Donne di Roma
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Donne di Roma

  1. 308 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Nella villa di Capo di Bove, all'interno del parco archeologico dell'Appia Antica, è conservata una lapide in onore di Annia Regilla, assassinata nel 160 d.C., all'ottavo mese di gravidanza. A ucciderla è stato quasi certamente suo marito Erode Attico. Inizia qui, da uno dei primi "femminicidi" della storia, il viaggio di Michela Ponzani e Massimiliano Griner tra le vite delle donne di Roma. Donne che questa città "l'hanno abitata, vissuta, amata o subita, desiderata o fuggita". Romane per nascita o per adozione, sono a volte protagoniste del loro destino, ma molto più spesso vittime di padri, mariti e fratelli, che su di loro esercitano il potere di vita e di morte. Sono proprio i luoghi di Roma a raccontare le loro storie. Di integerrime matrone come Cornelia, madre dei Gracchi; e Lucrezia, moglie di Collatino, che si suicida dopo essere stata violentata dal figlio di Tarquinio il Superbo. Di giovani nobili come Beatrice Cenci, decapitata per aver ucciso il padre e diventata poi eroina popolare; o come Lucrezia Borgia, figlia di papa Alessandro VI, "donna d'affari, più che di veleni"; e Francesca Bussa de' Leoni, che dedica la sua vita ai poveri e passerà alla storia come santa Francesca Romana. La città eterna ci racconta di streghe e prostitute; cortigiane amanti di papi e cardinali, belle, colte, libere e che usano il sesso per avere potere. E ancora ruffiane e mammane; rivoluzionarie e modelle immortalate dai grandi artisti; donne costrette dalla miseria a lasciare le loro creature alla ruota degli esposti; donne rese folli dall'eccessiva responsabilità caricata sulle loro fragili spalle dalle famiglie; partigiane poi protagoniste della lotta per l'emancipazione nel dopoguerra. Donne di Roma è un viaggio attraverso i secoli tra vicoli, piazze, chiese, palazzi, salotti, bordelli e carceri, alla scoperta del volto oscuro della città eterna: le storie, i sentimenti, le tragedie delle sue donne.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
Print ISBN
9788817097994

1

Dalla città fondata

Le donne dell’antica Roma

«Regilla luce della casa»

Sulla via Appia Antica, poco distante dalla tomba di Cecilia Metella, si trova un parco di pini e cipressi, immerso in una singolare atmosfera di quiete. L’antica strada consolare lastricata di basoli, definita dai romani Regina viarum, è un susseguirsi di monumenti funerari, costruiti nel corso dei secoli, dall’età repubblicana a quella tardo imperiale.
Il nostro viaggio tra le vite delle donne di Roma inizia qui, in una domenica di Pasqua, quando passeggiando sulla via Appia ci troviamo davanti al cancello della villa di Capo di Bove, all’interno del Parco archeologico dell’Appia Antica.
Attraversiamo il portico, all’entrata, e il mistero comincia ad avvolgerci perché i pochi frammenti di marmo e di intonaco dipinto, e quei pavimenti in mosaico bianco e nero, di particolare grazia e raffinatezza, ci dicono che in questo luogo doveva certamente abitare una nobile famiglia romana, probabilmente vissuta nella metà del II secolo d.C.
All’improvviso, appare dinnanzi ai nostri occhi una lastra di marmo con una strana iscrizione in caratteri greci, che dice: «Regilla luce della casa».
E il mistero si scioglie: siamo davanti alla lapide di un monumento sepolcrale, fatto costruire da Erode Attico per la moglie Annia Regilla. Ma quella lapide non è il simbolo di un dolce ricordo alla memoria dell’amata perduta; è l’emblema della violenza maschile, del potere di vita e di morte che, nell’antica Roma così come nel mondo greco, i mariti esercitano sulle mogli. Perché Regilla è stata assassinata con un calcio nel ventre, all’ottavo mese di gravidanza, proprio dall’uomo che ha sposato.
Nata nel 125 d.C. da una famiglia dell’élite romana, diretta discendente di Attilio Regolo e imparentata con la moglie dell’imperatore Marco Aurelio, Regilla è andata in sposa al ricco sofista Erode Attico all’età di appena dodici anni. Cosa del tutto normale, visto che le leggi promulgate da Augusto nel 18 a.C., e sulle quali torneremo, hanno stabilito che quella è l’età minima a cui le fanciulle possono contrarre matrimonio.
