Piccolo manuale di leadership confuciana
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Piccolo manuale di leadership confuciana

La lezione dell'oriente per guidare gli altri

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Piccolo manuale di leadership confuciana

La lezione dell'oriente per guidare gli altri

Informazioni su questo libro

Gli insegnamenti confuciani come fonte di ispirazione per acquisire autorità personale. Conoscere le dinamiche di gruppo, focalizzare gli obiettivi e sintetizzare le qualità individuali con i risultati desiderati: sono questi gli aspetti fondamentali da assimilare per essere una buona guida nel lavoro di squadra. Che la vostra sia una piccola realtà, o che miriate al successo in una grande azienda, il segreto di un buon leader non cambia: è l'entusiasmo che raccoglie fiducia, consenso e speranza. Un manuale di pianificazione, per chi vuole salire la scala delle responsabilità senza cedere al suo peso.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
Print ISBN
9788817095242

Parte prima

Il ruolo generico del leader

1

Cos’è la leadership?

Ascolta tutti, strappa una piuma a ogni oca che ti passa davanti, ma non seguire ciecamente nessuno.
Proverbio cinese
Per Confucio, la chiarezza del pensiero è un elemento essenziale per una leadership efficace. E per conseguire la chiarezza del pensiero è indispensabile quello che lui definiva l’uso corretto dei nomi: i termini che usiamo per indicare gli oggetti del pensiero, per esempio le parole con cui possiamo conoscere, parlare di, o rivolgerci a una persona, un animale, un luogo o un oggetto. Confucio, tuttavia, non esorta alla precisione fine a se stessa: quel che gli preme è la chiarezza espressiva, non lo scrupolo meticoloso. Auspicava: «Il linguaggio esprima chiaramente il pensiero e basta (cioè sia senza fioriture)» (419). Confucio è quindi, in essenza, un filosofo pratico.
Tzu-lu disse: «Il principe di Wei attende di affidarti un incarico di governo [cheng]. Che farai per prima cosa?».
«È assolutamente necessario ridare ai nomi il loro vero significato [cheng]» rispose Confucio. [I due significati di cheng si distinguono solo per l’intonazione.]
«Proprio questo!» esclamò Tzu-lu. «O Maestro, tu perdi di vista il tuo scopo (che è governare). A che pro questa rettifica?»
«Come sei rozzo, o Yu!» esclamò Confucio. «Il saggio è prudente in ciò che non sa. Se i nomi non sono corretti, le parole non corrispondono (alla realtà); se le parole non corrispondono, gli affari non giungono a compimento; se gli affari non giungono a compimento, non fioriscono i riti e la musica; se non fioriscono i riti e la musica, i castighi e le pene non sono giustamente irrogati; se i castighi e le pene non sono giustamente irrogati, il popolo non sa come muovere le mani e i piedi. Perciò, quando il saggio nomina (qualcosa) deve potersi dire così; quando dice, deve potersi eseguire. Nell’uso delle parole il saggio non è mai improprio.»1 (305)
Se vogliamo incamminarci sulla strada indicata dal Maestro, dobbiamo aver chiaro fin dall’inizio cosa significano le parole inglesi leader, leading e leadership. Come vedremo, il mancato appianamento di questo primo ostacolo ha generato molta confusione tra gli autori contemporanei che scrivono sul tema della leadership, soprattutto negli Stati Uniti, il Paese in cui si pubblicano più titoli su questo argomento.
A quanto mi è dato sapere, questi sostantivi inglesi non avevano un equivalente nel cinese parlato e scritto duemilacinquecento anni fa. Nel cinese moderno esistono termini paralleli a leader e leadership, ma il loro significato non è perfettamente sovrapponibile a quello delle controparti inglesi.
Naturalmente, le lingue si prestano parole a vicenda. La grande maggioranza delle parole usate in Occidente che derivano dal cinese sono semplici prestiti sottoposti a una normale trascrizione fonetica, come il piatto della cucina cinese chop suey (dal cantonese tsap-sui, che indica un assortimento di pezzi). Ma «perdere la faccia», una locuzione talmente comune che il parlante medio non è consapevole delle sue origini cinesi, è qualcosa in più di un semplice prestito: colma una lacuna della nostra lingua.
Negli ultimi venti o trent’anni altre lingue, che come il cinese non dispongono di un equivalente autonomo della parola inglese leader, hanno compiuto la scelta più ovvia: per esempio il francese, lo spagnolo, il polacco, il finlandese e il giapponese hanno semplicemente importato l’inglese leader nel proprio lessico.
Benché Confucio non avesse un nome da attribuirle, possedeva senza dubbio l’idea generica di un ruolo di conduzione degli affari umani, distinto dai ruoli, dalle funzioni, dai mestieri e dalle professioni più specializzate di cui si occupava la grande maggioranza degli uomini.
