1. La prima lezione di Shahrazâd: le storie ci creano
Annota nel tuo Libro della Meraviglia tre storie che per te sono importanti. Potrebbe trattarsi di libri, film o episodi tramandati nella tua famiglia (la volta che la nonna ha dato spettacolo dopo tre bicchieri di spumante al matrimonio di tua cugina; come si sono conosciuti i tuoi genitori), o di cose memorabili che ti sono successe. Potrebbe bastarti anche soltanto una breve frase o un titolo, come per esempio «La tela di Carlotta» o «Quell’epica notte a Barcellona»; o magari preferirai narrare quelle storie con un respiro più largo.
Poi guarda quelle tre storie e chiediti: che influsso hanno avuto sulla mia vita, in senso buono e cattivo? Esamina entrambi i versanti: anche la tua storia preferita avrà i suoi risvolti negativi.
Di ogni storia scrivi almeno quattro modi in cui ha influenzato la tua vita, due positivi e due negativi.
2. La seconda lezione di Shahrazâd: la fede poetica è un formidabile strumento di incantesimo
Trova un personaggio che ami e che apprezzi: che so, Mary Poppins, Jack Skeletron, Aragorn o Elizabeth Bennet. Per il prossimo mese immagina che questo personaggio esista a tutti gli effetti, e fatti aiutare da lui. Quando ti senti insicuro su qualcosa, chiediti che cosa potrebbe suggerirti di fare quel personaggio. Prova a scorgerlo con la coda dell’occhio, per strada, nei bar, sul posto di lavoro.
Prendi nota nel tuo Libro della Meraviglia di tutti i modi in cui quel personaggio ti ha aiutato in passato, e dei modi in cui ti sta aiutando nel presente.
Se ti capita di incontrarlo, e magari anche di conversarci, descrivi l’incontro nel tuo Libro della Meraviglia.
3. Terza lezione di Shahrazâd: la realtà è meravigliosa soltanto quando la si declina al plurale
Per una settimana, o più a lungo, medita sulla Luna. Vai in giardino, o in un luogo in cui è visibile, e fissala per almeno cinque minuti ogni volta, impostando il tempo con l’orologio. Se la Luna non è visibile ogni sera per una settimana, continua a provare fino a quando avrai fatto la meditazione almeno sette volte.
Durante la meditazione, pensa alla Luna come a una dea (magari ti viene voglia di chiamarla Diana). Guarda la sua faccia come faresti con il volto di un’amica. Riconosci la sua presenza con un cenno del capo. Se ne senti la voce nella testa, sotto forma di pensieri e idee, non trattenerti dal rispondere. Prendi nota nel tuo Libro della Meraviglia.
4. Quarta lezione di Shahrazâd: la radice della storia è il piacere
Dimentica tutto ciò che pensi sul perché libri, film e storie sono «buoni» o sul perché non lo sono. Dimentica tutti i tuoi preconcetti rispetto a ciò che forma il buongusto. Se il piacere fosse la tua unica guida, che cosa vorresti leggere, che cosa guarderesti? Annota le scelte nel tuo Libro della Meraviglia. Massima sincerità!
Quindi esamina le scelte. Quanto sono diversi quei libri e quei film da quelli che di solito leggi e guardi? E che cosa hanno in comune queste storie? Suggeriscono che nella tua vita manca qualcosa?
5. Quinta lezione di Shahrazâd: la meraviglia arriva al prezzo della certezza
Scrivi tre affermazioni su aspetti della tua personalità che per te contano molto. Per esempio: «Io sono fedele».
Poi trova episodi della tua vita che contrastano con quell’affermazione.
Il sultano Shahriyâr aveva un fratello più giovane che regnava su un reame più piccolo. I due andavano d’accordo: un regno più piccolo è pur sempre un regno, e al fratello minore bastava. Avevano entrambi mogli avvenenti e sudditi leali. Una vita piacevole, finché durò.
Un giorno il sultano mandò il suo visir dal fratello, per invitarlo ad andare a trascorrere un po’ di tempo con lui, se lo desiderava: erano passati due anni dall’ultima volta che si erano visti. Il giovane re pensò che fosse un’ottima idea, e chiese al visir di accamparsi alle porte della città mentre lui si preparava al viaggio.
Ordinò ai suoi servi di portare cibo, e doni per Shahriyâr, e mise a capo del regno il suo fedele ministro. La regina, decise, sarebbe rimasta a corte, in caso ci fossero stati problemi durante la sua assenza. Anche se non se ne aspettava.
La notte prima di partire, il fratello di Shahriyâr diede alla moglie il bacio di addio e raggiunse l’accampamento del visir, accanto al quale aveva fatto sistemare il proprio, in modo da essere pronti a partire alle prime luci dell’alba. Era una notte calda, profumata e lieta; eppure al fratello di Shahriyâr già mancava la pelle morbida della moglie, la nota rauca della sua voce. Si girò e rigirò nel letto, sotto le miriadi di stelle che brillavano nel cielo notturno, finché non ne poté più. Decise di tornare per un’ultima volta al palazzo, furtivamente, e di sorprendere la sua amata con un ultimo saluto.
