Sulle ragioni della mia fame congenita ho sempre avuto un dannato sospetto. Certo, non ci sono evidenze scientifiche che possano supportarlo, ma quando avrete compreso fino in fondo il rapporto che esiste tra mia madre e il cibo sarete tentati di dare credito alla mia teoria.
Io ritengo che la mia fame ciclopica nasca dall’inappetenza ciclopica di mia madre. E non è solo una questione di compensazione, di natura che trova nei disequilibri un suo equilibrio. No. Sono pressoché certa del fatto che mentre mia madre era incinta di me, nei nove mesi di gestazione, attraverso il cordone ombelicale che mi ha legato indissolubilmente alle sue decisioni alimentari sia passato il fabbisogno calorico di una quaglia. Sono convinta che la piccola voglia rossa dietro al collo con cui sono nata non fosse una voglia di fragola, ma una “M” di McDonald’s. Sono totalmente persuasa del fatto che io sia nata podalica perché volevo nascere in piedi, già in posizione per piazzarmi davanti alla cassa di Krispy Kreme e chiedere una ciambella con i biscotti Oreo e crème brûlée. Credo di aver sperato, quando sono nata, che le ostetriche mi lavassero e asciugassero perché si andava tutti insieme al ristorante. E, credetemi, non sono iperboli. È PURA AUTOBIOGRAFIA.
Mia madre, al contrario mio, è nata sazia. O meglio, è così che io l’ho sempre vista. Certo, non posso sapere come sia stata nella sua infanzia, se sia mai esistita un’epoca della vita in cui il cibo, nella lista delle sue priorità, fosse almeno un gradino sopra “la carenza di plancton nello stretto di Bering. Cosa fare?”. Mi manca un pezzo della sua storia e del resto, quando chiedo ai suoi parenti se tra i due e i ventiquattro anni, prima che sposasse mio padre, l’abbiano mai vista mangiare, le risposte sono di una vaghezza disarmante. «Una volta, mi pare, ha addentato un finocchio alla fermata del tram» ha sostenuto nel 1997 un mio prozio dopo un’ora di interrogatorio serratissimo. L’unico che si è sbilanciato. Ora, per giunta, quel mio prozio è morto e così posso affermare senza timore di smentita che l’ultimo testimone oculare ad aver visto mia madre mangiare fino ai ventiquattro anni se n’è andato per sempre. Di sicuro posso dirvi quello che ho vissuto io, spettatrice assieme a mio padre e ai miei due fratelli di una clamorosa storia di indifferenza alimentare (ancora in corso).
Mia madre, semplicemente, non ha mai manifestato interesse per il cibo. E a dire il vero pure per l’acqua, visto che per sua ammissione non ha mai bevuto più di un paio di bicchieri di acqua al giorno. Sforzandosi.
In pratica mia madre è una robusta pianta grassa che non è mai arrivata, credo, ai cinquanta chili di peso. I suoi piattini preferiti sono sempre stati “la cicoria” e “l’insalata”. E sono seria. Per mia madre l’insalata, magari di finocchi, è davvero un’idea sfiziosa, una festa per il palato, una trasgressione alimentare. Ancora oggi, quando mia madre si siede a tavola e qualcuno prova a servirla, la premessa è sempre: «Per me poco, grazie». Tu le versi una cucchiaiata di qualsiasi cosa nel piatto e lei: «Basta basta, per me è anche troppo!».
«Mamma, è un cucchiaio di sugo, le polpette devo ancora mettertele!»
«Ah, ma una sola eh, che oggi non ho fame!»
Il suo «Oggi non ho fame» dura da almeno quarantaquattro anni e fino ai suoi ventiquattro anni non esiste prova che abbia mai mangiato, fatevi due conti.
