La rinascita
Cambiare si può. La storia della Lega lo dimostra.
Dopo polemiche, litigi e inchieste, che coinvolsero anche la sua famiglia, Bossi prese una decisione coraggiosa, inusuale per la politica italiana: il 5 aprile del 2012 annunciò, durante una riunione dal silenzio irreale, le sue dimissioni da segretario della Lega. Una scelta di cuore per permettere alla sua creatura di continuare a camminare e di crescere. Una scelta da uomo. Una scelta non da tutti. Una scelta che portò alla «notte delle scope» di Bergamo, una serata in cui migliaia di leghisti si trovarono per ripulire, rilanciare, ripartire.
Il 2 giugno di quello stesso 2012 fui eletto segretario della Lega Lombarda, dopo un confronto schietto, da leghisti, con un grande come Cesarino Monti, uno dei primi e più bravi sindaci brianzoli. La Lega era in difficoltà, magari tu che ora mi leggi e sostieni pensavi di me e di noi ogni male.
Sono contento di averci messo la faccia, di essermi impegnato ventiquattr’ore su ventiquattro, di aver cominciato battaglie concrete su lavoro e pensioni. Alcune vinte e altre perse. Rifarei tutto. Errori compresi. Non sono uomo da rimpianti.
A luglio 2012 arrivò il congresso federale della Lega, il primo dopo tanti anni. La data segnò il passaggio da un partito popolare, capace sia di stare all’opposizione sia di governare, a un movimento più aperto verso l’esterno e anche più desideroso di dialogare con le categorie produttive e con ambienti storicamente distanti.
Durante il discorso al congresso, Maroni fece espressamente il mio nome indicandomi come suo successore: confesso che mi emozionai come mai prima. Al di là delle soddisfazioni personali, comunque, il congresso si rivelò tutt’altro che tranquillo. Con Bossi che afferrò il microfono e alla fine, tra le lacrime, si comportò come la madre della storia di re Salomone dicendo: «Tieni, il bambino è tuo!». Lo disse a Maroni. Come se, pur di non dividere a metà la sua creatura, la Lega, preferisse lasciarla intera nelle mani di qualcun altro.
In qualità di segretario della Lega Lombarda fui costretto a lasciare Palazzo Marino. I troppi impegni non mi permisero di continuare: mollai a ottobre 2012, dopo diciannove anni di battaglie, salutato pure dal nuovo sindaco Giuliano Pisapia. «Ci mancherai, Matteo!» mi disse, e penso che il messaggio fosse sincero. Lo scontro politico può essere aspro e addirittura dialetticamente violento, ma i rapporti umani restano importanti, anche quando ci si confronta con avversari su posizioni ideologiche opposte: per questo, dal punto di vista personale, non ho mai rotto con nessuno. Ritengo che Pisapia sia stato un pessimo sindaco, ma che non sia affatto una cattiva persona. Anzi.
Un altro esempio per chiarire il concetto: il mio rapporto con Pierfrancesco Majorino, l’assessore alle Politiche sociali della giunta Pisapia, è stato spesso burrascoso, soprattutto sul fronte dell’accoglienza e dell’immigrazione. Ci conosciamo da anni: insieme ad altri giovani consiglieri ci eravamo guadagnati qualche articolo sui giornali perché, quando cominciammo a bazzicare Palazzo Marino, eravamo tra i volti nuovi che incuriosivano la stampa.
Politicamente siamo agli antipodi, tanto che più volte mi ha accusato di essere addirittura «un infame» perché criticavo la presenza di decine e decine di clandestini in stazione Centrale: per mesi la giunta non aveva ascoltato la regione Lombardia, che con forza invitava il governo Renzi a bloccare l’arrivo indiscriminato di persone. Nonostante le divergenze politiche, dopo le primarie del centrosinistra del febbraio 2016 gli ho inviato un SMS di complimenti. Aveva perso, con onore, contro Beppe Sala. «Complimenti, bella sfida» gli scrissi. «Grazie» rispose lui gentilmente: fuori dall’arena politica non siamo poi così cattivi come ci dipingono.
Tra aprile e maggio del 2013, in veste di europarlamentare, affrontai inoltre un lungo viaggio in India: la spedizione, con tappe a Delhi e Calcutta, aveva lo scopo di verificare l’efficacia di un progetto che Bruxelles aveva finanziato e che permetteva a circa milleseicento persone, tra donne e bambini, di utilizzare il computer e trovare lavoro.