Non dovresti mai intrufolarti di nascosto nella vita di chi ami, perché a venire sorpreso potresti essere tu; se il fratello del sultano fosse stato più vecchio, e più saggio, lo avrebbe saputo.
Trovò la moglie nelle sue stanze, addormentata. Era nuda; la sua pelle, liscia come l’acqua in una giornata di calma perfetta, rifletteva il bagliore delle stelle che entrava dalla finestra. Non dormiva sola. Un giovane uomo, uno di quelli dai muscoli scolpiti con cura e soddisfazione, giaceva al suo fianco, anche lui nudo. Erano entrambi sorridenti, le loro membra intrecciate, sazi dopo quella che era chiaramente stata una lunga notte.
Il fratello tradito fece l’unica cosa che potesse fare: estrasse la sciabola e trucidò la moglie e il suo amante. Gettò i loro corpi nel fossato, e poi rifece cupo la strada per tornare all’accampamento. Diede l’ordine di partire immediatamente.
Il corteo raggiunse presto il palazzo del sultano. Se qualcuno si era accorto che il sovrano più giovane era di pessimo umore, decise di non farlo notare. Ma quando i due si incontrarono, tutte le preoccupazioni furono dimenticate. I fratelli si abbracciarono e andarono a cena, e poi fumarono e bevvero e chiacchierarono fino a tarda notte. Esiste un calore speciale, un legame inscindibile, che soltanto persone che si conoscono da tutta la vita possono condividere. Quando il fratello del sultano andò a coricarsi, era un uomo diverso.
O almeno così pensava.
Una volta a letto, non gli riuscì di prendere sonno. Non poteva credere a quanto fosse stato stupido, e sventurato. Si alzò. Sì, sventurato era la parola giusta. Di tutte le belle donne che c’erano nel regno (e ce n’erano molte), aveva dovuto innamorarsi proprio di quella che non gli sarebbe stata fedele. Se fosse stato più perspicace, come il fratello per esempio, l’avrebbe riconosciuta per quello che era e non l’avrebbe sposata.
Cominciò a camminare per la stanza, perso nei suoi pensieri, e quando la stanza gli divenne stretta passeggiò per il palazzo, e alla fine andò fuori a vagabondare nei giardini.
Anche Shahriyâr era sveglio, dopo avere intrattenuto la sultana nei modi appropriati a una sultana, e scorse il fratello incupito alla luce delle stelle. Pensò che dovesse mancargli la moglie: una notte come quella era fatta per amare. Decise che avrebbe fatto qualcosa per risollevargli l’umore.
A partire dal giorno successivo, il sultano ricoprì il fratello di doni, organizzò feste in suo onore, gli apparecchiò banchetti e gli offrì i vini più squisiti. Ma l’altro restava imbronciato. Quando Shahriyâr gli propose di andare a caccia, rifiutò, dicendosi indisposto. Shahriyâr non insistette. Andò a caccia senza di lui. E, naturalmente, tutta la corte lo seguì.
Le uniche persone di riguardo rimaste nel palazzo erano il fratello e la sultana.
Lui si chiuse nella sua stanza per dare fondo alla propria tristezza. Se ne stava immusonito alla finestra, quando scorse del movimento tra il rigoglio dei giardini. Una porta segreta si aprì, e ne uscirono ventuno donne velate. Una di loro era la sultana. Avanzarono finché giunsero molto vicine alla sua finestra, e lì si fermarono, e si spogliarono. Ora poteva vedere che dieci delle donne in effetti non erano affatto donne, ma uomini (della varietà prestante) sotto mentite spoglie. Anche la sultana si tolse le vesti. Chiamò un nome.
Apparve un altro uomo, più forte e più alto degli altri, anche lui nudo e pronto per quello che doveva accadere. Si avvicinò alla sultana e la baciò, labbra a labbra. Le sue mani le cinsero i fianchi.
Era il segnale che gli altri aspettavano. Donne e uomini iniziarono a baciarsi e ad accarezzarsi e a giocare tra loro nel sole, inebriati dal profumo del giardino. Fu una bella orgia, e sollevò un poco il morale del fratello del sultano. Ma per le ragioni sbagliate. Lui restava cornuto, però almeno non era l’unico in famiglia: anche la moglie del sultano era infedele.
Quando tornò, Shahriyâr trovò il fratello di umore migliore. Chiese che cosa fosse successo, e l’altro gli raccontò tutta la storia, descrivendo con particolare dettaglio il modo in cui le vivaci sollecitudini della sultana avessero sfiancato il compagno giovane e vigoroso. Shahriyâr non gli credette; di certo la sultana non si sarebbe abbassata in quel modo.
Il fratello gli suggerì di tendere un tranello alla donna, così da poter verificare con i propri occhi quel che andava combinando. Avrebbero finto di organizzare un’altra partita di caccia, ma sarebbero tornati insieme di nascosto. Il sultano era scettico, ma accettò il piano per assecondare suo fratello.
