La legge del mare
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La legge del mare

  1. 240 pagine
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La legge del mare

Informazioni su questo libro

Per lungo tempo li abbiamo chiamati "angeli del mare". Le Ong impegnate nel Mediterraneo per soccorrere i migranti erano considerate il simbolo della società civile europea pronta all'accoglienza, quella della solidarietà e degli striscioni "Refugees Welcome", che aveva scelto di non abdicare al proprio ruolo dopo il conflitto in Siria e l'esodo legato al fallimento delle primavere arabe. Poi qualcosa è cambiato. Nel 2017, nel giro di pochi mesi, il discorso pubblico è stato deviato: gli angeli sono diventati vicescafisti, le loro navi taxi del mare. Un processo di criminalizzazione segnato da tappe precise: un dossier dell'agenzia europea Frontex, una campagna mediatica, la commissione d'indagine del Senato, poi le accuse (perlopiù archiviate) di alcune procure siciliane, i sequestri delle navi, infine le dichiarazioni dei politici di casa nostra e di esponenti della destra sovranista di tutta Europa. Fino allo stallo dei porti chiusi via Twitter, ai casi della Aquarius e della Diciotti, alla guerra di posizione sulla redistribuzione dei migranti che segna ogni giorno il dibattito politico italiano ed europeo. La legge del mare ripercorre da vicino le fasi di questa evoluzione, partendo da Josefa, la donna camerunense salvata dalla nave Open Arms nel luglio 2018, e dalla strumentalizzazione della foto delle sue unghie smaltate di rosso. Annalisa Camilli, giornalista di "Internazionale" da anni impegnata a seguire le rotte delle migrazioni verso l'Europa, racconta la caduta degli angeli del mare, la loro messa sotto accusa, l'origine della propaganda contro le Ong che contamina l'informazione in Rete e il dibattito pubblico. Lo fa portandoci a bordo delle navi dei soccorritori, spiegandoci chi sono davvero, come operano e in che modo finanziano le loro attività. Un viaggio necessario per capire che la legge del mare ha un unico obiettivo: salvare la vita di chi rischia di sparire tra le onde.

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Informazioni

Quarta parte

Tutte le accuse

Così stanno uccidendo il mare,
così stanno umiliando il mare.
Lucio Dalla, Com’è profondo il mare
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La criminalizzazione delle Ong