A scegliere il marito è stato, ovviamente, il padre di Regilla il quale, secondo l’usanza, lo ha fatto puntando su un uomo venticinque anni più anziano di lei. Un uomo importante e ricco, Tiberio Claudio Erode Attico, appunto, il cui ambizioso padre ha scalato il potere sposando Vibullia Alcia Agrippina, fino a diventare console e poi senatore. Il figlio Erode ha così appreso il latino che, unito alla studio della filosofia con i sofisti Polemone, Favorino e Scopeliano, gli ha permesso di acquisire una discreta cultura. Ma il suo carattere incline all’ira è divenuto ben presto più noto della sua erudizione.1
Non sappiamo se la piccola Regilla fosse contenta di sposare un uomo simile e per di più straniero, ma è facile supporre che, come tutte le fanciulle romane, anche lei fosse cresciuta nella speranza di unirsi a un cittadino di Roma, come lo erano suo padre e suo fratello. Erode, invece, l’avrebbe portata a vivere in Grecia lontano dalla famiglia d’origine, in una specie di esilio, e non appena giunta nella nuova dimora, l’avrebbe sottomessa al suo volere e a quello della sua famiglia, come era costume per ogni donna greca.
Sebbene non renda felice la sposa, questo matrimonio è di certo molto vantaggioso per Erode, oltre che per la famiglia di Regilla, perché, grazie alla moglie, lui viene a imparentarsi nientemeno che con la famiglia imperiale, visto che la zia della ragazza, Annia Galeria Faustina, è figlia dell’imperatore Antonino Pio, e ha sposato Marco Aurelio. Una donna importante, alla cui memoria Roma dedica persino un tempio nel Foro, lungo la via Sacra.2
Come doveva, dunque, comportarsi la piccola Regilla, una volta lasciata la casa del padre? Avrebbe potuto continuare a pregare gli dei romani, ossia i Lari e i Penati, le divinità ancestrali protettrici della casa e della famiglia? O i parenti del marito avrebbero giudicato le sue credenze religiose come inaudite stravaganze?
Di certo, il rituale nuziale che l’attendeva sarebbe stato molto diverso rispetto a quello delle sue coetanee, destinate a sposare un romano. Regilla non può neppure sperare di essere portata in braccio, oltre la soglia, dal marito, come la tradizione di Roma vuole fin dai tempi del ratto delle Sabine, costrette al matrimonio con la violenza e portate a Roma per popolare la città. Condotta nella nuova casa, ogni sposa romana riceve dal marito acqua e fuoco, simboli del nuovo ruolo di mater familias.
Quali moglie e madri, custodi fedeli dei valori civici e educatrici dei figli, a Roma le donne godono del rispetto sociale e di una condizione di privilegio. E anche Regilla sa bene che in cambio di un comportamento pudico e dimesso, per non dire esplicitamente silente e assoggettato ai voleri del marito, potrà ricevere l’ammirazione e il rispetto dovuti a una matrona romana; un rispetto manifestato anche col divieto di pronunciare parole indecenti davanti a una donna o di chiamarla col suo nome individuale. Il nome è come una parte del corpo, e lo si può pronunciare solo nell’intimità domestica, perché conoscerlo equivale a «conoscere» la donna carnalmente.3
Casta, riservata, modesta, dotata di grazia per la sua capacità di restare in silenzio: sono queste le virtù della donna romana, nel mondo antico. Una moglie ha, ovviamente, dei doveri anche a letto: ma più che assomigliare a un’appassionata amante, è bene che la sposa mostri un comportamento timido e remissivo, rispetto alla virilità del maschio, che deve comandare e sottomettere. Ciò a dimostrazione della sua verginità, dal momento che, a dire il vero non solo per i romani, la poca esperienza in fatto di sesso, è garanzia di purezza e castità.
Le spose romane sono, in fondo, solo delle bambine impaurite e naturalmente inesperte di sesso. Vergini che attendono di essere deflorate, quasi sempre senza alcuna grazia o accorgimento da parte del marito, un uomo, nella maggior parte dei casi, molto più vecchio e del tutto sconosciuto. Facile, dunque, immaginare quale trauma restasse nella vita di queste bambine, visto che la prima notte di nozze era un autentico stupro.
Non è un caso che tra le divinità invocate al momento del primo amplesso vi sia Prema, madre di Virginense, alla quale ci si rivolge affinché la donna non si divincoli e si difenda durante il primo rapporto sessuale. Stesa sul letto, la sposa deve solo attendere che il marito consumi l’atto al fine di fecondarla.
Per i romani, tuttavia, è bene che, nel talamo, sacralità e oscenità si congiungano. Il piacere sessuale non è visto come qualcosa di scabroso, se destinato alla riproduzione. Farlo bene, può, anzi, dare alle donne maggior garanzia di concepire figli sani.
