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Dal Far West al Far Web?
Massimo Lopez sudava freddo al cospetto della Legione straniera, in quel riuscitissimo spot del 1993. Era un condannato a morte di fronte al plotone d’esecuzione. Se fosse stato il colonnello Aureliano Buendia, probabilmente, si sarebbe soffermato sui ricordi di quel remoto pomeriggio in cui il padre lo portò a conoscere il ghiaccio. Ma Massimo Lopez ebbe un pensiero meno nostalgico e più scaltro. Chiese, come ultimo desiderio, di poter fare una telefonata. Quando il comandante della legione gli porse il telefono non poteva immaginare che quella telefonata sarebbe durata decine e decine di spot e sarebbe entrata nell’immaginario collettivo del pubblico televisivo italiano. E forse neanche l’autore di quella pubblicità avrebbe mai immaginato che il suo slogan – “una telefonata ti allunga la vita” – sarebbe passato alla storia. Oggi, a un quarto di secolo di distanza, di fronte a quel vero e proprio plotone d’esecuzione che è il web, o, per essere più corretti, di fronte alle legioni di haters che del web sono un’inevitabile e sgradevole componente, una telefonata può ancora servire. Magari non ad allungare la vita, ma a sintetizzare un fenomeno vasto e sfaccettato, probabilmente sì. E allora, partiamo da qua. Da una semplice telefonata.
«Ciao Marta, ho letto quello che scrivi di me su Twitter.»
Attimo di silenzio.
«Ah! Lei è Selvaggia Lucarelli?»
«Sì, sono Selvaggia Lucarelli, quella a cui stamattina hai scritto “troia schifosa, ritardata, ammazzati”.»
«Sì, mi dica pure.»
«No, no: dimmi tu.»
«Io trovo che lei non dovrebbe… Se non trova giusto il comportamento di certi gruppi o pagine, non dovrebbe semplicemente frequentarli.»
Facciamo un passo indietro. L’interlocutrice che ora, all’altro capo del telefono, con tanta deferenza sta dando del lei a Selvaggia Lucarelli soltanto poche ore prima le scriveva su Twitter: “nel caso fossi così ritardata da non capire neanche le parole censurate, te lo spiego io che 6 una troia schifosa, ammazzati”.
La telefonata, con relativa diffusione pubblica, invece è un espediente a cui l’opinionista ricorre spesso, in radio ma non solo, per chiedere conto degli insulti ricevuti via social network agli autori materiali degli attacchi verbali che, messi di fronte alle proprie responsabilità e, soprattutto, all’obiettivo dei propri insulti, tendono ineluttabilmente a trasformarsi da leoni ruggenti in agnellini balbettanti.
Mentre le pagine e i gruppi tirati in ballo dalla ragazza nella sua elusiva risposta sono quelli che su Facebook esaltano quotidianamente misoginia e razzismo, istigano allo stupro, deridono i bambini down, si augurano che i migranti che cercano di raggiungere le coste italiane muoiano annegati. Insomma, sono i gruppi (si sa, il branco fa la forza) che proliferano su Facebook sguazzando in un indegno mix di discriminazioni, diffamazioni, bullismo e istigazione a varie forme di violenza. Un sottoinsieme del web contro il quale Selvaggia Lucarelli, dall’alto della sua popolarità social, ha da tempo lanciato una sua personale crociata che le causa, un giorno sì e l’altro pure, attacchi selvaggi (nomen omen) e ritorsioni che tirano in ballo la sua vita privata, la sua sfera lavorativa e, talvolta, persino suo figlio minorenne.
Proseguire nell’ascolto della telefonata, qui trascritta modificando il nome della persona coinvolta, è indicativo del modus cogitandi di tanti leoni da tastiera.
«No, aspetta un attimo. Gentile signorina Marta; innanzi tutto vorrei sapere perché mi stai dando del lei, quando su Twitter mi dai del tu. Visto che non mi hai scritto “si ammazzi”, mi hai scritto “ammazzati”. Allora lo stesso registro che adotti sui social network, quando ti si chiama al telefono adottalo anche nella vita reale. Quindi, per cortesia, ripetimi le cose che mi hai scritto; così ti vado a fare una bella querela. Prego.»
«Penso che per la querela basti il tweet.»
«Ah… e come mai non lo ribadisci quello che hai scritto?»
«Perché? A cosa le serve che io lo ribadisca ad alta voce? Sarebbe stupido ribadirlo a voce.»
«O è perché ti caghi sotto?»
«È normale che se lei mi dice che se glielo ripeto a voce lei mi querela io non lo ripeto a voce.»