Tra qualche tempo forse avremo modo di guardare alla stagione che abbiamo appena attraversato con più strumenti per capire come alcuni concetti verosimili – ma non veri – abbiano riscosso un’adesione tale da diventare dominanti, influenzando l’opinione pubblica mondiale e le scelte dei governi. Una vera e propria débâcle del pensiero scientifico moderno e dei processi intersoggettivi che lo hanno prodotto. Gli psicologi parlano di «bias di conferma» o di «bias cognitivo» per indicare un giudizio non necessariamente corrispondente all’evidenza, costruito partendo dall’interpretazione di informazioni prive di connessione logica o semantica. L’errore di valutazione è il risultato di processi simili. Un esempio di questo meccanismo è la fortuna riscossa dall’espressione «taxi del mare», una formula suggestiva, ma falsa; verosimile, ma non verificata, che però si è imposta nel dibattito pubblico e ha finito per essere egemone.
Definire «taxi del mare» le navi dei soccorritori, far calare un velo di sospetto su chi si occupa dei più svantaggiati, sospettare dei «buoni», rompere con la cultura dei diritti e del pluralismo si è rivelato molto efficace dal punto di vista comunicativo. Un’azione che risponde all’esigenza psicologica di mettere in discussione l’atteggiamento politically correct comunemente attribuito alle élite delle democrazie liberali, consentendo agli individui di non sentirsi inadeguati in un’epoca, la nostra, profondamente segnata dall’ansia da prestazione, amplificata dai social network. È un atteggiamento che risponde alla paura del futuro e allo spaesamento di fronte alla crisi dei sistemi economici e politici tradizionali con la chiusura e la costruzione del nemico – a cui si attribuisce la responsabilità di un mondo che traballa, sempre più diseguale e schiacciato dagli effetti sociali della crisi economica del 2008. L’esito, non limitato al nostro Paese, come vedremo, è quella che molti hanno definito «società del rancore».1
Il caso della criminalizzazione delle Ong è esemplare per più di un motivo, e ho l’impressione che si tratti di un processo che riguarda anche altri settori della vita pubblica. Penso per esempio al fenomeno dei No-Vax e alla loro battaglia contro i vaccini obbligatori, o alla polemica sempre presente contro la cosiddetta «ideologia gender» nelle scuole, che di fatto è un attacco ai diritti Lgbt.2 Per questo, dopo aver raccontato le storie delle persone che hanno subìto gli effetti delle nuove politiche dell’immigrazione, credo sia doveroso ripercorrere anche la storia delle accuse lanciate a più riprese contro le Ong, scandire a ritroso il percorso che ha portato alla loro criminalizzazione, approfondendo alcuni aspetti su cui si è concentrata la propaganda: dove nasce l’accusa di pull factor? Quanto hanno influito i dossier prodotti dai think tank della destra sovranista? Che ruolo hanno avuto attori istituzionali come le procure? E, infine, qual è il quadro internazionale nel quale si è diffuso questo tipo di accuse?
Ricostruire la genesi di questo processo nei termini di uno scontro delle idee, inserendolo in un quadro sia storico sia politico, aiuta a comprendere la portata di una vicenda tutt’altro che marginale per i destini dell’Europa, e può aiutarci a cogliere la direzione intrapresa dal nostro e da altri Paesi. Non è un caso, a mio giudizio, che i due partiti che hanno usato la formula «taxi del mare» nella primavera del 2017 e hanno aderito alla crociata contro le Ong operative nel Mediterraneo si siano avvicinati nell’alleanza di governo sorta dopo le elezioni del 4 marzo.
Nel febbraio 2019, la campagna contro le Ong è entrata in Parlamento: Igor Lezzi, deputato della Lega, presentando il rapporto del centro studi Machiavelli3 nella sala stampa della Camera dei deputati ha fatto un esplicito riferimento alle leggi in vigore in Ungheria, che a loro volta si ispirano a quelle promosse in Russia da Vladimir Putin. Si tratta dell’ultimo tassello, tutto sommato scontato, di un processo che ha di fatto ridotto lo spazio d’intervento umanitario e ha preso di mira chi difende i diritti umani e, in ultima analisi, la stessa cultura dei diritti.
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Una lunga campagna

