Per quanto possa sembrare strano, la poesia arcaica non ci ha lasciato un testo liturgico che celebri compiutamente la figura di Zeus. L’inno a lui dedicato, nella raccolta degli Inni omerici, è una scarna sequenza di stereotipi che non ci aiuta a capire quale fosse l’immagine del dio nella devozione popolare. Peraltro, i riferimenti al potere di Zeus e al suo ruolo nella storia divina e umana innervano l’intera produzione epica, lirica e tragica, fino a tutto il V secolo almeno. L’immaginario che vi è sotteso si riconduce a due «figure» principali.
La prima corrisponde all’idea che ispirò la colossale statua d’oro e d’avorio scolpita da Fidia per il tempio di Zeus a Olimpia: il dio era rappresentato seduto su un trono, con lo scettro nella mano sinistra e una Vittoria alata nella destra. Questo Zeus è il signore del cielo, il padre degli uomini e degli dèi: è colui che a proprio arbitrio manda il sereno o la pioggia, distribuisce successo o rovina, è il dio che – come dice Esiodo – «abbatte il potente e innalza l’umile, raddrizza lo storto e piega l’altero». Proprio per questa sua centralità cosmica, Zeus è il garante dell’ordine universale, il perno della giustizia, il fondamento del potere legittimo. Nel cosiddetto «Inno a Zeus» contenuto nel primo corale dell’Agamennone, Eschilo ricorda la vittoria di Zeus su Crono, a sua volta vincitore dell’antico Urano; la sequenza delle tre generazioni celesti, secondo la logica del mito, suggella in eterno il potere del terzo e più recente sovrano, il cui regno fonda però anche una nuova e più alta forma di spiritualità: Zeus insegna agli uomini la vera saggezza, che consiste nel riconoscere il valore positivo della sofferenza e nell’affidarsi all’imperscrutabile provvidenza divina.
Proprio perché «il potere viene da Zeus», alla sua discendenza si richiamano la grandi famiglie aristocratiche greche. Si definisce così una seconda immagine del dio, quale impenitente amatore e seduttore, «padre» dell’umanità anche in senso biologico. È questo lo Zeus che, per raggiungere i propri obiettivi, si sottopone alle metamorfosi più diverse, trasformandosi in toro, in cigno, in pioggia dorata; un dio infinitamente meno maestoso del Pantocrátor («onnipotente») ritratto da Fidia, e anzi compromesso con le debolezze degli uomini, ma appunto per questo più vicino alla sensibilità dei fedeli: con questo Zeus si può avere un rapporto più diretto e immediato, lo si può trattare con familiarità e persino con umorismo, secondo quella forma tipica della religiosità greca che a noi moderni sembra vicina alla blasfemia, ma è in realtà espressione di una fede profonda ed elementare.
I quattro testi che seguono cercano di coprire, per quanto possibile, tutti gli aspetti di una personalità tanto complessa. L’Inno a Zeus di Callimaco, pur essendo di età ellenistica, è un testo ufficiale che consapevolmente si rifà alla tradizione arcaica: il poeta ricostruisce la nascita rocambolesca del dio, con i prodigi che la accompagnarono, e la prodigiosa precocità della sua crescita; dovendo poi illustrare le prerogative di Zeus, ne seleziona il ruolo di sovrano celeste e patrono dei sovrani terreni: ciò gli permette nel finale di elogiare Tolomeo, perfetto alunno del dio. Un passo della Teogonia, a ideale integrazione dell’inno, racconta una prodezza di Zeus, la vittoria sul mostruoso Tifone, ottenuta con l’uso sapiente del fulmine. Due passi dell’Iliade, sebbene molto diversi per tonalità, mostrano lo stesso desiderio di «andare dietro» la facciata adamantina, per esplorare la vita familiare e sentimentale del dio. Nel famoso episodio della Diòs apáte («Inganno a Zeus»), Era dimostra di avere capito perfettamente la psicologia del suo augusto sposo: per distrarlo dalla battaglia e poter intervenire liberamente a vantaggio degli amati Greci, si trasforma in seduttrice, ritorcendo contro Zeus quella eccitabilità amorosa di cui il dio stesso sembra gloriarsi. Nell’episodio della morte di Sarpedone, invece, Zeus è il padre dolente che vorrebbe usare il suo smisurato potere per salvare il figliolo, ma capisce di doversi rassegnare al destino: anche in questo caso il dio condivide il limite umano, ma in una prospettiva tragica invece che comica.
1. La nascita di Zeus
Nelle libagioni per Zeus, che altro si potrebbe cantare
di meglio del dio stesso, sempre grande, sempre sovrano,
liberatore dai Pelagoni,1 legislatore dei Celesti?
E come lo canteremo, Ditteo o Liceo?
È in dubbio assai il mio cuore, poiché è disputata la nascita.
Zeus, tu – dicono – sui monti dell’Ida sei nato,
Zeus, tu in Arcadia. Chi dei due, padre, ha mentito?
«I Cretesi mentono sempre»: anche la tomba tua, Signore,
hanno architettato i Cretesi. Ma tu non sei morto: sei eterno.
In terra Parrasia2 ti generò Rea, dove più fitto
il monte era coperto di macchia. Perciò quel luogo
è sacro e, bisognoso di Ilizia,3 nessun animale
né alcuna donna vi accede, ma lo chiamano
gli Apidanei4 antico giaciglio del parto di Rea.
Là, quando la madre dal grembo possente ti ebbe deposto,
subito cercò un flutto d’acqua perché del parto
la sozzura nettasse e lavasse il tuo corpo.
Ma non ancora scorreva il possente Ladone né l’Erim...