Le scene migliori però sono quelle al ristorante, habitat in cui ovviamente mia madre si sente leggermente fuori posto. «Mamma oggi ti porto a non mangiare fuori, sei contenta?» le dico sempre. «Ahahah sciocca, io mangio eccome!» mi risponde puntualmente mia madre. Perché lei non ha la minima percezione del fatto che il suo stomaco sia un asociale cibofobico, è convinta di mangiare in quantità assolutamente normale e ignora il fatto che quello che lei ha mangiato negli ultimi vent’anni è forse quello che io ho mangiato l’ultima vigilia di Natale.
Comunque, la scena al ristorante è sempre la stessa. Arriva il cameriere. «Signora, cosa le porto?»
«Dell’acqua naturale temperatura ambiente, grazie.»
Mia madre considera il freddo e l’anidride carbonica due trasgressioni per gente viziosa. Naturalmente è anche astemia e il suo credo nutrizionale non prevede alcun liquido colorato, zuccherato o gassoso nella dieta. Di norma, al ristorante, non beve neppure l’acqua del rubinetto, ma comunque la ordina per prolungare il più possibile la conversazione col cameriere e dare alla situazione una parvenza di normalità.
«Ok, acqua naturale temperatura ambiente, poi? Come antipasto?»
«Per me l’insalata di carciofi crudi senza olio e parmigiano. E pochi carciofi. Grazie.»
«Bene, poi?»
«Poi il conto.»
Il cameriere a quel punto ci guarda con aria interrogativa, noi spieghiamo che mia madre è fatta così, mangia poco, allora mia madre si innervosisce e pronuncia la sua frase d’ordinanza: «Di solito mangio tantissimo, oggi non ho fame!».
A quel punto mio fratello risponde: «Eh le è rimasto sullo stomaco il tè di ieri sera, oggi è un po’ sottosopra!», al che mia madre si incazza e finiamo tutti per assecondarla dicendo che in effetti certi giorni tocca toglierle i bignè dalle mani perché se ne infila anche quattro in bocca per volta e il clima torna sereno.
La faccenda del tè, ad ogni modo, non è una cosa detta tanto per dire. Mia madre ha davvero cenato col tè tutta la vita. Per lei il pasto serale è sempre stato una bustina di Infré nell’acqua calda, senza zucchero. Talvolta ci infilava dentro un biscotto. E non è che ci chiedesse di adeguarci alla sua idea di cena. Semplicemente, lei a cena non cucinava. Il che, se vogliamo, sarebbe pure stato un gesto moderno, vagamente femminista, se noi tre figli e il marito non avessimo conosciuto il suo retropensiero. Che era: “Direi che il pranzo dovrebbe averci saziati abbondantemente tutti, no?”. Mia madre, insomma, ha provato a insegnarci a mangiare una volta al giorno, come i cani. Solo che noi, la sera, al contrario suo non eravamo sazi. Chi aveva finito i compiti, chi tornava dall’allenamento di calcio, chi dal lavoro, la sera c’era l’assalto alla dispensa della cucina per accaparrarsi beni di prima necessità. Ci aprivamo tutte le scatolette possibili: mais, tonno naturale, tonno sott’olio, Simmenthal. Io credo di aver imparato prima a usare l’apriscatole che a scrivere e leggere.
Ognuno componeva la sua cena con quello che trovava e vagava per casa con il suo piatto, sperduto, come a un festa con buffet in piedi, perché anche il rito della tavola era tassativamente abolito. Nessuno apparecchiava e nessuno trovava l’abitudine bizzarra, perché era sempre stato così e andava bene a tutti. A tutti tranne che a me, ovviamente. Io mia madre non la capivo. Cioè, disponeva di denaro sufficiente per andare al supermercato e acquistare le riserve alimentari per sopravvivere a sei conflitti bellici e tornava con biete, pomodori, tè e qualche scatoletta per la sera. Certo, c’era il pranzo e a pranzo c’erano spesso pasta, lasagne, bistecche, gnocchi… ma la sera mi toccava mandare giù pasti da astronauti. Non solo.
