
eBook - ePub
Sergio Marchionne. Il coraggio di cambiare
Tre lezioni sulla leadership e la crescita
- 126 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro
«In questo libro Marchionne parla di cambiamento, di futuro, di speranza, di leadership conclamata e di leadership potenziale, ma non risparmia passaggi critici, lontani dal conformismo e dal "politicamente corretto".» (Dalla prefazione di Mario Monti). «Quando si è in grado - come leader - di disegnare un ideale, di dare responsabilità alle persone, convincerle che il destino è totalmente nelle loro mani e guidarle lungo questo percorso, si può raggiungere qualunque obiettivo, e forse anche superarlo.»
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Informazioni
Oltre gli orizzonti conosciuti
Milano, aula magna dell’Università Bocconi, workshop Unthinkables, 30 marzo 2012
Magnifico Rettore,
signore e signori,
buongiorno a tutti.
Vorrei prima di tutto ringraziare il professor Grando e il dottor Guindani per avermi invitato alla vostra conferenza annuale.
Venendo qua, stamattina, un collaboratore mi ha detto che questo è un palco prestigioso e anche molto particolare. Credo che in realtà volesse mettermi in guardia su quello che avrei detto.
L’anno scorso, qualcuno, scherzando con la platea, si lamentò di essere entrato alla Bocconi come matricola nel ’61 e di non essere più riuscito a uscirne. Cinque mesi dopo si è ritrovato a fare il presidente del Consiglio. Scherzi a parte, al presidente Monti vanno i miei migliori auguri di buon lavoro. Ho avuto modo di incontrarlo quindici giorni fa, a Roma, e gli siamo tutti molto riconoscenti per quello che sta facendo per il Paese.
Mi fa molto piacere esser qui oggi, non solo per il lungo e forte rapporto tra la Fiat e l’Università Bocconi, ma anche perché questo mi offre l’opportunità di condividere con voi alcune riflessioni sul momento storico che stiamo vivendo e su come le imprese possono e devono attrezzarsi per crescere e superare i confini – e non solo quelli geografici.
La crisi sociale in atto in tante parti del mondo, il clima di tensioni in Europa, le proteste che dilagano e il tasso di disoccupazione che galoppa sarebbero elementi sufficienti per dare ragione a chi parla di «età dell’indignazione» e per disegnare una visione pessimistica del futuro.
Ma, anche se non sottovaluto la gravità della crisi che stiamo attraversando in Europa, non sono venuto qui a parlarvi di problemi né a tratteggiare un domani cupo e incerto. Si dice che gli esseri umani possono vivere quaranta giorni senza cibo, quattro giorni senza acqua e quattro minuti senza aria. Ma nessuno di noi può vivere quattro secondi senza speranza.
Oggi sono qui a parlarvi di speranza. Il motivo è perché credo che il futuro non sia solo un compito dei governi. È una responsabilità individuale e collettiva. Tutti noi, nel nostro ruolo di leader d’impresa, se abbiamo la forza di immaginare un futuro di crescita per le nostre aziende o per i nostri Paesi, abbiamo anche la responsabilità di rendere questa visione reale.
Lasciatemi dire, però, che parlare dell’importanza della crescita a voi, che ogni giorno – come me – vi confrontate con le sfide del mercato, e farlo proprio qui in Bocconi, una delle più prestigiose università nel preparare i leader del futuro, non mi rende le cose facili. Mi fa sentire in qualche modo come si sentì l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, Al Gore, quando fu invitato a parlare durante una cena a Washington in coda a una lista di ventidue oratori, e aprì il suo intervento dicendo: «I feel like Zsa-Zsa Gabor’s fifth husband. I think I know what I am supposed to do. I just do not know if I can make it interesting» («Mi sento come il quinto marito di Zsa-Zsa Gabor. Penso di sapere cosa dovrei fare. È che non so se riesco a renderlo interessante»).
Quello che posso fare per contribuire ai vostri lavori è portarvi la mia esperienza, il punto di vista di chi è coinvolto nella gestione di due grandi gruppi industriali – Fiat Chrysler e Fiat Industrial – che occupano più di 260.000 persone nel mondo e che, specialmente negli ultimi anni, sono stati costretti a inventarsi più volte, per non rimanere relegati ai margini del mercato.
Il tema di oggi – «Growth Across Boundaries» («Crescita oltre i confini») – implica due ordini di riflessioni. La prima riguarda la necessità che la nuova fase della nostra storia economica ci impone, quella di andare a cercare i fatturati fuori dall’uscio di casa, oltre confine e sempre più lontano. Perché è sui nuovi mercati che si gioca la sfida decisiva.
