1919. La grande illusione
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1919. La grande illusione

  1. 576 pagine
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1919. La grande illusione

Informazioni su questo libro

28 giugno 1919, Palazzo di Versailles. Nella stessa reggia che mezzo secolo prima aveva ospitato la proclamazione del Secondo Reich, siedono i rappresentanti di quarantaquattro Stati chiamati a ratificare il trattato che metterà la parola fine alla Grande Guerra. Un evento di portata globale, che - per la prima volta nella storia - attira l'attenzione massiccia di media e opinione pubblica. Sulla conferenza di pace si appuntano speranze, progetti e aspirazioni di natura diversa: richieste di indipendenza e autodeterminazione, bisogno di stabilità, l'esigenza di sancire un nuovo ordine che garantisca la concordia internazionale, ma anche desideri di rivalsa, spinte nazionalistiche, richieste di giustizia. E, su tutto, la rabbia delle popolazioni coinvolte nel conflitto. Elementi difficili da conciliare. Tanto che, già negli anni Trenta, in molti avrebbero attribuito alle scelte compiute in quella sede la responsabilità di ciò che si iniziava a delineare: la fine della Repubblica di Weimar, l'ascesa al potere dei nazisti e l'avvento della Seconda guerra mondiale. A cent'anni dalla controversa conferenza di pace, questo volume ne propone al lettore un bilancio lucido e scevro da pregiudizi, basato su una ricostruzione puntuale, precisa, documentata e al contempo avvincente. Eckart Conze ci mostra come il conflitto sia continuato nelle menti e negli animi di popoli piagati dagli scontri e infiammati dalla propaganda. Mentre antichi imperi venivano cancellati dalle cartine e nuovi Stati nazionali reclamavano il proprio spazio, le lotte proseguirono. E quella pace che nessuno voleva si mostrò presto per ciò che era realmente: una grande illusione.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817119689
eBook ISBN
9788858697498
Argomento
Storia
PARTE SECONDA

I negoziati di pace (1919-1920)

Il tempo dei sogni e delle ambizioni

Le aspettative di pace prima dell’inizio della conferenza

«Viva Wilson!»