Come è stato possibile che i «buoni» diventassero i «cattivi» nell’arco di pochi mesi? Come è potuto succedere che quelli che sino a quel momento erano stati rappresentati come gli angeli del mare impegnati a salvare da morte certa i naufraghi fossero accusati all’improvviso di essere dei criminali? E come è accaduto, infine, che la nostra società, da sempre favorevole all’accoglienza degli stranieri, si trasformasse nel giro di poco tempo in una delle più ostili in Europa all’arrivo dei migranti?
Il passaggio è stato tutt’altro che repentino, e nelle sezioni precedenti abbiamo cercato di segnalarne alcune tappe. Il processo è durato nel complesso un paio di anni ed è stato determinato da una convergenza di diversi interessi: le priorità dell’agenzia europea Frontex, le politiche dei governi nazionali, la propaganda dei gruppi dell’estrema destra, i sospetti e il protagonismo di alcune procure, la debolezza del sistema dell’informazione. Queste confluenze sono diventate una valanga, hanno trascinato via la credibilità di tutte le organizzazioni che si occupavano di immigrazione, non solo di quelle che operavano in mare.
In primo luogo l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, a partire dall’inizio del 2016, ha deciso che fosse una priorità chiudere nel minor tempo possibile le principali rotte di ingresso in Europa. Frontex voleva che si tornasse alla situazione precedente al 2011, quando gli sconvolgimenti prodotti dalle cosiddette primavere arabe hanno aperto uno spazio di movimento per migliaia di persone. Dagli anni Novanta, infatti, gli Stati europei avevano puntato sulla «esternalizzazione delle frontiere» pagando governi extraeuropei per blindare le frontiere dell’Unione. Allo scopo di riportare la situazione a quello stato di cose, nel marzo 2016 l’Unione Europea aveva, per esempio, concluso un accordo con la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, accettando di versare 6 miliardi di euro per fermare l’arrivo dei migranti sulle coste greche e poi lungo la rotta balcanica. L’accordo era stato sostenuto soprattutto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo che la Germania in un solo anno aveva accolto un milione di profughi.
Nello stesso anno, dopo la crisi dei rifugiati del 2015, le istituzioni europee si erano concentrate sull’obiettivo di ridurre i flussi, chiudere le rotte e concepire dei dispositivi di emergenza intraeuropei per affrontare eventuali nuove crisi. Dal punto di vista politico il biennio 2017-2018 ha presentato una serie di scadenze elettorali in tutta Europa, e i partiti storici hanno temuto che i populisti e l’estrema destra approfittassero della crisi migratoria, usando il linguaggio dell’invasione come testa di ariete per guadagnare credibilità e conquistare un’opinione pubblica sempre più disillusa rispetto al sistema politico tradizionale, a cui viene attribuita la responsabilità di non aver saputo governare e attenuare gli effetti sociali della crisi economica mondiale.
In Italia, l’esecutivo di Paolo Gentiloni, nato dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, una vera e propria disfatta per il Partito democratico guidato da Matteo Renzi, assume la questione migratoria come prioritaria. Con le elezioni politiche previste per marzo 2018, Gentiloni e il suo ministro dell’Interno Marco Minniti promettono di ridurre gli arrivi sulle coste italiane. Minniti ha più volte raccontato che nel giugno 2017, mentre era in viaggio verso Washington, ha chiesto di tornare in Italia perché informato di consistenti sbarchi sulle nostre coste: negli ultimi giorni erano arrivati addirittura 10.000 migranti. Ha poi specificato di avere temuto per la «tenuta democratica del Paese». In realtà il governo aveva firmato già nel febbraio di quell’anno un Memorandum d’intesa con Tripoli per fermare «l’immigrazione illegale»,4 che prevedeva che l’Italia finanziasse, equipaggiasse e addestrasse la guardia costiera libica. Il ministro articola in tre tappe il suo piano: il cosiddetto piano Minniti. La prima tappa è la firma del Memorandum d’intesa con il governo di unità nazionale libico, il secondo è l’approvazione dei decreti Minniti-Orlando sull’immigrazione, e infine il codice di condotta per le Ong, che di fatto allontana le organizzazioni non governative dalla zona dei soccorsi.
Una delle critiche rivolte dalla destra al governo Renzi, e prima ancora all’esecutivo di Enrico Letta, era quella di aver adottato delle politiche migratorie troppo permissive e di essere stati poco aggressivi con l’Europa restia a riformare il regolamento di Dublino, che impone allo Stato di primo ingresso di prendere in carico le richieste di asilo. Questi elementi rimarranno centrali nella propaganda della campagna elettorale per le elezioni politiche della primavera del 2018.
