Casamonica, la storia segreta
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Casamonica, la storia segreta

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Casamonica, la storia segreta

Informazioni su questo libro

Sono saliti all'onore delle cronache nel 2015, con il funerale stile "Padrino" del capostipite Vittorio, e poi nel 2018, con il blitz delle forze dell'ordine nella loro roccaforte di Porta Furba e quando le loro opulente ville abusive sono state demolite dallo Stato, sotto i riflettori dei media e della politica. Ma i Casamonica vivevano e operavano a Roma dalla metà degli anni Sessanta, nascosti in piena vista, affermando il loro potere, a uno a uno, sui quartieri sud-orientali della città: Porta Furba, appunto, e poi Vermicino, Tor Vergata, Cinecittà, Quadraro, Tor Bella Monaca fino al confine dell'autostrada per Napoli. Dalla cronista che meglio di tutti ha indagato sulla "Famiglia" venendo minacciata, la prima inchiesta sulla storia criminale del momento, che coincide in modo inquietante con la storia di Roma degli ultimi trent'anni. Il testo racconta le sue gesta, le violenze, il folklore e le dinamiche criminali utilizzando gli atti giudiziari - ricchissimi di intercettazioni - e la testimonianza diretta dell'autrice, che ha vissuto infiltrata nel loro territorio ed è riuscita a entrare nella loro "reggia" di Porta Furba, per conoscerli di persona nel cuore della famiglia. Un documento giornalistico straordinario e di estrema attualità, uno squarcio sulla realtà nascosta delle periferie della capitale.

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Informazioni

1.

Porta Furba

Il vertice
Il chiarore intriso d’afa estiva filtra tra i palazzi e si confonde con le luci intermittenti dei lampeggianti. «Vasta operazione dei carabinieri a Roma. Duecentocinquanta uomini impegnati nell’esecuzione di una misura cautelare nei confronti di esponenti del clan Casamonica a Porta Furba» ripete una voce alla radio. L’hanno chiamata “operazione Gramigna”, come l’erba cattiva difficile da estirpare. È l’alba del 17 luglio 2018 e quella data resterà scritta su decine di verbali di arresto segnando un punto di non ritorno. Mi precipito in quel lembo di strada, a pochi chilometri dalla basilica di San Giovanni. Un elicottero staziona sulla verticale del vicolo. Su quei pochi metri diventati il cuore del sistema Casamonica.
C’erano state altre retate in passato, tutte spettacolari. Tutte finite sostanzialmente nel nulla. Ma questa volta è diverso. La capitale non è più una città aperta per i clan. Poco alla volta la procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone ha fatto pulizia sul territorio. Polizia, carabinieri, finanzieri hanno rastrellato una dietro l’altra le mafie locali e importate, imponendo un riscatto di legalità che non si era mai visto. Pignatone ha travasato negli uffici giudiziari romani l’esperienza di Palermo e Reggio Calabria, infondendo una visione nuova nella lotta alle mafie. Ha impostato una grande partita a scacchi, lunga sette anni: ogni mossa dei pubblici ministeri ha sbaragliato una pedina, smontando pezzo per pezzo il sistema di malaffare che avvinghia la metropoli. Adesso tocca agli ultimi padroni della periferia, quella Famiglia che tutti con disprezzo chiamano “zingari”. Una dinastia criminale cresciuta insieme alla capitale, che si è ramificata con l’espandersi dei quartieri e con lo sgretolarsi della società civile. «I romani non ci vanno a fare la guerra ai Casamonica» ha sentenziato un uomo vicino alla ’ndrangheta «perché sanno che vanno in perdita, che quelli comunque o sparano o vengono in venti, in cinquanta.» Una leggenda costruita sui traffici e sulla paura, che per anni ha spinto tutti a chinare la testa.
