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GLI ALTI E BASSI DI UNA RELAZIONE CHE NON ESISTEVA
Per lui, l’odore di casa era più che altro l’odore di una ragazza che non conosceva.
Casa non erano quei tre piani scricchiolanti di arenaria in Carroll Street a Brooklyn, dove viveva la gran parte del tempo, ma questa grande villa accanto a un piccolo lago che comunicava con l’oceano, nella South Fork di Long Island, in un paese chiamato Wainscott. Aveva trascorso lì la metà delle vacanze estive e la metà dei fine settimana, per la maggior parte dei suoi anni.
Ray sedeva sul pavimento della sua camera tra pile di libri, vestiti, vecchi giocattoli, coperte, abiti da pioggia, attrezzature per la pesca e sport vari, e inspirava, cercando di trovare lei in tutte queste cose.
Era un vecchio odore, abituale e nostalgico, associato alla felicità e alla libertà dell’estate, all’aria aperta che entrava. Ma era anche un odore nuovo, alimentato ogni settimana, a cui si aggiungevano le particelle di un nuovo shampoo, di un nuovo vestito, della roba lucida che si metteva sulle labbra.
Con quella sensazione piena e struggente si alzò e andò a sdraiarsi sul letto, dove il suo profumo era sempre più forte. Trasmetteva una sensazione di vecchio agio, d’intimità notturna. Faceva sempre sogni belli, lì, quasi mai incubi. Mentre nel letto di Brooklyn ne faceva eccome, di incubi.
Rimase steso con indosso calzoncini e maglietta. Lasciò fuori i piedi sporchi e insabbiati, per rispetto. Di solito non aveva pensieri del genere.
Benché in quel letto dormisse dolci sonni, nell’ultimo anno si erano fatti più agitati. Dolcemente agitati. Dolcemente frustranti. L’odore, con le sue nuove fragranze, era diventato tanto uno stimolo quanto un conforto. Non sapeva con esattezza cosa fossero quelle fragranze, ma rimescolavano i suoi pensieri notturni in modo nuovo.
«Come va qui dentro?»
Si tirò su a sedere. Sua madre aveva bussato ed era entrata in un unico movimento.
«Stai già schiacciando un pisolino?» chiese.
«No, stavo solo…»
«Hai svuotato tutto l’armadio?»
Ray diede uno sguardo alla buia cabina armadio. «La gran parte. Ho cercato di lasciare la roba di Sasha com’era. Ma certe cose sono mischiate. E di altre non sono sicuro.»
«Sarebbe più semplice se ci fosse una luce, lì dentro» osservò sua madre.
Lui annuì. Dovevano essere due anni che non cambiava la lampadina. E molti di più che non puliva a fondo quello stanzino.
«Posso smettere ora?»
Lila gli scoccò un’occhiataccia. «Stai scherzando? Non hai fatto altro che buttare tutto per terra. Devi sistemare.»
«Per questo sono tornato a letto.»
Lei diede una stretta alla bandana che portava intorno alla testa. I suoi pantaloni erano incrostati di vernice vecchia e argilla. «Dovresti vedere la cucina. Sei fortunato che non ti abbia chiesto di aiutarmi lì.»
Ray si alzò, senza sentirsi fortunato. «Perché lo facciamo di nuovo?»
«L’hanno deciso le ragazze.»
«A me la casa sembra a posto.»
«Anche l’altra famiglia ci si metterà, la prossima settimana.»
«Potevamo far cominciare loro.»
«Rimettiti al lavoro, Ray. Ho lasciato dei sacchi della spazzatura e degli scatoloni in corridoio. Metti la roba che vuoi tenere nei cartoni. Puoi portarli nella rimessa quando hai finito e sistemarli per bene sugli scaffali.»
Ray ispezionò le mensole sulla parete. Negli anni lui e Sasha avevano stabilito taciti accordi sulla divisione dei cassetti, delle mensole e dello spazio nella cabina armadio.
Quasi tutti i libri appartenevano a lei. Il ciclo di Harry Potter era ancora lì, insieme a Narnia e alla trilogia di Queste oscure materie. Lui aveva completato Il Signore degli Anelli con Lo Hobbit. Ray aveva letto quasi tutti i libri di Sasha – tranne quelli proprio da ragazze –, a volte in parallelo con lei. Si era indignato quando stava leggendo uno dei suoi libri, forse l’ultimo Harry Potter, e lei se lo era riportato in città.
Tirò fuori un sacchetto da riciclo per i vecchi fumetti e le pile disordinate di compiti in classe. Tra questi trovò un vecchio test di scienze di lei (valutazione: 91%) e una sua relazione scritta a mano sul libro La tela di Carlotta. Impossibile confondere la calligrafia rotonda e regolare di Sasha con il disastro che combinava lui usando la matita.
L’armadio dedicato a conchiglie, alghe, pietre levigate, ooteche e denti di squalo era in condivisione. Non avrebbe saputo dire chi avesse trovato cosa: facevano entrambi incetta sulla spiaggia. E tutto apparteneva al mare, giusto? Eliminò alcuni coralli sbriciolati e lasciò il resto dov’era.