Venerdì 13 dicembre 1918 l’intera popolazione di Brest, città portuale della Bretagna, era raccolta nelle strade per salutare l’arrivo del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. Gli abitanti indossavano gli abiti da festa, o i costumi tradizionali bretoni; le scuole erano chiuse, e gruppi di bambini sfilavano per le vie intonando canti. Alla stazione arrivarono diversi treni speciali da Parigi, che trasportavano ministri, deputati, senatori e alti ufficiali francesi; marinai e soldati furono dispiegati nel porto per tributare un’accoglienza trionfale al primo presidente degli Stati Uniti che avesse mai messo piede in Europa mentre era in carica. Intorno alle 11,30 fu avvistata la George Washington, la nave su cui Wilson si era imbarcato nove giorni prima a New York, insieme alla moglie Edith e a Jean Jules Jusserand, ambasciatore francese a Washington; la nave era scortata da varie corazzate e cacciatorpediniere statunitensi, e altri vascelli francesi e britannici si erano uniti al convoglio al largo della costa bretone. A circa un miglio dal molo, la George Washington gettò l’ancora. I cannoni, a terra e sulle navi, spararono a salve; poi una lancia condusse il ministro degli Esteri Pichon e il ministro della Marina Leygues sulla nave del presidente americano. Alcuni minuti dopo, Wilson scese a terra e toccò il suolo francese, mentre la banda eseguiva la Marsigliese e The Star-Spangled Banner, in un crescendo di esultanza collettiva. «Le siamo profondamente grati per essere venuto a portarci una pace giusta» disse Pichon all’illustre ospite. Anche il sindaco di Brest prese parte ai discorsi di benvenuto, rievocando il periodo della Rivoluzione americana e la lunga tradizione di amicizia tra statunitensi e francesi; Wilson rispose che era giunto in Europa proprio per «creare la pace secondo gli ideali di Francia e Stati Uniti». Il presidente e il suo seguito attraversarono la folla entusiasta, passando per strade a festa e superando enormi depositi militari (Brest era il più importante porto di approvvigionamento transatlantico, e proprio qui era sbarcata la maggior parte delle truppe americane inviate in Europa), fino a raggiungere la stazione ferroviaria, dove nel pomeriggio salirono a bordo di un treno speciale diretto a Parigi.1
L’accoglienza che il presidente americano ricevette nella capitale fu ancora più trionfale. Alla stazione di Porte-Dauphine, Wilson fu accolto dal capo di Stato Raymond Poincaré e dal primo ministro Clemenceau. Anche qui il suo arrivo fu annunciato da una salva di cannoni e dai due inni nazionali; in ogni angolo si vedevano sventolare bandiere americane e francesi. Wilson, accompagnato da Poincaré a bordo di una carrozza scoperta, sfilò lungo l’Avenue du Bois de Boulogne (oggi intitolata a Foch) fino all’Arco di trionfo, poi attraversò gli Champs Élysées e in Place de la Concorde imboccò la Rue Royale, diretto verso il Palais Murat in Rue de Monceau, che sarebbe stata la sua «Casa Bianca temporanea». Le centinaia di migliaia di persone presenti, allineate lungo i viali e raggruppate nelle piazze, acclamarono Wilson come un liberatore. I quotidiani della capitale uscirono con edizioni straordinarie, ringraziando il presidente per il suo contributo alla vittoria ed esprimendo i loro auspici per i negoziati di pace. Wilson e i suoi furono molto impressionati dall’accoglienza ricevuta, e si sentirono incoraggiati dal clima di entusiasmo generale: forte di quella vivace approvazione, il presidente sapeva che sarebbe riuscito a ottenere quella pace giusta che lo aveva spinto da Washington fino a Parigi. Nelle settimane successive, prima dell’inizio della conferenza nel gennaio 1919, il presidente si recò anche in Inghilterra e in Italia, dove ricevette un’accoglienza molto simile.