L’India mi colpì in modo tale che, di getto, scrissi sui social una frase che veniva dal profondo del cuore: «Quando vedo come sopravvivono migliaia di bambini qui a Delhi, senza scarpe, senza casa e spesso senza cibo, ma con due occhi neri stupendi e a volte con un sorriso, mi rendo conto di quanto siamo fortunati noi». Incredibile ma vero, pure quel post suscitò gli attacchi di una parte della stampa italiana. In un articolo apparso sulla «Repubblica» si raccontava addirittura di una presunta rivolta dei militanti leghisti perché avevo osato spendere parole affettuose nei confronti dei bambini indiani: l’ennesima bugia.
Da anni, la Lega porta avanti un’associazione – definita «umanitaria padana» – con l’obiettivo di convogliare aiuti nei Paesi più poveri. La formula «aiutiamoli a casa loro» è la sintesi delle nostre idee a questo proposito: nessuno deve essere costretto a scappare dalla propria terra. Al riguardo è molto interessante il pensiero di Dambisa Moyo, economista e scrittrice africana che ha messo in guardia l’Occidente anche da certa solidarietà pelosa che non aiuta, ma addirittura danneggia i Paesi poveri. Il suo libro, La carità che uccide, è una secchiata d’acqua gelata in faccia al politicamente corretto e a chi pensa di poter risollevare l’Africa gettando qualche milione di dollari e poi girandosi dall’altra parte. Il risultato di tali pratiche, troppe volte, è quello di arricchire qualche dittatore e rendere ancora più povera la popolazione.
Intanto, sul fronte della politica italiana, non avevamo ancora metabolizzato i guai giudiziari della Lega che improvvisamente ci trovammo ad affrontare quelli della regione Lombardia. Roberto Formigoni, governatore dal lontano 1995, era arrivato al suo quarto mandato. I risultati premiavano il centrodestra, ma l’ultima esperienza regionale dell’esponente ciellino era partita sotto una pessima stella: prima la candidatura di Nicole Minetti e di Renzo Bossi, poi una raffica di inchieste e scandali, culminati con le manette per l’assessore alla Casa Domenico Zambetti che, secondo l’accusa, si era reso protagonista di un voto di scambio con la ‘ndrangheta. Per la Lega il vaso era colmo.
In quel periodo partecipai a una trasmissione televisiva, Linea Notte, e tra le altre cose sollevai alcune critiche nei confronti dei magistrati per la lentezza e l’enorme numero dei processi in sospeso. Una volta in macchina – dopo la mezzanotte – il mio cellulare iniziò a squillare. Numero privato: non risposi, chi poteva chiamarmi a quell’ora? La scena si ripeté altre due volte, finché, alla quarta chiamata, decisi di pigiare il tasto verde, immaginando si trattasse di qualcosa di molto urgente considerata l’insistenza.
«Pronto?»
«Buonasera onorevole Salvini, qui è Palazzo Grazioli. Le passiamo il presidente Berlusconi.»
Durante la telefonata, la prima di sempre, il Cavaliere mi inondò di complimenti lasciando pochissimo spazio alle repliche: «Bravo Salvini, il nostro problema è proprio la magistratura. Ti ho seguito a Linea Notte, bene, continua così!». Mi sono sempre domandato chi guarda certi programmi politici a mezzanotte. Ecco una risposta: Berlusconi. Ringraziai e ci ripromettemmo di vederci di persona. Il che accadde molto presto, perché da fresco segretario della Lega Lombarda avevo deciso di staccare la spina a Formigoni.
Ricordo alcuni incontri con il governatore ciellino. Trentesimo piano del nuovo grattacielo Lombardia: una stanza enorme, con splendide vetrate al posto delle classiche pareti in muratura. A quell’altezza si gode di una vista mozzafiato che regala uno squarcio meraviglioso sulla città, con le prealpi lombarde a completare il quadro in lontananza.
Nessuno sembrava prendere sul serio il progetto della Lega che annunciava di voler andare alle urne, e lo stesso Formigoni probabilmente pensava «Figurarsi se qualcuno molla poltrone e assessorati per una questione morale o di principio». Ma la Lega non è «qualcuno» e l’abbiamo fatto.
Tutti i consiglieri regionali della Lega mi avevano consegnato la loro lettera di dimissioni. E volevamo andare fino in fondo, tanto che alla trasmissione La Zanzara di Radio 24 lanciai parole di fuoco: «O si dimette Formigoni, o lo facciamo dimettere noi». So per certo che il presidente non gradì – eufemismo – e fece di tutto per resistere, ma alla fine riuscimmo davvero a staccare la spina, a differenza di tanti altri che venderebbero la mamma pur di non mollare la poltrona. Le elezioni regionali vennero annunciate per il febbraio 2013, in concomitanza con le politiche.