Del cassettone non gli importava: fin dalle medie lo aveva lasciato a lei, a parte l’ultimo ampio cassetto in fondo, con vecchi maglioni e felpe che usavano entrambi. Teneva il suo striminzito e insignificante guardaroba su due ripiani e su una barra appendiabiti nella parte sinistra del grande armadio. L’armadietto del bagno era pieno al novanta per cento di cose che appartenevano a lei. Certo, lui aveva pochissimi prodotti per l’igiene personale, in gran parte perché prendeva quelli di Sasha. Gli piaceva usare il suo shampoo, per portarsi dietro un po’ del suo profumo. Non provvedeva ai rifornimenti di dentifricio e filo interdentale da anni.
C’era un sacco di ciarpame mezzo rotto o inutile, che andava eliminato. Ci mise un po’ a passare in rassegna l’attrezzatura per la pesca. Dovette ammettere che aveva sconfinato dalla sua porzione di armadio, ma d’altra parte lei poteva usarla tranquillamente, a patto che ne avesse cura. Avevano una tavoletta da surf in condivisione e certe volte lui se la portava ancora al mare.
Anche lei la prendeva ogni tanto? Ray lo ignorava. Si ritrovò a sperarlo. Aveva sempre immaginato che lei amasse quel posto quanto lui: il piccolo lago, la spiaggia, quella strana casa, la vecchia branda sotto il lucernario.
Le tavole da surf che tenevano in garage.
Benché dormissero nello stesso (confortante, tormentoso) letto, benché guardassero attraverso lo stesso lucernario della stessa stanza, non si conoscevano. Condividevano tre mezze sorelle più grandi, Emma, Quinn e Mattie, ma non erano imparentati. Il padre di Sasha era stato sposato con sua madre tanto, tanto tempo prima.
Ray aveva scorto il viso di Sasha, minuscolo, dall’altra parte del Radio City Music Hall, durante la cerimonia di maturità delle sorelle più grandi. Non l’aveva mai vista da vicino, perché le due famiglie avevano studiato i posti a sedere e le successive feste in modo che non fossero mai costretti a incontrarsi. Anche i compleanni delle sorelle erano così. Sempre separati, sempre doppi: quelli con la sua famiglia, intorno al tavolo della cucina di Brooklyn, in cui non mancavano mai torte di zucchine fatte in casa e regali artigianali, e quelli con l’altra famiglia, che a quanto pareva si svolgevano in sale private di ristoranti alla moda, dove una persona normale non sarebbe riuscita a prenotare. Lui non c’era mai stato, ovviamente.
Aveva visto delle fotografie di Sasha da piccola, in casa. Lui continuava a guardarsi in giro casomai ne saltassero fuori di nuove, ma non se ne vedevano altre da tempo.
Le aveva chiesto l’amicizia su Facebook in terza media, ma lei gliel’aveva negata. Sulle prime ne era stato irritato, poi aveva rispettato la sua scelta, e infine aveva provato sollievo. In realtà non voleva vederla in quel modo: l’ennesima ragazza abbracciata alle sue amiche in bikini, a sfoderare sorrisi con l’apparecchio e fare segni della pace su Paradise Island o chissà dove. Voleva conservare l’idea che lei fosse diversa.
In seconda superiore aveva anche cancellato il proprio account Facebook perché non voleva vedere nessun altro in pose del genere. Quell’aura di falso divertimento dava ai nervi, dopo un po’. Ray aveva una spiccata tendenza ai giudizi taglienti, e con Facebook diventava ancora più feroce. «Sei proprio un orso» gli aveva detto Mattie. Il che non era del tutto vero. Usava Snapchat e Rapchat quanto i suoi amici.
Sapeva che Sasha frequentava una scuola femminile dell’Upper East Side dove si indossava l’uniforme. A quanto diceva Mattie con ironia, le ragazze di prima superiore come Sasha erano ben quarantadue. Lui la immaginava con una gonnellina a pieghe. Cercava di non farlo troppo spesso.
Ray andava in una scuola pubblica nel quartiere di Fort Greene, a Brooklyn. C’erano 1774 ragazzi in prima e poche gonne plissettate.
Il mondo delle scuole private di New York era come un club esclusivo, autocelebrativo e piuttosto irritante, e Ray non ne faceva parte. Le sue sorelle sì, perché loro padre era ricco. Era strano appartenere a una classe sociale diversa dai propri familiari.
Quindi non aveva mai incontrato Sasha attraverso uno qualunque dei consueti canali. Eppure sentiva di conoscerla da più tempo e in un modo più profondo. Aveva giocato con i suoi giocattoli, letto i suoi libri, dormito sotto le sue coperte, aveva voluto bene alle sue sorelle e litigato con loro. Gli sembrava quasi che fosse parte di lui. Era la sua amica ideale, per molti versi: sempre dalla sua parte, non lo deludeva mai. E non gli dava mai la possibilità di giudicarla in maniera superficiale.