Visto che avevo due fratelli maschi, l’assalto alla dispensa, intorno alle otto di sera, mi vedeva spesso come l’elemento soccombente della famiglia. Per una scatoletta maxi di Tonno Rio Mare nascevano vere e proprie risse tra detenuti, con mio fratello più piccolo che mi strappava la latta dalle mani e quello più grande che arrivava per ultimo per prenderci a mazzate entrambi e lasciarci lì, a ricominciare la rissa per il Philadelphia Light.
Alla fine la composizione dei piatti era certi giorni apprezzabile, certi giorni azzardata, certi giorni improbabile. Quando andava bene componevo il trittico tonno, funghetti sott’olio e mozzarella, ma ricordo serate di bottini incerti. È rimasta indimenticata, tra i membri della mia famiglia, la composizione alimentare con cui mi presentai sul divano, per la prima serata di Sanremo edizione 1988. Quella volta avevo finito tardi di studiare ed ero arrivata in cucina a razzia terminata, per cui sul mio piatto di ceramica bianca splendeva il seguente assemblaggio: tre cucchiai di ceci freddi, due fette di ananas sciroppato, tre etti di stracchino e quattro Tarallucci del Mulino Bianco. La visione fu così raccapricciante per tutti che la sera dopo, eccezionalmente, mia madre chiese a mio padre di comprare la pizza. Che, a dirla tutta, non era una soluzione auspicabile, perché mio padre, pover’uomo, era così disabituato al cibo da asporto e così terrorizzato dal consueto: «Ma quanto cibo hai comprato, sei pazzo?» di mia madre quando faceva la spesa in autonomia, che portava sempre cinque fette di pizza per quattro persone. Il risultato era che tutti mangiavamo la prima fetta di pizza infilandocela rovente in bocca, per afferrare per primi l’ultima fetta rimasta nel cartone. Io sono stata salvata due volte dalla manovra di Heimlich praticata da mio padre che ormai sapeva come farmi espellere un intero trancio di pizza dopo sole due botte secche sul costato.
La mia vita di stenti alimentari, comunque, attraversava il suo momento più difficile quando arrivava il giorno del dolce. Mia madre infatti, una volta al mese circa, raccoglieva del pane vecchio avanzato, e messo diligentemente da parte, per fare una torta al cioccolato ribattezzata appunto “Torta di pane”. La dimensione di questa torta era sempre la stessa, perché veniva cotta sempre nella stessa teglia, per cui io ormai avevo imparato che mia madre la tagliava in sei fette, ed essendo noi in quattro (lei era sempre esclusa, ovviamente), solo metà famiglia si sarebbe scofanata due fette anziché una. Io, per arrivare prima degli altri, avevo ideato uno stratagemma infallibile. Mi ero finta interessata alla preparazione e ai tempi di cottura, e quindi ormai sapevo che dal momento in cui la infornava a quello in cui la sfornava trascorrevano sessantacinque minuti secchi, quelli che mia madre impostava sempre sul timer del forno. Quando vedevo che la infornava, io tornavo a studiare ma con la sveglia in tasca, impostata per suonare sessantacinque minuti dopo. Al drrriiiiiin mi precipitavo in cucina e casualmente ero sempre la prima ad aggiudicarsi una fetta fumante.
La tattica funzionò con successo per almeno un paio d’anni finché mio fratello maggiore non capì il mio sistema e da quel momento, quando vedeva mia madre prendere il cesto del pane raffermo, iniziò a piantonare la porta della cucina con la sua spada ninja. Alla fine, la preparazione di quella torta mi generava un tale stato d’ansia e di frustrazione per quel vorace istinto di sopravvivenza che scatenava in noi fratelli, che per dispetto cominciai direttamente a mangiare il pane secco dalla dispensa così che non ce ne fosse mai abbastanza per preparare la torta. O iniziai a sbarazzarmene come potevo.