La situazione nel centrodestra si faceva sempre più ingarbugliata. Berlusconi si trovava alle prese con gli ennesimi guai giudiziari che coinvolgevano la sua vita privata, e il suo partito non aveva ancora assunto una posizione netta nei confronti dell’esecutivo Monti. La Lega poteva invece contare su una linea politica chiara in opposizione al Professore, ma il centrosinistra di Bersani si sentiva la vittoria in tasca. A conferma della confusione del centrodestra, il Cavaliere provò addirittura a offrire a Monti la guida dei «moderati». Il senatore a vita rifiutò e, mal consigliato dai sondaggi, decise di creare Scelta civica e di presentarsi alle elezioni, dimostrando una volta di più di non avere il polso del Paese e di vivere fuori dal mondo.
Anche la Lega non navigava in acque tranquille e, soprattutto in Veneto, il malumore di militanti ed elettori stava crescendo.
Tutto ciò rendeva ancora più ardua la corsa al Pirellone, con Formigoni che ce l’aveva giurata, e aveva deciso di sponsorizzare la candidatura di Gabriele Albertini, e il centrosinistra che nel frattempo aveva candidato Umberto Ambrosoli.
Si votò a febbraio, un periodo in cui la neve colpì molte zone della Lombardia: neve che però non fermò gli elettori della Lega e del centrodestra.
Mentre alle politiche la Lega superava di poco il 4%, un punteggio deludente ma che ci teneva in vita dopo gli scandali, il centrosinistra di Bersani non aveva sfondato come pronosticato alla vigilia. Complice un exploit dei grillini, solo a tarda notte gli esponenti del PD riuscirono a brindare a una vittoria spuntata, anche se in seguito non sarebbero riusciti a formare il nuovo governo.
I dati delle regionali si rivelarono invece decisamente più confortanti per noi, che assistemmo allo spoglio in diretta, chiusi nell’ufficio di Maroni, smorzando la tensione con una raffica di cioccolatini. Alla fine, Bobo spuntò la vittoria con cinque punti di vantaggio sul centrosinistra. La lista personale del neogovernatore lombardo aveva ottenuto buoni risultati (10%), così come la stessa Lega, giunta al 13%. Con tutti i limiti e i miglioramenti che ci potranno essere, regione Lombardia era e rimane un esempio di buona amministrazione a livello europeo. Se pensiamo alla sanità, con centinaia di migliaia di pazienti che ogni anno arrivano per farsi curare qui dall’Italia e dall’estero, non possiamo che essere grati al lavoro di migliaia di medici, infermieri, volontari e dirigenti che ogni giorno danno esempio di abnegazione e professionalità. E anche i costi per la politica e per la macchina burocratica sono tra i più bassi in Italia.
Nell’aprile 2013 si tenne un nuovo raduno a Pontida. Il segretario Maroni portava in dote la vittoria in Lombardia, che per noi leghisti significava la realizzazione di un sogno: governare il cuore del Nord. Per la prima volta tenni un discorso dal palco; mi presentai indossando la felpa con la scritta MILANO: non fu facile affrontare una folla di cinquantamila persone, e forse più, soprattutto quando Bobo mi abbracciò e dal microfono urlò: «È il più bravo, è il numero uno!».
Ero davvero sopraffatto dall’emozione: «Lui complica le cose, speravo volesse annunciare il raddoppio del Milan». Spiegai alla folla che non potevamo dividerci, e citai don Milani: «“l’obbedienza non è più una virtù” perché non sono tempi normali. Lui lo diceva per l’obiezione di coscienza, a causa della quale ai suoi tempi si rischiava la galera. Ce ne fossero di più, di don Milani, oggigiorno! Lui sosteneva che il suo compito era rendersi odioso e insopportabile a tutti quelli che non volevano aprire gli occhi. Dopo sette anni da quando un parroco di montagna disse che l’obbedienza non era una virtù, lo Stato italiano fu costretto a cambiare la legge».
«Cominciamo a disubbidire – continuai – dobbiamo essere disposti a rischiare per un paese con un fisco più giusto, con più opportunità per i giovani, con un’immigazione controllata e qualificata. Se si vuole, si può! Chi si arrende ha già perso.» Proseguii attaccando i prefetti (e all’epoca non avevano ancora cominciato a distribuire i clandestini, obbedendo ad Angelino Alfano!). Non mancai di ringraziare i militanti che, pur non essendo lombardi, avevano esultato per la vittoria di Maroni: la Lega aveva giocato la partita della vita, ben più di quanto non lo fossero le elezioni politiche.
Dopo di me, sul palco, si presentò Flavio Tosi. Poi ancora il governatore Luca Zaia.
Clima caldo, già allora, e mi era ben chiaro che divisi e litigiosi non si va lontano.