Quando arrivò al mucchio delle scarpe cominciò a dividerle, perché questo era ciò che facevano: dividersi le cose. Non riusciva a ricordare di chi fossero quelle infradito logore e troppo piccole, perciò le gettò quasi tutte nel sacco della spazzatura. Sperava che non le importasse. Quando era di buon umore, le concedeva sempre il beneficio del dubbio. Quando invece era una giornata no, l’opinione che aveva di lei ne risentiva. Ma perfino nei momenti in cui era più irascibile, quando aveva una gran voglia di mandare all’aria tutto, con lei non c’era nulla che potesse rovinare.
Le vecchie scarpe da scoglio di lei. Di lui. Quand’erano piccoli i loro piedi erano più o meno della stessa misura: potevano condividere cose del genere, e a volte lo facevano. Ma Sasha spesso portava scarpe ortopediche speciali, che lui non aveva il permesso di toccare, e questo gli aveva fatto provare un inatteso sentimento di tenerezza nei suoi confronti. C’era qualcosa nel modo in cui se ne stavano lì pronte nell’armadio, una stagione dopo l’altra, un po’ più gonfie del normale, che faceva immaginare esattamente la sua postura quando le indossava. Negli ultimi anni i piedi di Ray erano decollati, quanto a misura, mentre quelli di lei, per quel che poteva vedere, erano rimasti piuttosto piccoli.
Le scarpe da ginnastica di lei, quelle di lui.
Dividere era ciò che tutti loro facevano. Come stabilito dai loro genitori, dividevano la casa, dividevano l’anno, dividevano le vacanze, dividevano il cibo, dividevano la carta, dividevano i costi in parti uguali, almeno in teoria. Scoppiavano conflitti tra i genitori per quasi tutto ciò che andava diviso: i lavori domestici, il taglio del prato, la manutenzione della piscina. Quanto alle sue sorelle, anche loro avevano opinioni contrastanti.
I genitori di Ray parevano condurre una vita pacifica insieme, ma erano il defunto matrimonio e l’aspro divorzio tra sua madre Lila e il padre di Sasha, il semileggendario Robert Thomas, a modellare le loro vite. Oltre alle tre figlie, quella casa al mare era l’unica cosa che né Lila né Robert intendevano cedere né potevano dividere.
Era una tregua precaria, la loro, condita di vecchi veleni. Durante l’anno scolastico il cambio si faceva la domenica a mezzanotte, perciò l’edificio restava vuoto cinque giorni a settimana per riposarsi, dimenticare una famiglia e ricordare l’altra. Ma d’estate era sempre occupato. Il cambio veniva spostato al mezzogiorno della domenica, il momento diabolico in cui le vite di due famiglie si scontravano, mettendo a dura prova la duttilità della vecchia casa.
D’estate c’era il pericolo, l’emozione di poter scorgere l’altra famiglia, magari intravvedendo la macchina che usciva. Una domenica su due, Ray immaginava che la casa conservasse una traccia dei loro odori in cucina, delle increspature nella piscina, magari un po’ di calore nel letto. La regola ferrea era che non dovevano mai lasciare la casa al mare dopo le undici e un quarto, la domenica mattina, e che non potevano arrivarci prima dell’una meno un quarto. Non volevano rischiare un incontro vero e proprio con l’altra famiglia. E nonostante l’inconfessato desiderio di Ray, questo incontro non era mai avvenuto. Conducevano così una mezza vita all’interno di una mezza famiglia in una mezza casa per mezzo anno. A unire le due metà si sarebbe ottenuto un tutto, in qualche modo. Ma le due metà non si univano mai.
Nell’armadio c’era una fila di scarpe palesemente femminili: sandali piatti a listarelle, nuove paia con il tacco. Non più quelle larghe, ortopediche. Ray si soffermò un momento su quelle calzature adulte, cercò di immaginare fugacemente la nuova ragazza cresciuta che le indossava, ma non ci provò per molto, e non le toccò. A causa dei suoi sonni agitati, ultimamente era restio a lasciare che la sua coinquilina assumesse un aspetto concreto.
Aveva una casa intera a Brooklyn con una camera tutta per sé, eppure non si sentiva mai intero, lì dentro.
Varcò con i primi due scatoloni la porta scorrevole della cucina, imboccò il sentiero lastricato, oltrepassò la siepe che circondava la piscina e raggiunse la rimessa. La stanza anteriore, che dava sulla piscina, conteneva la roba che ci si sarebbe aspettati – un frigorifero, scaffali, ganci per cuscini e teli – ma il locale più grande e senza finestre sul retro era il genere di deposito in cui non si entra troppo spesso.
Tastò la parete in cerca dell’interruttore. Non andava lì da tanto tempo. C’erano odore di muffa e confusione.
Fu subito colpito dal vecchio lettino impolverato. Era appartenuto a lui e anche a lei. Vide la plastica che copriva ancora il materasso per proteggerlo dal vomito. Il vomito di lui,...