Quel 17 luglio 2018 gli ingressi lungo via Tuscolana e via di Porta Furba sono sbarrati da due furgoni. Un militare, arma lunga in pugno e mimetica blu scura, è fermo accanto allo spigolo destro del mezzo. Sembra esserci un varco, ma scuote la testa al mio primo passo. Le perquisizioni sono ancora in corso. Ho raccontato tante volte cosa capita dietro quei muri, al di là di quei cancelli, ma oggi è diverso. Oggi è arrivato lo Stato.
Molti abitanti del quartiere sono in strada, stupiti da tanto clamore. Come ho fatto tante altre volte vado alla ricerca di qualche confidenza, di qualche dettaglio che aiuti a capire. Nel mio lavoro da cronista non mi sono mai accontentata dei comunicati ufficiali. So che quella chiusa negli atti delle procure è solo una parte della realtà, l’analisi della devianza necessaria al processo penale. Limitarsi a quella lettura sarebbe come giudicare una persona dalle sue malattie, ignorando tutto il resto. Invece bisogna sforzarsi di entrare nella vita, raccogliendo qualunque voce. E cercando di conquistare la fiducia di chi è parte di quei mondi. «Addirittura i cani si sono portati le guardie» bisbiglia un operaio quella mattina. Lo avevo già incontrato qualche mese prima e, come molti altri, aveva puntualizzato: «Qui “loro” non danno fastidio a nessuno. Qui la mafia non c’è». Oggi è meno disponibile, e prima di salire sul motorino si limita a dire: «Inutile scriverlo sui giornali». I due furgoni di guardia, messi in movimento come due porte scorrevoli, fanno sfilare dal vicolo un corteo di auto con le sirene e solo dopo ore anche l’ultimo carabiniere si allontana. Tutto finito? Lo Stato è riuscito a imporre la legge e riconquistare questo pezzo di Roma?
È arrivata una troupe del Tg2. Con Piergiorgio Giacovazzo, Alessandro Balsamino e Matteo Cecoro entriamo dal lato di via Tuscolana, ma non percorriamo nemmeno dieci metri. Un gruppo di donne e ragazzini si fa incontro a passo veloce. Sembra una formazione di calcio che esce di corsa dagli spogliatoi per raggiungere il terreno di gioco. Il loro centro campo siamo noi. Da dietro le gonne lunghe spuntano bastoni e manici di scopa. Alessandro protegge la sua telecamera, mentre gli si avventano contro. Una difesa inutile perché riescono a danneggiare l’apparecchio. I bastoni cominciano a roteare vicino alle nostre teste con movimenti circolari. Ce li lanciano addosso. Cerco riparo nel muro di cinta di una delle ville, tento di coprirmi la testa con il braccio. Rimanere fermi non è conveniente. Non voglio scappare, ma solo allontanarmi: sono venuta qui proprio per vedere. Le grida si fanno assordanti: «Dovete uscire da qua, pezzi di merda!». Unite in manipolo, le donne si scagliano contro noi giornalisti, ma solo quando i carabinieri si sono allontanati. Solo a quel punto tornano al ruolo che la Famiglia gli ha assegnato. Difendono il territorio e mostrano di avere i muscoli, pronte a reazioni violente in una via pubblica della capitale, scortate dai loro figli a cui hanno insegnato a urlare contro “gli infami” che «noi siamo tutti innocenti». La loro non è semplice ira, ma una dimostrazione di forza. Stanno lanciando un segnale a tutta la città: “La retata non ci ha piegato”.