A Londra, il 26 dicembre, il re Giorgio V e l’intero gabinetto di governo accolsero l’illustre ospite alla stazione di Charing Cross, dove questi era arrivato in treno da Dover dopo aver attraversato la Manica. L’itinerario da Trafalgar Square fino a Buckingham Palace fu una sfilata trionfale, e Wilson sarebbe stato accolto con altrettanto entusiasmo nelle sue visite a Carlisle e Manchester. Nei suoi discorsi, a cominciare da quello alla Guildhall, raccontò di aver incontrato i soldati e di essersi convinto che essi, forse senza saperlo, avevano combattuto soprattutto per uno scopo preciso: «Liberarsi di un vecchio ordine e crearne uno nuovo». La caratteristica principale del vecchio ordine era l’idea di un «equilibrio di potenza» (balance of power) imposto con le armi e determinato da un mutevole rapporto di obiettivi concorrenti; era dunque un equilibrio basato sull’invidia e gli interessi antagonistici. «Gli uomini che hanno combattuto questa guerra» proseguì Wilson «provenivano da nazioni libere, ed erano determinati a cambiare questa situazione una volta per tutte. […] Non deve più esistere un equilibrio di potenza, che ruoti intorno agli interessi di un ristretto gruppo di Stati, ma solo un’unione forte, aperta a tutte le nazioni, che si ponga a tutela della pace mondiale.»2
Dopo essere brevemente tornato a Parigi, Wilson si recò in Italia. Durante le soste a Torino e Genova il suo treno speciale fu circondato da folle acclamanti, e un coro di «Viva Wilson!» riecheggiò anche nella capitale, dove il presidente arrivò il 3 gennaio. In Vaticano fu ricevuto da Benedetto XV, il pontefice che negli anni precedenti aveva tentato più volte – invano – di appellarsi alle potenze belligeranti per bloccare quella che definiva una «inutile strage». Su invito di re Vittorio Emanuele III, Wilson tenne un discorso davanti alle due Camere del Parlamento in sessione congiunta; si rivolse in inglese ai senatori e ai deputati e, sebbene pochi di questi lo capissero, la sua oratoria fu interrotta a più riprese da fragorosi applausi. La guerra, spiegò Wilson, aveva condotto allo smembramento dei grandi imperi. «E noi sappiamo» proseguì, con termini analoghi a quelli del discorso londinese, «che non potrà esserci un nuovo equilibrio di potenza. […] Qualcosa deve sostituire questo equilibrio […] e quel qualcosa sarà una società delle nazioni che è nostro dovere realizzare.»
Intanto i leader francesi, inglesi e italiani iniziarono a mostrare un certo scetticismo verso l’entusiasmo collettivo generato dal viaggio in Europa di Wilson; le critiche che il presidente americano aveva rivolto, prima a Londra e poi a Roma, alle tradizionali politiche di potere continentali e alle esigenze di pace dei Paesi europei alimentarono una diffidenza che risaliva al discorso dei Quattordici punti e che si era intensificata nell’autunno del 1918, durante lo scambio di note con la Germania. Che cosa ci si poteva aspettare da un uomo che appariva chiaramente intenzionato a dominare le imminenti trattative, e che sembrava incassare il sostegno delle popolazioni europee pur avendo un’idea di pace nettamente diversa da quella dei loro governanti?
Il giorno dell’arrivo di Wilson a Parigi, il capo di Stato francese aveva dato un ricevimento all’Eliseo per accogliere il suo ospite con tutti gli onori. Poincaré aveva proposto un brindisi al presidente statunitense rivolgendogli parole di elogio, definendolo un luminoso rappresentante della democrazia, un filosofo delle leggi universali e uno statista che aveva cristallizzato alti principi politici e morali in formule immortali. Ciò detto, Poincaré aveva affermato che la Grande Guerra era stata l’esito di un piano di rapina e distruzione elaborato in modo sistematicamente brutale dalla dirigenza tedesca, e aveva annunciato che avrebbe prodotto documenti per dimostrarlo. «A prescindere dalle misure precauzionali che adotteremo,» aveva concluso «nessuno, purtroppo, può affermare con sicurezza che l’umanità sarà tenuta al riparo da nuovi conflitti.» Wilson aveva quindi risposto che a maggior ragione era necessario «assicurare la pace futura del mondo e gettare le basi per la libertà e la felicità di tutti i popoli e le nazioni». Le differenze di tono e di sostanza tra i due approcci erano troppo grandi per essere ignorate.3