La procreazione stessa, del resto, è da celebrarsi in un vero e proprio rito di iniziazione, in cui uomini e donne si abbandonano alla religione del sesso. Ma questa ritualità dell’atto sessuale è confinata all’interno del matrimonio. Ecco perché, prima di accomodarsi sul talamo nuziale, è d’uso che la sposa cavalchi il fascinus, l’organo virile del dio Priapo, la cui statua è posta nella camera da letto degli sposi. Un ulteriore atto di iniziazione a propiziare la fertilità.4
Di questi matrimoni assolutamente privi di amore, celebrati per il solo interesse delle famiglie, resta testimonianza negli affreschi di quella che un tempo era la Villa della Farnesina, sontuosa dimora di epoca augustea riportata alla luce a Trastevere nel 1879, e oggi conservati presso il Museo nazionale romano di Palazzo Massimo alle Terme. Immagini di un lontano passato, che dicono in maniera esplicita come i romani interpretassero il sesso tra moglie e marito.
Una volta usata la moglie per adempiere al dovere coniugale di concepire figli sani, il marito ha tutto il diritto di cercare passione e sensualità tra le braccia di una concubina o di una prostituta. In uno di questi ritratti, lo sposo è sdraiato sul letto completamente nudo con la testa rivolta teneramente verso la moglie, quasi in stato di contemplazione, mentre la giovane sposa seduta sul bordo del talamo, è ancora completamente vestita con una lunga tunica gialla che le copre persino i capelli. Come vuole la tradizione, la ragazza ha infatti passato l’ultima notte da vergine avvolta in questo pesante indumento, stretto in vita da una grossa cintura di lana, sopra alla quale sorge il nodus Herculeus; una specie di amuleto contro il malocchio, simbolo di fertilità, dedicato a Ercole, che aveva avuto più di settanta figli.
Lo sguardo della donna è rivolto verso il basso, quasi spaventato e affranto per ciò che sta per accadere. Le braccia del marito la cingono nel maldestro tentativo di consolarla, per il dovere che, di lì a breve, sarà chiamata a compiere.
Ben diverso, l’affresco che ritrae una coppia di amanti nell’atto di consumare l’amplesso: la donna sta sopra l’uomo, che l’abbraccia voluttuosamente, e i suoi seni sono completamente scoperti, a testimonianza di un atteggiamento disinibito e carico di sensualità.
Nelle Sentenze di Sesto Pitagorico leggiamo che colui che ama con troppa passione la propria moglie commette adulterio a dimostrazione di quanto, nel mondo romano, la passione sessuale tra moglie e marito non sia considerata solo inutile ma addirittura immorale.
Di certo anche la giovane Regilla è stata istruita sul modo di comportarsi a letto, una volta sposata, o perlomeno sa quali sono i doveri di una buona moglie. Ed è abbastanza facile supporre in che modo, appena sbocciata alla vita fertile, e senza alcuna esperienza in fatto di sesso, la ragazzina viva la sua prima notte di nozze.
Le fonti non dicono quali fossero i rapporti di Erode con le donne: se le disprezzasse come essere inferiori, o se avesse da sempre manifestato nei loro confronti un’indole violenta. Di certo, come altri uomini del suo rango, ha liberamente frequentato prostitute e schiave al suo servizio. I dipinti sulle pareti della sua casa, dedicati a Venere in posizioni erotiche con Adone, Marte e altri giovani amanti di rara bellezza, dimostrano in modo abbastanza esplicito quanto lo sposo di Regilla non disdegni orge e banchetti carnali; un comportamento assolutamente normale e socialmente ben visto, per un maschio dell’antica Roma. Perché se il compito della donna romana è quello della moglie devota e della madre attenta, è lecito e anzi auspicabile che l’uomo mostri ovunque la sua virilità, simbolo di potenza e vigore sessuale, dal momento che il sesso è pratica da vincitore, di conquista.5
E la virilità, intesa come capacità di penetrazione, può esercitarsi solo con una continua e promiscua attività sessuale, sia con donne sia con uomini. Il civis romanus è un vincente, un dominatore e la sua capacità di imporre il suo potere si esercita sia sui popoli nemici, sottomessi con l’uso delle armi, sia su persone di rango inferiore, assoggettate con le leggi, con la ricchezza e anche con la pratica della sodomia. Certo, a differenza, dell’antica Grecia, nel mondo romano l’omosessualità non è permessa perché malgiudicata come sintomo di passività sessuale, ma non sono rari i casi di padroni che sodomizzano gli schiavi al fine di sottometterli. Lo ricorda Plauto, quando scrive che per far piacere al padrone lo schiavo «deve stare a quattro zampe», parole che fanno bene intendere quanto i costumi sessuali si fondino su una «virilità dello stupro», per cui il sesso, non solo all’interno del matrimonio, è concepito e praticato come territorio di conquista e sottomissione.6
Il maschio romano è dunque in preda a una continua, ossessiva, autoglorificazione dei rapporti che riesce ad avere con più donne, quasi sempre prostitute, o con uomini, nell’espressione di una sessualità che è soprattutto etica del vanto. Non è un caso se fin dall’infanzia, i figli maschi sono educati a essere dominatori e a imporsi in maniera violenta, anche attraverso il sesso, come dimostra l’uso di sodomizzare i popoli sconfitti.