È qui, all’ombra delle arcate imperiali inghiottite dai cancelli sormontati da leoni, che la Famiglia Casamonica ha eretto il mausoleo del potere. È qui che Roma ha visto nascere e spegnersi i sogni di riscossa della sua periferia. A Porta Furba le volte dell’antico acquedotto Felice sono servite nel dopoguerra per arrangiare le baracche degli sfollati: prima i superstiti dei bombardamenti di San Lorenzo, poi i lavoratori accorsi dalle campagne per ricostruire la città. Vivevano come cavernicoli, rintanati in grotte antiche. Sulle porte era dipinto un numero, preceduto da uno zero: “umanità sottozero”, la chiamavano già nel 1951 nel documentario La ricchezza dei poveri di Pino Mercanti: «Una piaga che la città non si cura di nascondere, dove la povertà diventa miseria. Uomini che sono fuori dalla società». Sette anni dopo Pier Paolo Pasolini si immergeva nell’identica desolazione: «Ricordo che un giorno passando per il Mandrione in macchina con due miei amici bolognesi, angosciati a quella vista, c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni. Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio» (Pier Paolo Pasolini, «Vie Nuove», maggio 1958). Lo scrittore ne rimase conquistato, ammaliato da quegli angoli di prostitute e mariuoli: «La pura vitalità che è alla base di queste anime vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto». Ne scrisse pure una canzone, Cristo al Mandrione (1960): «Ecchime dentro qua, tutta ignuda. Fracica fino all’ossa de guazza. ’Ntorno a me che c’è? Quattro muri zozzi, un tavolo, un bidet».
Con gli anni del boom nelle catapecchie agli sfollati si erano sostituiti i rom, ultimi nella catena dell’emarginazione. Ma la città non era rassegnata. Fotografi, registi, intellettuali, Elsa Morante e Goffredo Parise, persino Giangiacomo Feltrinelli si erano dati una missione di dignità. Raccontavano, filmavano, studiavano, intervenivano. Si facevano sentire. Al Campidoglio c’era chi li ascoltava. Nel 1968 don Roberto Sardelli, l’allievo di Lorenzo Milani venuto a fare il missionario in queste strade e scomparso nel marzo 2019, scrisse al sindaco: «Il luogo dove viviamo è un inferno, l’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo è soffocante d’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a cento metri dalle baracche. Siamo in continuo pericolo di malattie. Quest’anno all’Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l’ambiente più favorevole per svilupparsi».
Nel corso degli anni Settanta le catapecchie vengono abbattute. Gli abitanti, rom inclusi, traslocati nelle case popolari di Spinaceto. Ma quella non era più periferia. La metropoli l’aveva superata, tracimando verso il Grande Raccordo Anulare e lasciando Porta Furba alle spalle dei nuovi quartieri. Un grumo nero all’ombra delle luci sempre accese della Zecca di Stato disegnata da Pier Luigi Nervi, la Casa de Papel italiana, dove si stampavano le lire e ora gli euro. E i furgoni carichi di soldi appena inchiostrati passano davanti alle arcate simbolo della povertà più profonda.
Quella mobilitazione della cultura dell’impegno si è sgretolata, come tutta la comunità romana, come le strade eternamente squassate dalle buche. Esiste ancora, ma non scende più in piazza. Parla nei circoli e nelle mostre. Si è rinchiusa, perdendo il contatto con una metropoli che non riesce più a darsi un’identità. Una città che non sa più credere nel domani, prigioniera di troppe paure e sfiduciata, dove i servizi pubblici decadono e anche l’ovvio, anche prendere un autobus, ottenere un certificato, giocare in un giardino pulito, si trasforma in un’odissea. Dove i diritti sono annichiliti dalla spasmodica ricerca di una conoscenza, di una raccomandazione, di una protezione.
Eccola, la Roma dei Casamonica, quella che si è arresa per troppi anni alla loro violenza. Loro ne hanno approfittato per tessere una rete silenziosa e spietata, abile nell’occultare le impronte e farsi schermo dietro le continue emergenze. Con una ragnatela di minacce e lusinghe, di pestaggi e di affari hanno divorato il territorio. Se si vuole comprendere come questo sia accaduto bisogna tuffarsi, entrare nelle strade, nei bar, nelle case. I documenti dei magistrati raccolgono la devianza criminale, distillando la rilevanza penale di fatti e intercettazioni. Ma non bastano per capire la complessità di una rete familiare che ha codici diversi, figli distorti della tradizione rom e simboli più loquaci dei verbali di polizia. Ed è necessario partire proprio da qui, da questa cittadella dove non si entra senza permesso. Il castello che testimonia la loro invincibilità, l’essere superiori alla legge e alla società. E dove veniva gestita la vita della famiglia rom più famigerata d’Italia. Perché nel vicolo di Porta Furba si decidono la droga da comprare e vendere, il tasso di usura da applicare, le spedizioni punitive contro i debitori.