Il giorno dopo i due partirono per la caccia accompagnati da tutta la corte, ma ben presto se la svignarono, tornando segretamente al palazzo. Proprio come previsto, nel giardino era in pieno svolgimento un’altra orgia, una rosa di splendidi corpi con la sultana al centro. Per ragioni che mai riuscirò a capire, anziché unirsi alla festa (e sono sicuro che l’orgia li avrebbe accolti con gioia), i fratelli se ne andarono, entrambi di pessimo umore.
Decisero di abbandonare regni e palazzi per cercare una terra dove potessero coltivare quel pessimo umore quanto gli pareva. Promisero di non tornare fino a quando non avessero incontrato qualcuno più disgraziato di loro. Si lasciarono alle spalle suoni lieti e corpi avvinghiati e marciarono per tutto il giorno, fino a raggiungere il mare. Si accamparono sotto gli alberi.
Si erano appena addormentati quando li svegliò un rumore proveniente dal mare; un ruggito potente come di animale a caccia di prede. Una colonna nera si sollevò dall’acqua, alta fino al cielo, e quando i fratelli la videro capirono chi stava arrivando: un jinn, una creatura magica. Si arrampicarono su un albero per nascondersi.
La colonna di oscurità alla fine assunse la forma di un uomo, più o meno, che dal mare si trasferì sulla terraferma, portandosi dietro una cassa di vetro pregiato. Il jinn aprì la cassa e ne emerse una donna, i capelli neri come l’ebano, gli occhi scuri e luminosi. Era chiaro che il jinn era profondamente invaghito di lei. Le sussurrò dolci parole all’orecchio e le chiese se poteva riposarsi tenendo la testa sulle sue gambe, il più soffice dei cuscini. Lei gli permise gentilmente di farlo. Nel momento in cui il jinn si addormentò, la donna alzò lo sguardo verso la cima dell’albero e sorrise al sultano e al fratello facendo cenno di scendere.
Mentre loro si calavano dall’albero, la donna spostò delicatamente la testa del jinn così che restasse appoggiata contro una roccia. Sussurrò ai due uomini di seguirla, e così fecero.
Giunti in un luogo appartato, gli ordinò di spogliarsi e, prima che potessero replicare, cominciò a fare altrettanto.
I fratelli avrebbero preferito continuare a coltivare il loro pessimo umore (erano quel tipo di persone). Ma erano preoccupati che la donna potesse svegliare il jinn, quindi fecero del loro meglio per renderla felice.
Immagino che quel meglio non potesse essere un granché, considerato chi erano, ma la donna apprezzò comunque i loro sforzi. Quando l’ultima stilla di energia fu esaurita, e ottennero il permesso di rivestirsi, la donna fissò lo sguardo sui loro anelli nuziali e chiese se poteva tenerli. I due uomini furono ben lieti di accontentarla: dopotutto non ne avevano più bisogno, dal momento che la moglie di uno era morta e quella dell’altro probabilmente si stava dedicando tuttora a piaceri esuberanti tra i profumi del giardino.
La donna li ringraziò con calore. Spiegò che aveva una collezione di novantotto anelli di quel genere, ed era contenta di essere arrivata a cento. Il jinn la teneva chiusa in una cassa di vetro sotto il mare, ma anche così era riuscita a darsi piacere ogni volta che voleva. A quel punto, se ai fratelli non seccava, era gradevolmente stanca e aveva bisogno di dormire un po’, sicché sarebbe stata grata se si fossero congedati.
I due uomini le rivolsero un rapido addio e se la diedero a gambe prima che il jinn si svegliasse. Era più sventurato di loro, ragionavano. Lui, più potente di quanto entrambi non avrebbero mai potuto sognare di essere, era non meno cornuto.
Tornarono al palazzo del sultano. Shahriyâr era così disgustato dalle donne che non sopportava di uccidere la moglie di persona, come sarebbe stato giusto fare. Mandò invece il visir a sbrigare la faccenda al posto suo.
Dopodiché, prese la sciabola e uccise le sue cortigiane. Questo sì che poteva farlo. Ti domanderai perché invece non abbia chiesto alla sultana e alle cortigiane di dargli qualche dritta: era chiaro che in quel campo aveva molto da imparare. La risposta è che il sultano, come il fratello, non aveva spirito d’immaginazione. Preferiva rimanersene imbronciato anziché godersela: insomma, hai capito il tipo.
E quando un sultano mette il muso, lo fa in modo grandioso. Se nessuna donna poteva essere fedele, come aveva imparato, neanche lui sarebbe stato fedele. Assegnò al suo visir un compito orribile: ogni sera avrebbe dovuto mandargli una nuova donna da sposare, e la mattina dopo lui l’avrebbe uccisa, così lei non avrebbe avuto il tempo di mettergli le corna. Il fratello minore, inquietato dal lucido progetto del sultano, tornò al suo piccolo regno senza programmi del genere.
Il visir la ritenne francamente una reazione eccessiva, e cercò di parlarne con il sultano. Ma Shahriy...