«Ah, è perché ti minaccio? Allora non ti querelo… Prego, ripetimi quello che mi hai scritto. Ti chiedo solo di essere coerente con te stessa; visto che fai la bulla sui social network, quando ti telefono sii coerente, mantieni quel personaggio lì, eroina di ’sto cazzo, dài.»
«Non glielo ripeterò a voce, è il mio pensiero ma non glielo ripeto.»
«Ah, è il tuo pensiero ma non me lo ripeti? E come mai non me lo ripeti?»
«Per cortesia, la posso richiamare tra due minuti che ho appena finito un lavoro? La richiamo…»
«No, non mi puoi richiamare tra due minuti!»
«Mi scusi eh… solo un secondo, prego…»
«Ti piacerebbe se la gente ti scrivesse cagna troia ammazzati sui social network? Ti piacerebbe? Ti piacerebbe se qualcuno entrasse nella tua agenzia e ti dicesse troia ammazzati? Eh? Rispondi!»
«Mi scusi… mi perdoni…»
«No “mi perdoni”… ma questa qua mi da del lei poi, capito!? mi da del lei! Ma come? Perché prima “troia ammazzati”, e poi mi dai del lei?»
«Perché online si dà del tu a tutti.»
«Ah, sì?»
«Invece dal vivo mi viene di dare del lei a una persona più grande.»
«Ma perché tu pensi, bella mia, che online… che la realtà virtuale sia una realtà diversa? Pensi che non ci sia attinenza e aderenza tra la realtà e il web? Sei convinta di questo? Pensi che sia un mondo virtuale? Pensi che sia il Far West il web? Pensi di poter essere un’altra? Sei sempre tu, sai? Sei sempre tu.»
Stop. Fermiamo un’altra volta il nastro. Come durante un film su Netflix quando squilla il telefono, abbiamo di nuovo bisogno di una pausa. Perché in queste poche righe, Selvaggia Lucarelli e la sua antagonista ci hanno già detto tutto. O quasi. Ce n’è per scomodare legioni di sociologi, semiologi e antropologi. La ragazzina sfacciata, la leonessa da tastiera che insultava e invitava ad ammazzarsi l’odiata opinionista, ora, dal vivo, le dà del lei. Perché le viene spontaneo dare del lei a una persona più grande. Perché è così che ci si comporta. Ma solo nella vita reale. Come se passando da un medium all’altro, dal telefono al web, si attraversasse una porta dimensionale in grado di trasportare le persone in una realtà parallela, in cui ci si dà del tu, ci si manda a quel paese, l’insulto è libero e si invita la gente ad ammazzarsi, con la stessa disinvoltura con cui si ordina una quattro stagioni in pizzeria. Come se fossero universi non comunicanti, camere stagne in cui ciò che accade nell’una non influisse sull’altra. Selvaggia Lucarelli in queste poche battute ha centrato il cuore del problema. E ora incalza la ragazza a suon di domande. E la replica che sta per arrivare è emblematica. Sblocchiamo nuovamente il nastro, ripartendo proprio dalla risposta di Marta.
«No, io penso che online si usa più un registro diverso [sic!].»
«Ah, sì? e come mai? e perché?»
«Ad esempio su Twitter si possono usare pochi caratteri.»
«Ah, e quindi tu per sintetizzare dici troia? Ah sì?»
«Esatto.»
«Cosa “esatto”?»
«Sì… ho dovuto mettere 6 invece di scrivere sei per abbreviare…»
«Ah! La sintesi è sul verbo essere! Ho capito! E quindi non sei in grado di dire “non la penso come te” anziché “troia schifosa ammazzati”? Guarda “non la penso come te” è anche più sintetico, sai?»
«Non la penso come lei.»
«Ah, ecco, adesso hai ritrattato. Quindi sei capace di essere sintetica nella vita reale, vero? Però su Twitter ti viene più facile sintetizzare dando della troia a una donna, vero?»
«Esatto.»
«Ah, “esatto”. Ma bene! Guarda, ti faccio i miei complimenti perché sei davvero un orgoglio per il popolo femminile. Guarda, sono proprio fiera di te. Tante donne saranno fiere di te… Soprattutto mamma e papà. Ciao bella, ciao ciao!»
«Arrivederci.»