Non è facile inoltrarsi in questo vicolo. Quando si avvicina qualcuno di sospetto si innalza il grido surià o libéta, che nella loro lingua senza tempo vuol dire “guardie”. E il tam tam si diffonde in pochissimi secondi: tutti sono allertati. È la scena a cui ho assistito anche la prima volta che sono riuscita a entrare. La “grascina”, la villa dell’ultimo “padrino” Giuseppe Casamonica, con il muro in finta pietra e il nome scritto sul cartone in pennarello, era stata confiscata, ma i sigilli non sono stati un problema. Ha continuato a viverci e ad arricchire il mobilio. All’epoca del mio ingresso, molti mesi prima della grande retata, loro non si erano ancora imposti nelle cronache criminali, rivolte verso altre emergenze a mano armata. Eppure ero stata colpita da quel nome che tante volte avevo incontrato nelle mie ricerche sui padroni delle borgate: un nome sussurrato o evocato, che trasudava una paura mai percepita prima durante le mie inchieste sui boss romani. Mi parlavano di Porta Furba come di uno spazio intoccabile, un sole nero che emanava i suoi raggi oscuri in ogni angolo della periferia Sud, condizionando l’esistenza di un milione di persone. Per questo non ho resistito alla tentazione di varcare quel confine e mi trovo davanti tre giovani con i muscoli in bella vista. Provo a domandare di lui, di Giuseppe, ma interviene Liliana, cinquant’anni mal portati, volto tirato e uno sguardo gelido che blocca tutti. «Non te lo posso dire se è qui, capisci?» Si fa incontro quasi gentile, con la fermezza calma che si addice a chi comanda. Poi gira le spalle ed entra nella casa di fronte, dove vive con i genitori e alcuni fratelli. Inutile cercare di avvicinarmi. Uno dei guardiani scende veloce dalle scale con lo sguardo aggressivo: «Perché ti sei permessa di scrivere di lui senza la sua autorizzazione? Vai via da qui altrimenti…».
Lui è Giuseppe Casamonica, detto Bìtalo, e ha ereditato l’autorità dello zio Vittorio, il patriarca della dinastia nato nel 1950. Bìtalo è più giovane di ventidue anni, ma è uno che sa farsi temere, uno che sa come funzionano le cose: «Nessuno viene a bussà andò sto io» dice chiaro mentre la fuoriserie che sta guidando alterna sgommate a un procedere a passo d’uomo. A bordo un giovane imprenditore modenese, dall’aria pulita e i modi manageriali, impegnato in una trattativa singolare. L’uomo indica lungo le strade della capitale i posti dove vorrebbe aprire una catena di pizzerie. E chiede al guidatore come fare per evitare problemi: gli hanno spiegato che, soprattutto in periferia, ci sono regole precise da rispettare e non vuole finire invischiato in guerre tra criminali. Giuseppe detto Bìtalo, che nella sua lingua significa “una cosa grande”, gli offre una certezza: «A Roma ci stanno i Casamonica e basta! Andò stamo noi nessuno viene a rompe er cazzo». Si sente così sicuro del suo dominio da non informarsi sul suo interlocutore. Che non è un manager, ma un ufficiale dei carabinieri sotto copertura. E la corsa di quella coppia improbabile attraverso i quartieri offre per la prima volta agli investigatori la mappa del loro regno: Don Bosco, Tuscolana, Cinecittà, Romanina, Finocchio, Tor Bella Monaca, Borghesiana, fino a Vermicino, fino al confine estremo della città eterna.