La seconda riflessione ha invece a che fare con il modo di intendere l’espansione internazionale, con le scelte su dove creare nuove attività ed eventualmente spostare quelle esistenti. Questo è un tema molto delicato, perché chiama in causa la responsabilità che le imprese hanno – le multinazionali in testa – nei confronti dei loro Paesi d’origine.
Agire, pensare, essere globali oggi è qualcosa cui non si può sfuggire. Come disse l’ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan: «Mettere in discussione la globalizzazione è come mettere in discussione la legge di gravità».
Possiamo scegliere di resistere all’inevitabile, e ritrovarci due passi indietro rispetto agli altri, oppure abbracciare la sfida e tenere il passo con il resto del mondo. Il momento di farlo è adesso e le opportunità sono enormi. Continuare a fare affidamento sui consumi interni per rilanciare un’economia in difficoltà è una pura follia.
Un modello che si basa sull’idea che i consumi saranno sempre superiori al livello della produzione è del tutto insostenibile. Anche le imprese devono prepararsi al cambiamento e sviluppare una precisa politica di investimenti per sostenere la crescita internazionale. Non sto dicendo che sia facile.
Fare business a livello globale è uno sport di contatto. Quando arrivi sul campo da gioco, trovi concorrenti che stanno già vendendo quel tipo di prodotto ai tuoi potenziali clienti, altri che stanno già offrendo quel tipo di servizio. Ma tutte le imprese, non solo quelle di grandi dimensioni, devono trovare il coraggio di andare oltre i confini di casa, se non vogliono restare fuori dalla partita.
La ricerca di nuovi mercati, soprattutto in un business come quello dell’auto in Europa, non è più solo una strategia per aumentare i ricavi, come poteva essere un tempo. È diventata un imperativo di sopravvivenza.
Il nostro settore soffre da anni di una sovraccapacità produttiva cronica, che in Europa pesa in modo soffocante, nell’ordine del 20 per cento. Fino a quando i mercati mondiali erano in fase espansiva e la domanda europea di auto si manteneva stabile su livelli alti, abbiamo ignorato e rimandato il problema. Ma dopo la crisi del 2008, gli effetti di questo handicap strutturale della nostra industria sono andati ben oltre la soglia del gestibile. Si tratta di un problema destinato a permanere anche quando la domanda sarà tornata ai livelli pre-crisi.
Le alternative a una situazione del genere non sono molte. O si razionalizza la rete di produzione oppure si cercano nuove opportunità. Tutti sappiamo come è andata a finire nel primo caso. Non un solo grammo di capacità produttiva è stato eliminato dal sistema europeo. La situazione avrebbe richiesto un intervento di sistema, a livello politico e su base comunitaria, come è successo ad esempio per l’industria dell’acciaio negli anni Novanta. Noi – come Fiat – lo abbiamo sollecitato più di una volta, ma nessuno si è mai mosso in questo senso, né i singoli Paesi né la Comunità Europea. Anzi, molto spesso le decisioni prese in modo unilaterale dagli Stati nazionali, invece di facilitare un processo di consolidamento del settore, lo hanno fortemente ostacolato.
La mancanza di una strategia di intervento comune e l’immobilismo dell’Europa hanno costretto la Fiat a trovare una soluzione autonoma. La nostra è stata quella di andare a cercare altrove chi potesse assorbire, perlomeno in parte, il nostro eccesso di capacità installata, in modo da usare la nostra base produttiva per le esportazioni.
L’alleanza con Chrysler è esattamente quell’«Unthinkable» («l’impensabile») che ha dato speranza e futuro alla Fiat. A parte l’entusiasmo iniziale con cui è stato salutato l’annuncio del presidente Obama di affidarci Chrysler, erano in pochi a credere che unire un’azienda quasi morta a un’altra che iniziava a non sentirsi molto bene avrebbe potuto funzionare.
Ricordo lo sguardo scettico degli analisti e della stampa internazionale – e anche di alcuni colleghi – quando abbiamo presentato il piano di rilancio della Chrysler a novembre del 2009.
Ma i risultati sono arrivati. Nel 2011 abbiamo centrato, quando non superato, tutti i target che ci eravamo posti. Abbiamo venduto oltre quattro milioni di veicoli, diventando il settimo costruttore mondiale. E l’apporto di Chrysler, sebbene consolidata per soli sette mesi, è stato determinante.