Se la virilità del maschio non può essere messa in discussione, la verginità della donna assurge a valori sacrali. Per le ragazze di famiglie illustri, come Regilla, è impensabile non arrivare vergini e illibate al matrimonio. Non solo per il senso di moralità che una moglie doveva portare in dote al marito, evitando di concedersi ad altri uomini, quanto per evitare il disonore dello sposo, qualora fosse restata incinta di un altro, con il pericolo di immettere sangue estraneo all’interno della famiglia. Nel matrimonio cum manu, stabilito per accordi socio-politici tra le famiglie, diffuso tra i romani fino all’età imperiale, l’uomo, del resto, compra la proprietà della donna.
Una donna può diventare moglie anche, sine manu, in seguito a un anno di convivenza sotto lo stesso tetto con il futuro marito, secondo un vero e proprio contratto di usucapione. Una sorta di convivenza di fatto, potremmo dire. In realtà un modo per verificare se la donna è feconda, visto che l’anno di convivenza è un tempo sufficiente per poterlo stabilire. Questo tipo di matrimonio, in voga tra le classi meno abbienti, è di certo più libero, poiché per sciogliere il vincolo è sufficiente che la donna si assenti dalla casa comune per tre notti, («trinoctium»).
Quello tra Erode e Regilla, però, è un matrimonio celebrato nel pieno rispetto della tradizione romana, voluto dal padre della ragazza e accompagnato da una sostanziosa dote.
Un matrimonio in cui la moglie è sottomessa loco filiae, «come una figlia», alla patria potestas del marito, esercitata su lei, sulla prole e sui servi. Nel mondo dell’antica Roma, la famiglia è un insieme di persone sottoposte alla potestà di un solo uomo (sub unius potestate). Stipulando un accordo di matrimonio, la filia si affranca, dunque, dall’autorità del capo della sua famiglia per entrare nella nuova famiglia del marito.
L’autorità del pater familias si esercita, del resto, sui figli anche quando questi sono adulti, si sposano e hanno figli a loro volta. Accade così che un console, con moglie e prole al seguito, si trovi a non avere un soldo in tasca perché il padre, magari novantenne, in virtù del suo diritto di amministrare il patrimonio, gli concede poco più di una paghetta.
A Roma non sono quindi rari i conflitti generazionali e i casi di padri ammazzati dai figli.
Ad accrescere l’incidenza del parricidio nella società romana contribuisce anche l’alto tasso di divorzi e nuovi matrimoni. Le nuove unioni si concludono spesso con donne più giovani, costringendo i figli di primo letto a convivere con matrigne loro coetanee. E non sono rari nemmeno i casi di padri che uccidono i figli sorpresi in adulterio con la matrigna.
Questo esercizio così ampio e autoritario della patria podestà fa sì che l’incubo del parricidio sia dunque sempre presente nella società romana.7
Una donna non ha quindi molta scelta: se non si sposa e non fa figli, diventando produttrice del corpo cittadino, semplicemente non esiste.
Erode Attico, come altri uomini del suo rango, ha il diritto di esercitare tutto il potere che vuole sulla moglie, fuori e dentro la camera da letto. Di certo, però, non gli conviene commettere abusi su Regilla. Come anche Plutarco consiglia, è essenziale che un marito si mostri premuroso, al fine di mantenere buoni rapporti con i parenti della sposa, per evitare che questi da alleati si trasformino in nemici.
Possiamo quindi immaginare quale turbamento desti in seno alla famiglia imperiale, e in tutta Roma, la notizia del...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. 1. Dalla città fondata. Le donne dell’antica Roma
  5. 2. Al rogo di Castel Sant’Angelo
  6. 3. Il canto della Suburra
  7. 4. Madri sole
  8. 5. Figlie di nessuno
  9. 6. Tra la Repubblica e il Papa Re. Giacobine, sanfediste, mistiche e modelle
  10. 7. Una guerra privata. Storie di gappiste nella Roma occupata
  11. 8. Eva è maggiorenne. I diritti delle donne, verso una nuova società
  12. Ringraziamenti
  13. Note
  14. Bibliografia
  15. I luoghi e le cose
  16. Indice