Minacce, violenze, danneggiamento, oltraggio, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni aggravate, spaccio di cocaina sono solo una parte del suo curriculum criminale di denunce e condanne. Nel 2007 Bìtalo viene scarcerato grazie all’indulto, ma non si redime. Due anni dopo lo accusano di gestire un traffico di stupefacenti insieme ai fratelli. Con loro due insospettabili impiegati: usavano il figlio dodicenne come corriere. «Non ci voglio andare a prendere la droga, per favore…» implorava il piccolo in lacrime. «Invece ci devi andare, perché tu dai meno nell’occhio» ribattevano i genitori senza vergogna. Una storiaccia che la dice lunga sul patto tra la Famiglia e una borghesia sempre più piccola, sempre più impoverita economicamente e moralmente.
Giuseppe detto Bìtalo faceva il buttafuori e guadagnava poco. Meno di diciottomila euro l’anno, stando alle sue dichiarazioni dei redditi, nonostante in casa avesse arredi lussuosi. Nell’ultimo periodo, dopo aver scontato parte di una condanna per traffico di coca nella serenità di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, torna nella sua roccaforte di Porta Furba a curare gli affari della Famiglia, ma custodisce un desiderio. Vuole esibire carte in ordine perché «nessuno mi deve rompere i coglioni». La sua amante, Giuseppina Di Marzio, organizza eventi in una discoteca di Ostia ed è pronta a far avere la cura della vigilanza a un’azienda del settore. In cambio “Don Peppe”, come ama farsi chiamare, può essere assunto con tanto di “documentazione regolare” dall’agenzia. La sede è in un’elegante palazzina nel quartiere Parioli, è specializzata nel fornire limousine, yacht e servizi di security con tanto di autorizzazione della Prefettura di Roma. L’attività ideale. E di sicuro pochi possono vantare la sua competenza nel tirare pugni.
Nessuno osa opporsi alla Famiglia più potente dentro e fuori il Grande Raccordo Anulare. Nemmeno le altre cosche, native o importate dal Sud, li hanno mai sfidati. Perché se non c’è Don Peppe Bìtalo ci sono i suoi parenti e tutti lo sanno. Anche dopo la retata, la loro forza resta intatta: «Sì, li hanno carcerati, ma ci sono ancora le mogli, i cugini…». Il loro è un cappio che zittisce, da usare anche con gli amici, come il pasticciere di fronte al fortino, a cui si dice abbiano tolto anche la casa perché in debito con loro. Quando prestano denaro del resto non lo fanno per beneficienza. Lo rivogliono indietro a interessi insostenibili, altrimenti sono botte. Pasquale, per tutti Rocky, il fratello di Don Peppe, fa le convocazioni nel vicolo direttamente via WhatsApp. E così, quando un debitore in difficoltà non gli restituisce i soldi, sa come convincerlo. Il malcapitato ricorda che davanti al cancello gli sferra due pugni allo stomaco, poi gli tira un cazzotto fino a rompergli il naso: «A me della libertà non me ne frega niente, se me succede qualcosa a me, c’è chi viene prima di me. Io mi accavallo [prendo una pistola, NdA] e ti sparo. Devi stare attento alla famiglia tua, vendete casa» gli spiega. E infatti quando trova il coraggio di denunciare non si arrendono: racconta che si presentano per intimorirlo al Palazzo di Giustizia durante l’incidente probatorio, anche se l’udienza non è aperta al pubblico.
Nulla li scompone, nulla li può dividere: sono pronti a fare quadrato in qualunque situazione. Nonostante gli arresti si prodigano senza soste per la Famiglia. Nella ricostruzione della Procura c’è un episodio illuminante: Pasquale si precipita in supporto del cugino Salvatore che pretende cinquecento euro a settimana dal giovane proprietario di un pub a meno di un chilometro dal vicolo. Una tassa sulla movida: gli avventori si fermano sulla piazza, fanno confusione e disturbano i suoi affari illeciti. Il titolare riferisce le loro pretese e all’inizio non si fa intimorire dalle minacce, ma Salvatore gli annuncia: «A posto: te faccio chiude il locale, gli do fuoco, te lo faccio esplodere, mo’ ritorno…». E alla fine mantiene la promessa, si presenta con Pasquale per aggredire un dipendente del pub.