Appena due settimane più tardi – il 29 dicembre 1918, poco dopo il discorso di Wilson alla Guildhall di Londra – Clemenceau era intervenuto alla Camera dei deputati per opporsi a coloro che, a suo dire, stavano cercando di «screditare il buon vecchio sistema di alleanze chiamato “equilibrio di potenza”». «Se prima della Grande Guerra vi fosse stato davvero un equilibrio,» aveva aggiunto il primo ministro, «allora Inghilterra, Stati Uniti, Francia e Italia avrebbero unito le forze ben prima del conflitto per contrastare le potenze teutoniche […] e questa guerra non ci sarebbe mai stata.» E in tono fermo aveva concluso: «Chiunque critichi il sistema di alleanze, o l’equilibrio di potenza, non mi consideri uno di loro. Al contrario, l’affermazione di un tale sistema sarà la mia linea guida durante la conferenza di pace».4
La reazione di Wilson era stata immediata, e nel discorso di Manchester aveva affermato che una politica degli interessi di potere nazionali non avrebbe mai condotto a una linea comune, facendo capire che gli Stati Uniti – coerentemente con la propria tradizione di politica estera – erano interessati unicamente a una collaborazione con l’Europa basata sullo Stato di diritto, e che la pace che auspicavano era rivolta al mondo intero, e non a un singolo continente. «All’America le alleanze non interessano» aveva chiosato Wilson. «Gli Stati Uniti non aderiranno ad alcuna associazione di nazioni che non sia un’associazione di tutte le nazioni.»5
Che alla fine del 1918 vi fossero differenze tra l’idea di pace americana e quella britannica o francese non era un fatto così singolare; più sorprendente era invece constatare la durezza dello scambio di dichiarazioni pubbliche tra Wilson e Clemenceau. Era però prematuro parlare di una frattura tra Europa e Stati Uniti tale da mettere in discussione il buon esito dei negoziati di pace. Dopotutto la presa di posizione di Clemenceau era determinata in primo luogo dalla questione franco-tedesca e da legittimi interessi di sicurezza nazionale, mentre Wilson non aveva espresso alcuna opinione su tale problematica, limitandosi a riaffermare la sua idea di un ordine pacifico globale. I due statisti, insomma, si muovevano su piani diversi. E poi, la costituzione di una «associazione di tutte le nazioni» era davvero incompatibile con un trattato delle potenze vincitrici che, dopo un accordo di pace, garantisse la sicurezza della Francia da possibili attacchi tedeschi? Perché non cogliere l’occasione di conciliare i due interessi, costituendo quella «lega di nazioni» caldeggiata dagli Stati Uniti e attribuendovi la funzione di garanzia desiderata dalla Francia?
Dietro lo scetticismo di Parigi verso un’organizzazione mondiale di natura giuridica si celava il timore che, in caso di attacco militare tedesco, la Francia venisse abbandonata a se stessa, non potendo sfuggire alla propria condizione geopolitica e, dunque, liberarsi dei temuti vicini. In tale eventualità, la Gran Bretagna, dall’altra parte della Manica, e gli Stati Uniti, dall’altra parte dell’Atlantico, avrebbero sostenuto il Paese anche con i fatti – cioè con l’intervento militare – o solo con l’arma spuntata del diritto internazionale? Questo era l’implicito interrogativo rivolto a Wilson, e al quale il presidente non aveva risposto. Woodrow Wilson aveva mandato un segnale forte in Inghilterra e in Italia, e le folle esultanti in Europa invitarono i politici di Francia, Gran Bretagna e Italia a non sottovalutare il peso di un presidente che mirava deliberatamente all’opinione pubblica, né tantomeno la sua volontà di affermarsi, rafforzata da un simile consenso. Wilson stesso era piuttosto scettico riguardo agli imminenti negoziati di pace. Già a bordo della George Washington aveva avuto la sensazione che la conferenza di pace potesse rivelarsi una «tragica delusione», soprattutto per via del contrasto tra l’ideale di autodeterminazione nazionale e gli interessi dei singoli Paesi, e aveva dissuaso i suoi interlocutori dal nutrire aspettative eccessivamente elevate.6