Questa alleanza ci ha offerto un’opportunità unica e probabilmente irripetibile per tornare a giocare da leader del settore. Per comprenderla fino in fondo, occorre considerare i due fattori chiave che governano la nostra industria oggi. Primo, il fatto di essere un settore ad alto impiego di capitale. Sviluppare una nuova vettura significa fare una scommessa da quasi un miliardo di euro. Questo vuol dire che non ci è permesso fallire. Ogni singola decisione sull’architettura, sullo stile, sui componenti, sui motori deve essere presa con estrema cura, perché il margine di errore è ridotto al minimo. E secondo, il fatto che questo business è molto sensibile alla leva operativa. C’è un punto in cui si inizia a perdere denaro, e si tratta di perdite copiose. È molto facile fare ampi profitti quando la leva operativa è alta. È relativamente facile perdere grandi quantità di denaro se il break-even si trova al punto sbagliato della curva. Per questo abbiamo bisogno di raggiungere grandi economie di scala, che ci permettano di continuare a investire nello sviluppo delle architetture e dei prodotti.
Né Fiat né Chrysler ce l’avrebbero fatta da sole nel lungo termine. La Fiat era troppo piccola, troppo legata alle vetture dei segmenti bassi e troppo dipendente dal mercato europeo per avere qualche possibilità di sopravvivere. E Chrysler, come il resto dell’industria dell’auto americana, si trovava devastata dallo tsunami finanziario e da una leadership che aveva mal gestito la necessità del cambiamento.
Insieme possiamo ampliare le rispettive gamme di prodotto e sfruttare nel modo migliore la capacità installata. Possiamo spronare la nostra rete produttiva italiana ad adeguarsi agli standard necessari a competere a livello internazionale e a produrre per mercati esigenti, come quelli nordamericani. Grazie all’alleanza con Chrysler, la Fiat europea ha la grande occasione di rientrare in un disegno globale, beneficiando della possibilità di esportare in mercati extraeuropei e condividendo il costo di sviluppo di architetture che avranno un’applicazione parallela in America.
Tutto ciò ha avuto un impatto enorme sulle nostre due aziende, anche a livello culturale. Le ha spinte ad aprirsi e a confrontarsi; ha creato un clima di fermento e di stimoli continui; ha generato occasioni di crescita professionale e personale come mai prima nella loro storia.
Mentirei se vi dicessi che tutto ciò non ha avuto impatto anche su di me. La mia agenda e la mia vita sono state completamente stravolte negli ultimi tre anni. C’è una ragione precisa, però, per cui ho deciso di mantenere la carica di amministratore delegato di entrambe le aziende e lasciar perdere diverse ore di sonno. Ed è perché credo che, per il successo dell’integrazione, sia assolutamente necessario garantire il più stretto link possibile tra Fiat e Chrysler. È l’unico modo per evitare che le barriere geografiche che abbiamo abbattuto con la partnership non si trasformino in barriere culturali, per gelosia o per nazionalismo.
La storia dell’auto ci ha lasciato alcuni esempi di alleanze che sono fallite perché non c’era una reale volontà di condividere competenze ed esperienze, perché si è generato un clima di diffidenza e disparità tra i due partner, preoccupati più di difendere ognuno le proprie tecnologie che non di guardare a un futuro in comune.
Quando uno pretende di dettare legge e l’altro è considerato solo un grande supermercato da saccheggiare, l’alleanza non può funzionare. Qualsiasi tentativo di dominare la cultura di un’altra organizzazione soffoca la creatività. È un esperimento che non porta a nulla e non fa bene a nessuno.
Per questo Fiat e Chrysler devono vivere e crescere insieme, come un’unica famiglia. Devono sentirsi libere e stimolate nel mettere in comune le cose che sanno, con la coscienza che è l’unica via per impararne di nuove.
Quello che esiste oggi è uno straordinario gruppo di persone che lavorano fianco a fianco con umiltà, che si ascoltano e si confrontano, che si scambiano conoscenze e idee, che stanno aprendo i loro orizzonti al mondo.
Sono due culture che si uniscono.
E questa è anche la migliore garanzia del nostro successo.
L’altra riflessione alla quale accennavo all’inizio ha a che fare con il modo in cui un business come quello dell’auto dovrebbe intendere la propria missione industriale.
Fare automobili e gestire un’industria complessa come questa non è solo questione di conti e di efficienza. Il successo economico e finanziario può reggere la prova della coscienza e la sfida del futuro solo se è radicato in una sana etica di business.
Il settore dell’auto è una delle più importanti fonti di reddito e di occupazione in tutti i Paesi avanzati, apporta un contributo fondamentale al Pil e al benessere sociale delle popolazioni. Tenere a mente questo aspetto significa, in primo luogo, sentire la responsabilità, anche morale, delle scelte che si fanno. Significa...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Prefazione
- Oltre gli orizzonti conosciuti
- Fare la differenza
- L’eredità di un leader
- Postfazione. Di cosa è fatto un leader
- Copyright