Talvolta nascondevo mezza baguette nello zaino e poi la abbandonavo sotto la panchina, alla fermata dell’autobus. Oppure lanciavo rosette dal terrazzo, verso il campo di ortiche abbandonato. Il gioco finì quando un bel giorno mio padre tirò l’acqua del water e uno tsunami di piscio lo travolse, allagando il bagno e il corridoio della casa. L’idraulico uscì dopo un’ora dal bagno chiedendo cosa ci facesse una forma di pane casereccio nelle tubature. Nessuno ammise mai la sua colpa e, soprattutto, nessuno tranne me comprese per quale strana ragione quel pane fosse finito nel water di casa. Fatto sta che mia madre smise di accumulare pane secco in casa perché le venne il dubbio irrazionale che dei topi invisibili rubassero il pane raffermo dalla dispensa e provassero a calarlo giù dalle tubature per portarlo nelle fogne per i parenti pigri, e un motivo di conflitto alimentare fu abolito. Non mangiavo più la torta, ma non lasciavo la fetta in più ai miei due fratelli. Naturalmente, crescendo avevo sempre più fame.
Le cose peggiorarono ulteriormente quando mia madre iniziò la fase di militanza radicale. Cioè, era una fervente adoratrice di Pannella da tempi non sospetti e Radio Radicale era sempre stata il sottofondo delle sue giornate da casalinga affannata, ma a un certo punto si convinse che il supporto morale alle sue battaglie non bastava più. Decise che per lei era arrivato il momento di digiunare, quando Marco Pannella digiunava per protestare contro qualcosa. In pratica, per lunghi periodi, tagliava anche il suo pranzo frugale e il biscotto con cui accompagnava il tè serale. Mia madre viveva ormai ufficialmente di ossigeno e di pulviscolo incidentalmente aspirato. Io mi sentivo sempre più una nata nella famiglia sbagliata.
Ricordo che a dodici anni provai a convincerla che avrei potuto partecipare anche io a questa grande, simbolica protesta alimentare, solo che al contrario suo e di Pannella io avrei potuto protestare mangiando tantissimo, fino a implodere, come metafora dell’Occidente pingue ed egoista contrapposto al Terzo Mondo affamato. Non la convinsi. Nel frattempo mia madre era sempre più debole e sempre più disinteressata alla sopravvivenza calorica della sua famiglia, per cui mio padre divenne il re delle frittate e delle “paste fantasia”, così ribattezzate non per gli ingredienti creativi ma perché ritenerle qualcosa di commestibile richiedeva una fantasia da autore di romanzi noir.
Io detestavo veder digiunare mia madre. Mi faceva sentire un’albina nata in una famiglia di africani. Ero una ragazzina a cui piaceva mangiare e non comprendevo il suo slancio ideologico oltre che la sua ferrea, inflessibile capacità di addestrare la fame. Era un’austerità per la quale non ero stata programmata e il paradosso più intollerabile è che mi aveva programmata lei. Parte del mio codice genetico era suo, solo che il cromosoma dell’inappetenza, nel mio DNA, era stato modificato da qualcosa, forse dalla nube di Chernobyl che quell’anno era passata pure sull’Italia e che qualche strascico doveva averlo lasciato.
Finché non mi venne un’idea. Radio Radicale, in quel periodo, intraprese l’esperimento soprannominato “Radio Parolaccia”: fu lasciata a disposizione degli ascoltatori una segreteria telefonica su cui si poteva registrare un messaggio di un minuto con le proprie considerazioni su qualsiasi tema. E poi il contenuto veniva mandato in onda. Come accade oggi sui social network, la gente affidava a quella segreteria messaggi di rabbia e battute da bar, oltre che minacce, dichiarazioni d’amore e di odio, considerazioni sui politici e sui vicini di casa.
Ricordo che una volta io e mia madre udimmo forte e chiaro un ragazzo urlare in quella segreteria: «Volevo dire al maresciallo Lomazzo che oggi era il mio ultimo giorno di leva obbligatoria e che ora per me la sua tromba se la può infilare su per il culo! E forza Juve!». Ci prese un colpo. Il maresciallo Lomazzo era un nostro vicino di casa nonché il maresciallo dei bersaglieri della caserma del nostro quartiere. Aveva la fama di essere piuttosto sadico e di tollerare con perverso godimento atti di nonnismo praticati lì dentro. Qual...