La speranza di una pace wilsoniana

Il trionfale viaggio per l’Europa del presidente americano e le sue dichiarazioni pubbliche furono seguiti con particolare attenzione anche da Berlino. Malgrado l’umiliante esperienza dell’armistizio di Compiègne, l’élite tedesca era ancora convinta della validità della strategia di negoziare con gli Stati Uniti, confidando che essi, grazie al proprio schiacciante peso politico ed economico, sarebbero riusciti a portare in Europa una pace ispirata ai Quattordici punti. Per questo motivo, nei mesi successivi a quell’amaro 11 novembre, quasi tutti gli sforzi da parte tedesca furono intesi a ottenere una modifica dei termini dell’armistizio, attraverso contatti diretti o indiretti con Washington, nonché la revoca del blocco imposto dagli Alleati, che nell’inverno 1918-1919 stava rendendo sempre più critico l’approvvigionamento alimentare della popolazione. Ma agli Stati Uniti furono indirizzate anche richieste di aiuti economici, o appelli strumentali ai Quattordici punti per far valere gli interessi della nazione e, allo stesso tempo, emarginare Francia e Gran Bretagna.
Il giorno stesso dell’armistizio, Wilhelm Solf – rimasto a capo del ministero degli Esteri anche dopo gli sconvolgimenti del 9 novembre – si era rivolto direttamente a Robert Lansing per chiedere al presidente degli Stati Uniti di avviare i negoziati di pace. A nome del governo rivoluzionario, il fiducioso Solf aveva chiesto al suo interlocutore di «pensare innanzitutto alla firma di una pace preliminare e comunicare dove e quando si sarebbero potuti avviare i negoziati», specificando che per i vertici tedeschi era di grande importanza un «avvio immediato delle trattative».7 Pochi giorni dopo, il conte Johann Heinrich von Bernstorff, che dirigeva l’ufficio per i negoziati di pace presso il ministero degli Esteri, aveva trasformato questo approccio unilaterale in una precisa strategia politica.
Bernstorff, già ambasciatore tedesco a Washington fino all’entrata in guerra, aveva affermato in un memorandum che la posizione americana era decisiva per il futuro, perché il mondo intero sarebbe diventato «economicamente e finanziariamente dipendente dagli Stati Uniti». Proprio per questo motivo, aggiungeva il diplomatico, la Germania avrebbe dovuto cercare il loro sostegno durante i negoziati di pace, così da poter «ricostruire il Paese con il loro aiuto»: una valutazione perspicace e realistica, vista in retrospettiva. Bernstorff aveva poi elogiato il «pacifismo» di Wilson, in contrapposizione all’«imperialismo aperto o mascherato» dei suoi alleati europei, e aveva garantito un pieno sostegno tedesco alle sue iniziative. «Solo in questo modo» aveva concluso «potremo auspicare di porre un freno alle mire imperialistiche dei nostri nemici, ottenendo un vantaggio che controbilanci l’attuale debolezza della Germania.»8
L’atteggiamento tedesco si sarebbe rivelato controproducente negli anni a venire, se non già all’inizio degli anni Venti. L’affidarsi quasi disperato della Germania all’America non si concluse con la firma del trattato di Versailles: continuò con l’attuazione delle sue disposizioni – in particolare i risarcimenti – ma dovette fare i conti con l’atteggiamento dei governi americani, che fino al 1923-1924 non si dimostrarono disposti a impegnarsi massicciamente in Europa, e di certo non per gli interessi tedeschi. Questo affidamento unilaterale agli Stati Uniti, sia nel periodo dell’armistizio sia negli anni successivi alla firma del trattato di pace, per lo storico Peter Krüger fu probabilmente un errore; l’America era troppo lontana, e la situazione europea poteva essere migliorata solo sul continente, attraverso cauti e graduali compromessi tra i vari Paesi, e soprattutto tra Francia e Germania.9 Questa, perlomeno, era la prospettiva della metà degli anni Venti, dell’epoca di Stresemann e Briand e dei trattati di Locarno; ma difficilmente la si sarebbe potuta adottare nell’immediato dopoguerra, e men che meno nel periodo dell’armistizio. Perché vi sia una politica di bilanciamento occorre disponibilità da entrambe le parti, ma nell’inverno del 1918-1919 la Francia – a livello di classe politica così come di società civile – non ne mostrava affatto. Ed era difficile aspettarsi il contrario.
Il focalizzarsi della Germania sugli Stati Uniti, tuttavia, derivava anche dall’ambizione (o meglio dalla speranza) di ottenere una stabilizzazione politica interna mediante una «pace wilsoniana». L’obiettivo era in prima battuta quello di consolidare il governo del Consiglio dei commissari del popolo. Al suo interno, malgrado la pari rappresentanza delle due componenti socialdemocratiche figlie della scissione del partito – la corrente «indipendente» (USPD) e quella «maggioritaria» (MSPD) – era il gruppo di Friedrich Ebert a costituire la forza trainante. Dopo le elezioni per l’assemblea costituente del 19 gennaio 1919 e la legge sui poteri provvisori del Reich, in febbraio Scheidemann fu chiamato a dirigere un governo di coalizione composto da SPD, democratici e centristi. La mite pace di Wilson, di cui si parlava ripetutamente, non sarebbe stata raggiunta né con un governo radicalmente rivoluzionario né con uno reazionario e autocratico, ma solo con un esecutivo che promuovesse e rafforzasse ulteriormente la democratizzazione del Paese. I primi governi della Repubblica di Weimar, incluso il Consiglio dei commissari del popolo (che per inciso mantennero i sottosegretari del Reich all’interno dei nuovi ministeri, in qualità di consiglieri), non osarono preparare la popolazione a una pace diversa da quella moderata di Wilson, perché temevano che la delusione potesse destabilizzare ulteriormente la già precaria situazione politica interna. Da qui lo shock che avrebbe colpito il popolo tedesco il 7 maggio 1919, con la comunicazione delle effettive condizioni di pace, e la conseguente diffusione, soprattutto dopo la firma del trattato di Versailles, dello slogan «Wilson traditore».10
Se i politici tedeschi – a cominciare dal conte Ulrich von Brockdorff-Rantzau, che nel dicembre 1918 assunse la carica di segretario di Stato per gli Esteri, per poi diventare, nel febbraio 1919, il primo ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar – insistevano sul fatto che la Germania non avrebbe accettato un trattato di pace che non soddisfacesse le condizioni previste (in particolare le garanzie della N...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1919 La grande illusione
  4. Introduzione. Versailles 1919. Le richieste di pace
  5. PARTE PRIMA. L’uscita dalla Grande Guerra (1916-1918)
  6. PARTE SECONDA. I negoziati di pace (1919-1920)
  7. PARTE TERZA. Da Versailles alla Seconda guerra mondiale
  8. Epilogo. Cento anni dopo
  9. Note
  10. Bibliografia
  11. Copyright