La loro è una rete fluida, invisibile ma rapida ad accorrere alle grida di aiuto, rigorosamente in lingua romanì, per accerchiare le forze dell’ordine che imboccano il vicolo proibito. Hanno provato a difendere così un altro fratello, Domenico, che s’è messo a correre gettando le dosi di cocaina. Sì, la droga: quella che uno dei fondatori della dinastia, Guerrino, seduto davanti a casa con l’immancabile bottiglia di vino rosso, si ostina a ripetere che a casa sua non entra. Un mantra smentito dai “cavalli” che fanno avanti e indietro da tutta Roma e da decine di indagini.
Criminalità zingara e “de noantri” e un potere che si espande dalla roccaforte in vicolo di Porta Furba su tutto lo sterminato quadrato Sud della capitale. Il mondo dei Casamonica si muove ancora più in basso del Mondo di mezzo, più giù del Mondo della strada – citato da Massimo Carminati nell’inchiesta Mafia Capitale. Prospera sotto il livello a cui le istituzioni guardano, domina i meandri più oscuri. Le loro vittime dicono che sono come «i topi di fogna», invisibili finché non sbucano in superficie. Ma sono capaci di divorare tutto. «Ti si mangiano, sono tanti, sono pieni di fratelli e cugini che si muovono» dice terrorizzato persino un calabrese che ha conosciuto a lungo la ’ndrangheta.
Loro sono compiaciuti di questa fama nefasta: «A Roma semo i più forti», «siamo mafiosi». Nessuno osa opporsi. Tanto che contro di loro l’uomo vicino alle cosche dell’Aspromonte ritiene che l’unica soluzione sia andare in Calabria «per far intervenire qualcuno. Perché sono tanti e sono organizzati bene, diventano potenti sia con i soldi che con i morti…».
Non sono un innesto alieno, non siamo davanti all’avanguardia di un clan migrato dal Meridione. Ormai la Famiglia è parte della città. Gli arrestati del blitz estivo sono nati quasi tutti a Roma, cosa mai successa nelle operazioni di polizia che radiografano quel melting pot di italiani e stranieri da sempre tipico della città eterna. Invece quando giri per le loro strade, ti accorgi di avere a che fare con una realtà che è tutt’uno con la vita dei quartieri. E che impone a tutti la sua legge, spesso accettata volontariamente. «Sostengono che dentro “casa” non si devono fare casini» spiega una signora, e il tabaccaio la conforta: «Pensa che ai figli dicono “se prendi qualcosa ti taglio le mani”». Insomma, loro sono ordine e l’omertà pare interessata. In fondo, i Casamonica sono comunque di lì, e l’alternativa è il caos. Meglio conviverci.
E infatti tanti oppongono un silenzio infastidito alle mie domande. Devo spendere lunghe ore, tornare più volte nei posti perché la diffidenza per il mio accento del Nord venga superata. Solo un quarantenne con le braccia robuste e la cadenza del Sud ha voglia di parlare. «Dalla Romanina fino a qui e a Porta Furba è tutta roba loro.» Dice di conoscere bene la Famiglia e assicura di non avere mai avuto problemi: «Mi trattano come un fratello. Perché? La conosci la Sacra Corona Unita? Il mio nome non conta, devi solo capire che i Casamonica si...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Giuseppe Pignatone
  4. Casamonica. La storia segreta
  5. Introduzione
  6. 1. Porta Furba. Il vertice
  7. 2. Vermicino. L’origine della Famiglia
  8. 3. Tor Vergata. L’ascesa
  9. 4. Don Bosco. La celebrazione
  10. 5. Romanina. La rete invisibile
  11. 6. Cinecittà. Il brand
  12. 7. Quadraro. L’oro
  13. 8. Centro storico. Pugni e usura
  14. 9. Tor Bella Monaca. La droga
  15. 10. Piazza Adriana. L’impunità
  16. 11. Roma città aperta
  17. Per orientarsi nella Famiglia
  18. Copyright