sua carta da visita, che vi consegno, sulla quale scrisse il suo numero di telefono che, a suo dire, poteva servirmi per quando, divenuta sua amica, avrei avuto bisogno di qualche cosa.
Durante tutto il viaggio l’ufficiale dei Carabinieri, che, come ho detto, sedeva accanto all’autista, mantenne contegno serio e, nelle poche volte che mi rivolse la parola, rispettoso.
Egli non si accorse o meglio finse di non accorgersi delle manovre che il generale Polito eseguiva nell’interno della vettura. Ritengo però che l’autista che conduceva la macchina sia in grado di confermare, almeno in parte, tutto quanto vi ho esposto.
Desidero che tale verità sia portata a conoscenza della giustizia perché si sappia di quale fango si tentò di insozzare, attraverso la mia persona, quella di Mussolini».
Firmato: Rachele Mussolini
Dr. Alberto Maddalena
Note di ufficio (scritte da un anonimo funzionario dopo la fine della guerra e incluse nel fascicolo della denuncia di Rachele Mussolini contro il generale Polito):
Ispettore generale di P.S. Saverio Polito, generale di brigata per equiparazione di grado, addetto al Ministero della Guerra Stato Maggiore. Era stato, a suo tempo, uno dei funzionari di P.S. incaricati dell’inchiesta e delle operazioni a carico di Cesare Rossi. Durante il processo condotto in seguito all’acclusa denuncia di donna Rachele Mussolini fu detenuto nelle carceri di Parma. Poi fu liberato, non avendo le autorità della Polizia Repubblicana attribuito alcuna serietà ed attendibilità alla riferita denunzia. Si noti che il Polito aveva già oltrepassato i sessant’anni; da parte sua donna Rachele, magra, sciupata, piccola, aveva tutta l’apparenza di una settantenne. Ad ogni modo, qualche tempo dopo, l’ispettore generale Polito veniva arrestato dalle SS e, benché suo figlio coprisse il grado di capitano della Guardia Repubblicana, deportato in Germania. Da allora non se ne è più avuta notizia alcuna.
Alla Rocca delle Caminate si trovavano, già prima del 25 luglio, i due figli minori del Duce: Romano e Annamaria.
Anche Mussolini in data 28 luglio doveva trasferirsi alla Rocca delle Caminate, come da promessa fattagli, tramite il tenente di divisione Ferone, direttamente dal maresciallo Badoglio. Solo all’ultimo momento, in seguito ad una comunicazione del prefetto ex squadrista di Forlì che lasciava intravedere la possibilità di torbidi da parte della popolazione della zona, fu dato ordine all’ispettore generale Polito di scortare Mussolini a Ponza.
Dottor Alberto Maddalena, tenente di P.S. Fu assegnato alla custodia di donna Rachele Mussolini e figli alla Rocca. In data 3 settembre 1943 recapitò una lettera di Mussolini dal Gran Sasso alla Rocca, diretta alla propria moglie. Naturalmente non aveva a far ciò nessuna autorizzazione o ordine da parte dei superiori. Entrò poi nelle grazie di donna Rachele Mussolini, e di questa cosa si andò vantando con tutti durante i mesi della Repubblica. Non sembra abbia commesso però atti rilevanti. Sembra che attualmente si trovi detenuto nelle carceri di San Vittore a Milano.
Questi, dunque, sono i racconti dei testimoni: che il lettore di oggi deve interpretare con il senno del poi, perché nascondono o quantomeno velano alcuni fatti, e perché contengono due notizie sicuramente sbagliate. Nelle Note di ufficio: la prima notizia sbagliata è quella della liberazione di Polito dal carcere di Parma, «non avendo le autorità della Polizia Repubblicana attribuito alcuna serietà ed attendibilità alla riferita denunzia». Sappiamo che le cose andarono in tutt’altro modo. Mussolini, liberato dai tedeschi e messo a capo di un governo loro alleato, fece processare Polito a Bergamo da un tribunale speciale che lo condannò in data 20 marzo 1945 a ventiquattro (ventiquattro!) anni di carcere, per «atti di libidine violenta». La seconda notizia sbagliata è quella di Polito deportato in Germania, mentre invece lui, alla fine della guerra, si trovava in carcere e si trovava in Italia. Queste due informazioni errate probabilmente furono fatte circolare ad arte e furono fatte circolare per volontà dello stesso Mussolini: il marito cornuto, che voleva prendersi sul suo «rivale» (possiamo chiamarlo così?) una rivincita memorabile e definitiva, facendolo sparire dalla circolazione senza che si sapesse più niente di lui.
Il marito cornuto, in questa storia, è molto presente ma si nasconde dietro alle sottane della moglie. La denuncia di Rachele Mussolini non contiene un’esplicita ammissione dell’atto sessuale tra lei e Polito, per i pudori dell’interessata e perché quell’atto sessuale, con una donna sposata a «quel» marito, era più che uno stupro. Era un sacrilegio! Anche la sentenza del tribunale di Bergamo, così prodiga di anni di carcere, non riconosce a Polito niente che poi lo autorizzi a vantarsi di ciò che ha fatto. A dire: «Ho scopato la moglie di Mussolini». Questo, mai! L’espressione «atti di libidine» non ha un significato preciso. L’onore di una donna (e quindi anche l’onore di suo marito) secondo la morale dell’epoca e secondo la morale fascista, r...