Alla vigilia del voto, i gruppi dell’estrema destra extraparlamentare e i think tank legati all’area sovranista puntano su un’imponente propaganda anti-immigrazione per indebolire i governi e i partiti socialdemocratici e liberali. Usano soprattutto i social network come strumento privilegiato per la diffusione delle loro idee, che sono spesso infarcite di notizie false e di teorie cospirazioniste. Sono, infatti, mezzi poco presidiati dagli organi di garanzia e hanno potenzialità enormi in termini di audience.
Infine, in Italia alcuni settori della magistratura guardano con diffidenza all’attività delle Ong, che a partire dal 2015 hanno reso più difficili le indagini sul traffico di esseri umani, perché non consentivano alla polizia giudiziaria di salire a bordo delle navi, mentre nell’operazione Mare nostrum (2013-2014) questa collaborazione tra procure e soccorritori era favorita.
Le Ong che compiono soccorsi in mare sono un obiettivo polemico per diversi soggetti istituzionali e diventano così un facile bersaglio anche per attori meno istituzionali, che hanno campo libero. In tutta Europa nel 2015, anno di maggior afflusso dalla rotta balcanica, sono nate reti di associazioni, di volontari, di semplici cittadini che, seguendo lo slogan «Refugees Welcome», si sono date da fare per offrire ospitalità ai profughi, soprattutto in situazioni in cui lo Stato sembrava carente.
Le organizzazioni non governative sono state capofila in questo tipo di interventi, soprattutto ai valichi di frontiera, dove si concentravano più persone in transito, come a Ventimiglia, a Como, a Udine o al Brennero (in Italia), oppure lungo la rotta balcanica, o a Idomeni (in Grecia) o a Calais (in Francia). Ma dalla fine del 2015 molte esperienze di accoglienza spontanea sono andate esaurendosi, anche per un certo atteggiamento ostile da parte degli Stati che hanno cominciato ad accusare i cittadini solidali e le diverse organizzazioni di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Una delle accuse più diffuse è quella che i volontari con la loro presenza favoriscano l’arrivo dei migranti con un «effetto chiamata».
In molti territori, penso per esempio a Ventimiglia, le amministrazioni hanno cominciato a vietare la distribuzione dei pasti o delle coperte, addebitando ai volontari il degrado e la presenza di persone accampate in strada. La stessa accusa è stata rivolta su scala molto più estesa alle organizzazioni non governative che soccorrono i migranti nel Mediterraneo.
I mezzi d’informazione tradizionali hanno sempre avuto un ruolo fondamentale in questa campagna: spesso le dichiarazioni dei parlamentari e dei leader di partito sono state riprese dai giornali in maniera acritica, senza verifica e senza contraddittorio.
Su una questione complessa come quella migratoria, la confusione è grande: gli esperti non sono mai chiamati a intervenire nelle discussioni televisive e sulla stampa, ma sono sempre i politici, o al massimo gli stessi giornalisti, a definire il perimetro del dibattito. Secondo il rapporto Notizie da paura compilato ogni anno dall’associazione Carta di Roma,5 nel 2017 sui giornali italiani sono state 1087 le notizie in prima pagina dedicate all’immigrazione, la loro visibilità è aumentata del 26 per cento rispetto al 2016, e il 44 per cento ha riguardato gli sbarchi, la rotta del Mediterraneo e le Ong. Preoccupanti anche i toni: l’allarmismo nei titoli e negli articoli è passato dal 27 per cento del 2016 al 43 per cento del 2017, se ci limitiamo a considerare la carta stampata.
La narrazione tossica sull’immigrazione è stata caratterizzata da alcuni elementi ricorrenti: la diffusione di notizie false anche attraverso i mezzi d’informazione mainstream, l’etnicizzazione dei reati, la sovrapposizione del tema dell’immigrazione con quello del terrorismo, la criminalizzazione di chi aiuta i migranti. In questo contesto, nel giro di due anni alcune accuse contro le Ong sollevate da dirigenti di Frontex sono state in parte accolte da alcune procure siciliane come quella di Catania e Trapani, che hanno aperto dei fascicoli d’indagine sull’operato di queste organizzazioni, mentre quasi in contemporanea l’estrema destra europea, attraverso i propri canali soprattutto online, ha cominciato un’intensa campagna di discredito. È stata poi la volta dei politici e dei parlamentari, che hanno cavalcato la battaglia contro le Ong per costruire il proprio consenso.
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Il pull factor e le accuse di Frontex