Confucio collega questo ruolo generico e privo di nome alla qualifica di «gentiluomo». Quando non era impegnato nello studio o nella riflessione (le altre occupazioni degne di lui), il gentiluomo contribuiva alla società svolgendo quell’attività di direzione e comando.
Il sostantivo cinese junzi, solitamente tradotto con «gentiluomo», in origine indicava il figlio di un sovrano (jun significa sovrano, zi significa figlio), e quindi l’erede designato. Jun indicava l’antico sovrano di uno Stato, il principe o signore. Tradizionalmente, l’educazione del primogenito di un principe era improntata alle più alte vette della sapienza e dell’etica, quindi rappresentava un modello di comportamento per i sudditi. Perciò la parola junzi finì per indicare una persona di elevati principi morali e che si era distinta in imprese onorevoli: un uomo nobile e di spiccata rettitudine.
In seguito junzi assunse una rosa di significati ancor più ampia, come «brava persona» o «buon marito». All’epoca di Confucio, la parola gentiluomo – non diversamente dall’inglese gentleman – aveva assunto un senso più lato, a indicare un uomo istruito e perbene, ma aveva già perso la connotazione di un individuo superiore agli altri in virtù delle sue qualità personali, e dunque adatto a guidare gli altri e a fungere per loro da modello ideale di comportamento.
Al di sotto dei principi e dei loro figli, nell’antica Cina c’era una piccola nobiltà, solitamente composta da famiglie che avevano meritato la dignità di un cognome – Confucio veniva dalla famiglia Kung – e ricoprivano le cariche più alte dell’amministrazione o dell’esercito nei rispettivi Stati. Confucio sottolineava che la funzione di quello strato sociale era contribuire a dirigere e sorvegliare la collettività. Quando nei Dialoghi vediamo emergere un ritratto di quel ruolo generico – cosa il leader deve fare e deve essere – è evidente che Confucio sta parlando della leadership come la intendiamo oggi. Ed è lo spunto da cui nasce questo libro.
Nell’antica Cina, il termine vaso indicava un ruolo sociale specifico o la persona che lo ricopriva. È una metafora tratta dalla vita quotidiana: un vaso è un recipiente concavo pensato per contenere liquidi, così come un fiasco, una tazza, una pentola, una bottiglia o una ciotola; ha cioè una funzione specializzata e immediatamente evidente. I vasi usati per i riti sacrificali nei templi erano fatti di giada, una pietra dura che di solito è di colore verde:
Tzu-kung domandò: «Di Szu (di me) che ne pensi?»
«Tu sei un vaso» rispose Confucio.
«Che vaso?» domandò l’altro.
«Un vaso per i sacrifici» rispose Confucio. (95)
Non possiamo dare di questo brano l’interpretazione più logica, ovvero che Confucio giudicasse Tzu-kung idoneo – per interessi, attitudine e temperamento – a diventare un sacerdote in uno dei grandi templi dello Stato: perché sappiamo che Tzu-kung (che abbiamo già incontrato nell’introduzione di questo libro) non diventò mai un sacerdote. Anzi, fra i tre discepoli più noti di Confucio fu l’unico a sopravvivere al Maestro, ed ebbe poi una luminosa carriera come diplomatico e mercante. Definendolo «un vaso per i sacrifici», credo che qui Confucio intendesse dire che Tzu-kung – come lui stesso – era stato chiamato dal Cielo (o da chi per esso) a diventare quello che William Wordsworth definisce «uno spirito dedito», un uomo scelto per un obiettivo più elevato o per un destino speciale.
Confucio chiarisce (28) che il leader, o gentiluomo, non è un «vaso» nel senso di limitarsi a svolgere una funzione altamente specializzata. È interessante osservare, tuttavia, che anche a quei tempi gli uomini venivano stimati solo se avevano una qualche competenza specialistica, come un mastro carpentiere o un musicista. L’abilità tecnica garantiva una reputazione tra i colleghi, quantomeno a livello locale, e senza di essa era difficile essere stimati. Quando un conoscente di Confucio gli fece notare che non aveva quel genere di reputazione, il Maestro rispose con una nota di umorismo:
Un uomo del villaggio di Ta-hsiang disse: «Grande davvero è Kung-tzu! Studia di tutto ma in nulla si è fatto un nome».
Udito ciò, Confucio disse parlando ai suoi discepoli: «(Per diventare famoso) a che mi dedicherò? Mi dedicherò alla guida dei carri? Mi dedicherò al tiro con l’arco? Mi dedicherò alla guida dei carri». (207)
Sembra proprio che Confucio fosse un uomo dotato di senso pratico in relazione al genere di lavoro manuale che i servi svolgono in casa o nelle terre. Aveva sviluppato quelle competenze, come spiegò una volta a Tzu-kung, perché «da giovane ero di umile condizione» (211). Ma non pretendeva che tutti i gentiluomini possedessero le stesse competenze, da lui acquisite per puro caso: «Il saggio deve forse avere molte capacità? Non molte» (211). Di se stesso diceva: «Io non ho cariche pubbliche, per questo pratico le arti» (211).