“Arrivederci”. Marta aveva l’occasione della vita. Mandare a quel paese in diretta l’odiata Lucarelli. Accanirsi verbalmente sulla donna per la quale poco prima aveva rispolverato gli insulti più scintillanti. Ripetere a voce gli stessi improperi al bersaglio del suo disprezzo. E invece, sul più bello, si congeda con un “arrivederci”. Come se dall’altra parte del telefono ci fosse l’operatrice di un call center. Come se la realtà fosse qualcosa di totalmente avulso dalle dinamiche della rete. Perché in fondo per lei è proprio così. Marta, una ragazza fra i venti e i trent’anni al massimo, è convinta che non ci sia aderenza fra web e realtà. Non solo si ostina a utilizzare un linguaggio diverso, formale, oseremmo dire “educato”, di fronte all’oggetto del suo turpiloquio di qualche ora prima. Marta crede che internet sia un mondo virtuale, in cui forse, lei stessa, pensa di essere un’altra. E non è soltanto una forma di vigliaccheria. Non è solo mancanza di coraggio di fronte alla nemica la cui presenza da astratta, d’un tratto, si fa concreta. No, c’è di più. Marta appartiene a una categoria, intergenerazionale, di persone incapaci di comprendere che quello che si scrive su un social network ha lo stesso peso di quello che si dice al bar. O in piazza. Anzi, forse ha un peso addirittura superiore, considerando che il pubblico in ascolto è potenzialmente molto più numeroso.
Ma si tratta di un concetto troppo astratto per condizionare concretamente il comportamento di chi ha con i social network un rapporto così leggero e disinvolto. Al punto che, poche ore dopo, quando un utente su Facebook chiederà conto a Marta della sua remissività nel corso della telefonata con Selvaggia Lucarelli, la ragazza risponderà scrivendo queste righe: “Non sono assolutamente una ragazza fine né fingo di esserlo se non lo ritengo necessario, ma quando Selvaggia mi ha chiamata in ufficio c’era un cliente davanti a me”. Ebbene Marta non finge di essere una ragazza fine, anche se il dubbio ci aveva già sfiorato al “troia schifosa ammazzati”, ma con sconcertante naturalezza spiega che lei di fronte a un cliente ama tenere un contegno irreprensibile. Che poi la platea del web in pasto alla quale finiscono i suoi turpiloqui sia composta da centinaia di migliaia di utenti… chissenefrega. Internet è una realtà parallela.
Eppure esiste un sottile filo rosso che accomuna il comportamento di tantissimi utenti sul web: la confidenzialità che sfocia spesso nell’insulto, l’informalità che tende a farsi aggressione verbale al primo disaccordo. Alcuni autorevoli opinionisti sostengono che quella dell’odio sul web sia una sorta di leggenda metropolitana. O meglio: che in rete non succeda niente di diverso da quello che accade al bar. Al bar ci si infervora, si discute, si usa un gergo informale, proprio come accade online: fine della questione, discorso chiuso. E, se così davvero fosse, il volume che avete in mano terminerebbe qua. Ora potreste dedicarvi a letture più interessanti: dalla biografia di Matteo Salvini a un saggio sulle scie chimiche. Ma purtroppo le cose non stanno esattamente così. Perché se da un lato è vero che la criminalizzazione della rete rischia di trasformarsi soltanto nell’anticamera della censura e che non c’è nulla di più qualunquista di voler considerare il web come un far west in cui pericolosi criminali sociali scorrazzano indisturbati spargendo odio e imprecazioni ovunque, bisogna entrare nel merito della questione in maniera più profonda ed equilibrata. Senza farsi prendere la mano da slanci liberticidi o maldestramente generalizzanti ma senza neppure trasformarsi in ultrà della rete ciechi e sordi di fronte a deformazioni oggettivamente anormali. Perché è vero che internet è un bene prezioso attraverso il quale far circolare libero pensiero, idee e informazioni, è vero che al bad speech si risponde con il more speech, e che sono proprio i meccanismi “buoni” del web i migliori anticorpi possibili per contrastarne le derive. Ma se oggi ci ritroviamo con la procura di Monaco di Baviera che apre un’indagine sul CEO di Facebook, Mark Zuckerberg per istigazione all’odio,1 con il presidente della Camera, Laura Boldrini, che invita ufficialmente la stessa Facebook a inserire un “bottone antiodio” per segnalare gli hater, o con il cofondatore di Twitter Evan Williams che arriva a fare un mea culpa per l’uso distorto che gli utenti fanno dei social media – tanto per fare alcuni esempi eclatanti –, significa che il tema dell’odio online ha superato il livello di guardia. Pertanto, per osservare le cose in modo serio e super partes, bisogna iniziare a riconoscere che al momento in rete c’è qualcosa che non va. E che troppi utenti fanno un uso distorto del web.