Una delle accuse che ha fatto più presa sull’opinione pubblica è quella che le Ong siano un fattore di attrazione, un pull factor, cioè che abbiano «un effetto chiamata» o «calamita» rispetto alle partenze dei migranti dalla Libia. Secondo questa linea, la loro semplice presenza nelle acque internazionali a partire dalle 12 miglia dalle coste libiche incentiverebbe la partenza delle imbarcazioni. A questa accusa se ne aggiunge un’altra, ripetuta spesso anche dal ministro Salvini, ovvero che l’attività delle navi di soccorso abbia influenzato il traffico di esseri umani al punto da aver inciso sul numero dei morti. «Più navi delle Ong, più partenze, più morti», questa è l’equazione.
A sollevare per prima in ordine di tempo l’addebito del pull factor è stata, come abbiamo visto, Frontex. In un rapporto riservato pubblicato dal «Financial Times» il 15 dicembre 2016, l’agenzia denunciava «l’effetto chiamata» e ipotizzava presunti legami tra i trafficanti di esseri umani e le imbarcazioni delle Ong.
Le ipotesi del «Financial Times» venivano rafforzate da alcune dichiarazioni del direttore della stessa agenzia, Fabrice Leggeri, che qualche mese dopo la pubblicazione dell’articolo, il 27 febbraio 2017, in un’intervista a «Die Welt» accusava le Ong di essere un fattore di attrazione per i migranti in fuga dalla Libia: «Dobbiamo evitare di sostenere il business dei trafficanti andando a prendere i migranti davanti alle coste libiche».
I sospetti di Frontex sono stati poi accolti dalla procura di Catania – città in cui si trova una sede dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere – che a sua volta ha aperto «un’indagine conoscitiva» – senza indagati né capi di accusa – sull’origine dei finanziamenti che permettono alle Ong di sostenere le loro attività di ricerca e soccorso in mare. Il procuratore generale di Catania, Carmelo Zuccaro, ha cominciato a parlare di presunti contatti con i trafficanti e la notizia dell’indagine è stata ripresa da diversi media italiani, che hanno fatto da megafono, amplificandone la portata e dandole un valore politico. Ricordo per esempio l’articolo di Alessandra Ziniti e Francesco Viviano su «Repubblica», Contatti con scafisti, indagini sulle Ong, che riporta le parole del magistrato: «Vogliamo capire chi c’è dietro tutte queste associazioni umanitarie che sono proliferate negli ultimi anni, da dove vengono tutti questi soldi che hanno a disposizione e soprattutto che gioco fanno». All’accusa di essere un fattore di attrazione si aggiungeva quella di avere contatti con i trafficanti e di beneficiare di finanziamenti opachi.
Ma facciamo un passo indietro: il momento chiave è il secondo semestre del 2016. In quella fase tutte le Ong sono in mare con quattordici navi e compiono un terzo dei salvataggi che avvengono nel Mediterraneo. Alla fine del 2016 i migranti accolti saranno 178.000, di cui 46.796 salvati dalle Ong. Le autorità europee, in particolare Frontex, non sembrano entusiaste dell’attività di questi mezzi. Qualcosa è cambiato nell’opinione pubblica, le elezioni sono alle porte in quasi tutti i Paesi europei e i partiti della destra, insieme ai populisti, hanno cominciato a usare l’immigrazione come tema centrale nella campagna elettorale. La retorica dell’invasione, anche se è smentita dai dati, è sostenuta dalle immagini degli sbarchi. I governi europei sono spaventati dalle possibili conseguenze di questo crescente consenso dei partiti xenofobi e, dopo aver chiuso la rotta balcanica nel ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. Una frontiera d’acqua
  4. Prima parte. 2018. Josefa
  5. Seconda parte. 2017. Mar West
  6. Terza parte. 2019. Sequestro di persona
  7. Quarta parte. Tutte le accuse
  8. Conclusioni. La posta in gioco: i diritti di tutti
  9. Ringraziamenti
  10. Note
  11. Bibliografia consigliata
  12. Copyright