Oltretutto i soldi in cassa erano pochi, molto pochi, non avendo la Lega banchieri, lobby e multinazionali che la finanziavano. Si riusciva a malapena a pagare gli stipendi dei dipendenti, e i nostri media (quotidiano, radio e TV) facevano fatica a tirare avanti. Non solo: Bersani non era riuscito a formare un nuovo governo, e al suo posto si era insediato Enrico Letta, abile poi a convincere Silvio Berlusconi ad appoggiarlo dando vita a un esecutivo di larghe intese. Per questo il Cavaliere, preoccupato per le grane giudiziarie e con il rischio che una condanna definitiva potesse metterlo fuorigioco per effetto della legge Severino (emanata dal governo Monti, ma votata anche da Forza Italia!), aveva piazzato uomini di fiducia in posizioni chiave, per esempio Angelino Alfano al Viminale. Letta aveva creato un ministero ad hoc per l’Integrazione, affidato a uno dei ministri più inutili della storia della Repubblica: Cécile Kyenge. Attenzione: non sono io a sostenere che la signora fosse inadeguata, ma è stato lo stesso PD a bocciarla mesi dopo, quando non venne confermata al governo.
Il centrodestra si era di fatto sbriciolato, visto che la Lega non voleva saperne di farsi coinvolgere in un governo col PD, mentre i grillini avevano conquistato la corona di protagonisti assoluti dell’opposizione. Noi intanto guardavamo con una certa preoccupazione alle europee del 2014: dopo aver portato ben nove deputati a Bruxelles solo cinque anni prima, un risultato sotto il 4% ci avrebbe condannato all’esclusione dalle istituzioni continentali, assestandoci un colpo potenzialmente mortale.
L’incubo, insomma, era quello di diventare irrilevanti nel panorama politico. Soprattutto nel momento in cui il nostro leader, Maroni, si trovava in difficoltà oggettive: non si poteva pretendere che potesse guidare una grande regione come la Lombardia e contemporaneamente dettare la linea a un partito che doveva a tutti i costi risollevarsi.
Per questo una sera Bobo convocò in gran segreto una riunione nel suo ufficio: oltre a me era presente anche Tosi. Maroni aveva grande fiducia nel sottoscritto e nel sindaco di Verona: pensava che potessimo dare vita a un tandem efficace per risollevare le sorti del partito. Da tempo Tosi si era costruito un profilo da leader nazionale. E le sue uscite contro Bossi gli avevano garantito un’ampia vetrina su giornali e TV. Flavio era convinto che il recinto della Lega dovesse aprirsi, in modo da intercettare consensi da ambienti che non avevano mai avuto feeling con noi. Faceva l’esempio della sua Verona: sfidando il centrodestra, aveva coinvolto attorno alla Lega una serie di liste civiche. Grazie a questa strategia aveva vinto a mani basse, ma allo stesso tempo la Lega aveva perso parecchi consensi a favore degli altri partiti a sostegno della sua candidatura, mentre le truppe berlusconiane erano state letteralmente spazzate via. Lo stesso Maroni apprezzava il cosiddetto modello Verona, tanto che persino in Lombardia aveva deciso di schierare una lista che portava il suo nome per allargare l’offerta politica. Una scelta necessaria, in un momento in cui il centrodestra faceva oggettivamente pena. Inoltre, la percentuale a due cifre ottenuta dalla lista Maroni si era rivelata decisiva per sconfiggere Ambrosoli.
Seguivo con interesse queste strategie, ma in cuor mio ero convinto che la Lega non fosse finita e non avesse la necessità di cercare appoggi altrove. In altre parole, ero sicuro che imboccando la strada giusta avremmo recuperato i consensi perduti. Maroni propose un accordo: io mi sarei occupato del partito e sarei diventato il nuovo segretario federale, mentre Tosi avrebbe preparato il terreno per diventare il candidato premier di tutto il centrodestra. D’altronde persino Berlusconi, anni prima, l’aveva in un certo senso incoronato definendolo «rozzo, ma efficace». Accettai il compromesso, sinceramente convinto che fosse la situazione più corretta. La strada era tutt’altro che in discesa, anche perché moltissimi colonnelli supplicavano Maroni di restare al suo posto. Molti temevano che solo Bobo potesse garantire la compattezza del partito. Tosi, invece, veniva accusato di aver creato profonde divisioni nel Veneto, ed evidentemente molti credevano che il sottoscritto non fosse il profilo giusto.
Fatto sta che all’inizio di dicembre Maroni ruppe gli indugi, annunciando che si sarebbe dimesso e che al suo posto sarebbe diventato segretario il prescelto dalla base. Per la prima volta nella storia della Lega, al di là delle incredibili «gazebate» per il referendum sull’indipendenza della Padania e per le elezioni padane (1997), la nostra militanza avrebbe...