Il termine «vaso», a indicare una persona che possiede competenze specializzate, è usato anche nel Tao-tê-Ching (Il libro della Via e della Virtù), il testo fondamentale del taoismo attribuito a Lao-tzu, tradizionalmente ritenuto il fondatore di questa corrente di pensiero. Il Tao-tê-Ching fu probabilmente scritto come guida alla saggezza per i governanti – Lao definisce «saggio» il leader eccellente – e funge da introduzione classica al Tao (la Via), una nozione comune a molti pensatori cinesi dell’epoca, compreso Confucio.
C’è chi dubita che il Maestro Lao (un nome che significa «vecchio») sia mai realmente esistito: si ritiene che possa simboleggiare un’intera tradizione. In ogni caso, è evidente che Confucio aveva molto in comune con Lao-tzu. C’è dunque almeno un nucleo di verità nell’antica leggenda secondo cui, in gioventù, una volta Confucio fece un lungo viaggio per incontrare Lao-tzu e ascoltò i suoi insegnamenti, probabilmente sul modo migliore di condurre i riti religiosi.
Lao-tzu afferma che a differenza dei vasi – funzioni specifiche contrassegnate da nomi, come i diversi mestieri e professioni – il ruolo del principe è innominato, o senza nome, e lo paragona a un blocco di giada non ancora intagliato, appena estratto da una cava anch’essa priva di nome.
Anche la Via, che il saggio al contempo segue e incarna, è priva di nome. E questo perché un nome, nel pensiero taoista, è sempre il nome di una cosa specifica; è ciò che distingue una cosa da un’altra. Ma la Via non ha limiti né confini: perciò se le si assegnasse un nome – o anche una serie di nomi – si correrebbe il rischio di ridurla al livello di congetture inconsce su una funzione o un tipo di lavoro piuttosto che su un altro. Come il vento, la Via non si attiene a definizioni e non rispetta confini. Né possiede l’autocoscienza che deriva dall’avere un nome, e certamente non possiede una reputazione.
Come abbiamo visto, a portare onore, fama e gloria agli uomini sono di solito le competenze specialistiche nelle funzioni dotate di nome. Quindi la Via – non avendo un nome – è per sua natura umile: come l’acqua, tende sempre a cadere fino al livello più basso possibile. In relazione alle mille creature,
genera, ma non rivendica possessi;
agisce, ma non crea dipendenza;
sviluppa, eppure non presiede. (51)
Il saggio, poiché svolge un ruolo generico che non ha nome, e poiché fa affidamento sulla Via innominata, si pone in un atteggiamento di estrema umiltà nei riguardi del suo popolo. In particolare, non pretende da esso alcuna reciprocità nei fatti o nelle parole: dona con generosità e senza sosta ma non si aspetta niente in cambio, neppure il riconoscimento:
Così, il saggio agisce ma non crea dipendenza,
e a opera ultimata non vi indugia;
non vuole proprio mostrare il suo valore. (77)
Dunque, come il blocco di marmo grezzo non ha nome e quindi non ha motivo d’orgoglio, così il leader eccellente incarna la virtù dell’umiltà. Il termine umiltà deriva dal latino humus, che indica la terra. Per questo, nel Vangelo Gesù si definisce «mite e mansueto di cuore» (Mt 11:29), cioè docile, privo di orgoglio e di alterigia. Forse però nel nostro contesto «umile» è la parola più adatta. Un’interpretazione giustamente celebre di questo spirito di docilità ci è offerta nel capitolo 17 del Tao-tê-Ching:
Che esisteva era noto ai sudditi del cielo;
lo si amava e lodava, su un piano successivo;
lo si temeva in seguito, a un livello più basso;
lo si scherniva infine, all’ultimo livello.
Se la sincerità appare insufficiente,
occorre la menzogna.
Quale accortezza,
con il corretto uso di parole!
A lavoro compiuto, a servizio sbrigato
ognuno dichiarava:
«Ho agito in accordo con me stesso».
La stessa virtù – la propensione a lasciare in disparte il proprio ego – è ancor oggi un segno di eccellenza; ma non in quanto il proprio ruolo generico non abbia un nome, come ritenevano Lao-tzu e Confucio, perché oggi quel ruolo un nome ce l’ha: leadership.
In inglese antico, il sostantivo lead indicava un sentiero, una via, una strada o una rotta (come quella di una nave in mare). Fin dalle sue origini è una parola legata all’idea del viaggio. Quindi to lead significa mostrare la strada agli altri, soprattutto nel senso di mettersi alla testa della fila e procedere davanti a tutti. Un leader sarà quindi colui il quale compie quest’azione.
Tra parentesi, in inglese antico si tratta di un verbo causativo, quindi va inteso nel senso di «spronare altri a intraprendere un viaggio», fare in modo che partano. Ma il presupposto implicito nella parola leading è sempre che gli altri seguano il leader liberamente e di propria iniziativa. Non è neppure contemplato l’uso della forza per costringere gli altri a muoversi contro il proprio volere: allorché puntiamo una pistola e minacciamo le persone per costringerle a seguirci...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota dell’autore
  4. Introduzione
  5. PARTE PRIMA. Il ruolo generico del leader
  6. PARTE SECONDA. Alcune doti necessarie per il leader
  7. Conclusioni
  8. Indice