La rete è senz’altro uno specchio della società. Il problema è che a volte ne restituisce un riflesso deformato. Perché sì: anche al bar si discute animatamente, ma nessuno si sognerebbe di dare del “coglione” o mandare a quel paese il primo che entra a ordinare un caffè; perché sì: anche nel mondo reale esistono misogini e omofobi, ma le persone non vanno in giro a gruppetti indossando T-shirt con la scritta “A volte abbaiano” accompagnata dall’immagine di una donna truccata da cane, non organizzano conferenze pubbliche per chiedere di “reintrodurre il reato di omosessualità”; perché sì: anche nella quotidianità c’è chi manda a quel paese il politico di turno, ma un conto è insultarlo di fronte alla TV fra le mura domestiche o, per l’appunto, al bar davanti a quattro amici, un conto è dare della “cagna” o della “zoccola” alla presidente della Camera su una bacheca pubblica alla quale hanno potenzialmente accesso centinaia di migliaia di utenti; perché sì: artisti e cantanti hanno sempre avuto i loro detrattori, ma un conto è fischiarli da sotto un palco, un conto è ingiuriarli, minacciarli e augurargli la morte sotto una foto su Instagram, solo perché scattata nel proprio lussuoso attico.
E sia chiaro: augurare la morte a qualcuno non è neppure reato. Lo ha stabilito la V sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 41190 depositata il 3 ottobre 2014, in seguito a un’appassionante querelle fra vicini di casa. Ma è innegabile che si tratti di un contegno poco consono a un’esternazione pubblica. Qualcosa che fino a oggi nel nostro registro storico avevamo annotato soltanto allo stadio quando una curva intonava il “devi morire” a un giocatore avversario infortunato o nel “ma va’ a mori’ ammazzato” sbraitato fra automobilisti incazzosi nel traffico cittadino. Al punto che il relazionarsi aggressivo fra sconosciuti sul web sembrerebbe più riconducibile alle dinamiche da “guida nel traffico” che non alle dinamiche “da bar”. Certo, possiamo cercare infinite giustificazioni per queste sparate: invidia sociale, frustrazione, rabbia repressa, in alcuni casi persino legittimo malcontento. Possiamo anche ipotizzare che i social network siano diventati, per taluni, una valvola di sfogo necessaria per incanalare la propria bile. Ma è evidente che ci troviamo al cospetto di uno slittamento del comportamento verso frontiere inedite, ed è altrettanto evidente che su questo slittamento influisca in modo determinante il medium e, soprattutto, la percezione che l’utente ha di quel medium. Quel che è certo è che l’identikit del perfetto hater non esiste.
C’è un’interessante trasmissione televisiva svedese in cui troll e cyberbulli scappano e ritrattano le proprie esternazioni online quando vengono messi di fronte a una telecamera. Il programma si intitola Troll Hunters, ed è condotto dal giornalista Robert Aschberg. Si tratta di una vera e propria caccia ai troll e agli hater del web. Grazie all’aiuto di una redazione, il conduttore, puntata dopo puntata, va a smascherare i cyberbulli che, per puro divertimento o per vera e propria inclinazione all’odio, fomentano le discussioni in rete insultando e minacciando gli altri utenti attraverso profili anonimi. Il programma mira a svelare chi si cela dietro agli insulti, scovando e rintracciando questi “leoni da tastiera”. Il clou scatta quando il giornalista-inviato, una sorta di “iena” in versione vichinga, cerca di intervistare gli spargitori d’odio dopo averli intercettati, sbattendogli un microfono sotto al naso e una telecamera di fronte alla faccia. Arrivati a questo punto, la maggior parte degli hater, al netto di qualche eccezione, scoppia in lacrime, cerca di scappare, implora pietà alla troupe o nega – contro ogni evidenza – la paternità dei commenti offensivi. E il campionario offre una vasta gamma di declinazioni d’odio, lasciando alla redazione soltanto l’imbarazzo della scelta: commenti sessisti, razzisti, omofobi, minacce e istigazioni al suicidio. Ma la cosa realmente sorprendente è scoprire chi si nasconde dietro alla violenza online. Chi si aspetta il classico cliché del giovane frustrato, del disoccupato, del militante di estrema destra resterà deluso. Il panorama di troll scovati dal programma è decisamente vasto ed eterogeneo. E alle figure più prevedibili si affiancano donne di mezza età dedite a operazioni di bullismo quotidiano, fanciulle insospettabili, adulti irreprensibili e persino ragazzini di dodici anni.
In un’intervista rilasciata al «Fatto Quotidiano» nel 2015, Aschberg spiegava: «La rete è la più grande invenzione dai tempi della ruota, ma molte persone cambiano quando iniziano a usarla. Io non sono contro la libertà d’espressione e l’anonimato online, ma si deve capire che ciò che è illegale nella vita reale lo è anche su internet». E questo è uno dei punti critici quando si ha a che fare con l’odio online: non tutti lo capiscono. La legalità che regna in altri contesti sociali, sul web da molti non è percepita. Come se determinati soggetti credessero di agire in un altro contesto, sospeso dalle leggi e dalle responsabilità che contraddistinguono un ordinamento sociale. Perché? Forse perché oggi di fronte a certe situazion...