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Il sapere del vivere e del morire
Citofono. Mi risponde la signora. Mi chiede di attenderla nell’atrio. È lì che avviene il nostro incontro. Mi stringe la mano e mi elenca le cose che suo marito non sa e non deve sapere: «Non deve sapere delle metastasi al fegato, non deve sapere che è un malato terminale, non deve sapere che lei è della VIDAS». Nei sette piani di ascensore la signora mi spiega le ragioni: si lascerebbe andare, deve continuare a sperare, morirebbe prima del tempo, e poi «noi non vogliamo che sappia la verità». Supero l’istintiva irritazione che mi suscita questo sapere con certezza il bene degli altri, e anche la tentazione di convincerla che ci sono tante buone ragioni per consentire al paziente di avvicinarsi alla consapevolezza di quanto lo aspetta. Mi attengo ai fatti.
«E lui?» butto lì. «Lui che cosa vuole sapere? Fa delle domande?»
«Lui sa che sta male per colpa della chemio: per questo l’hanno interrotta. L’oncologo gli ha dato un appuntamento tra tre mesi. Lì vedranno che cosa si può fare. Ma a noi ha detto che tra tre mesi mio marito non ci sarà più.»
Anselmo è un omone, imponente nonostante la malattia. Ha insegnato matematica al liceo per tutta la vita: forse anche per questo mi mette quasi un po’ di soggezione. Scherziamo sulla sua professione: spero che non mi interroghi, glielo dico subito. La malattia ha limitato moltissimo la sua indipendenza. Proprio le metastasi epatiche di cui la moglie non vuole che si parli gli causano importanti gonfiori alle gambe, che gli impediscono di stare anche solo seduto in una posizione comoda. Ripone molte speranze nel mio intervento, sa che vengo «dall’ospedale, mandata dall’oncologo per aiutarlo a riprendersi». Difficile sottrarsi al gioco. Attiviamo tutte le risorse disponibili per aiutarlo a recuperare un minimo di autonomia, per sgonfiare le «gambone», come le chiama lui. E una minima ripresa in effetti c’è.
Poi, dopo qualche settimana, la situazione peggiora di nuovo, torniamo al punto in cui eravamo quando ci siamo conosciuti, anzi un po’ peggio.
Il corpo parla e l’anziano professore decide di ascoltarlo.
«Dottoressa, non sto migliorando. Sia sincera: è davvero la chemio o è la mia malattia che sta andando avanti?» Il suo sguardo implora la verità. Lo sguardo della moglie in piedi davanti al letto implora che la verità non venga detta.
A noi palliativisti insegnano che, più che dire o non dire la verità, importa creare un «ambiente di verità», un ambito in cui sia possibile porre le domande difficili e ottenere risposta. Mi ricorda molto la relazione con i figli, laddove lo spazio del dialogo è costruito dai genitori. Un figlio sa bene, pur in assenza di regole scritte, che ci sono argomenti tabù: la mia generazione lo ha sperimentato per esempio con il sesso, argomento di cui certo non si poteva parlare a tavola. Il fatto che i pazienti sentano di poter domandare quello che magari si stanno tenendo dentro da mesi significa che riconoscono la possibilità di ricevere una risposta. Ma non sempre vogliono davvero sentirsi dire la verità. A volte preferiscono una bugia che li rassicuri, oppure stanno semplicemente chiedendo altro, come Stanley.
Stanley era un pittore. Viveva solo in affitto nell’appartamento di un amico, al primo piano di una casa d’epoca. La stanza più grande e luminosa era il suo atelier, con quadri coloratissimi di ogni misura. Faceva una gran fatica a sbarcare il lunario e pochi mesi prima gli avevano diagnosticato un tumore al polmone già metastatico. Figlio di una cultura mitteleuropea – così amava definirsi – e totalmente solo, aveva voluto sapere tutto sulla malattia e conoscere nei dettagli pro e contro di eventuali trattamenti. Solo allora aveva scelto di non sottoporsi ad alcuna cura. Come unico tentativo di rallentare la progressione del male aveva abbracciato la dieta macrobiotica.
Un giorno di gennaio, dopo qualche mese di assistenza, Stanley mi spiazzò con una domanda a bruciapelo: «Quanto mi resta da vivere?». Colse al volo la mia sorpresa e, nei pochi attimi in cui prendevo fiato per rilanciare a mia volta con una domanda che indagasse meglio il suo bisogno di sapere, riformulò la domanda con maggiore precisione: «No, dottoressa, stia tranquilla: voglio solo sapere se mi conviene pagare il canone Rai». Stanley non pagò mai il canone Rai e morì poche settimane dopo in hospice, come aveva chiesto quando si era reso conto che per continuare a vivere nella sua meravigliosa casa atelier avrebbe dovuto accettare di essere aiutato da qualcuno.
Anche di fronte ad Anselmo, come avrei fatto con Stanley se non mi avesse bruciato sul tempo con la storia del canone, ho provato ad aprire la domanda, non solo e non tanto per la presenza incombente della moglie, ma per capire meglio che cosa davvero volesse sapere.
Perché mi fa questa domanda? Che cosa la spinge a chiedermi questo? Che cosa le hanno detto gli altri medici prima di me? Che idea si è fatto lei? Che cosa sente che sta succedendo? E ancora: se la verità fosse una brutta verità, vorrebbe conoscerla tutta fino in fondo? Non preferirebbe invece delegare i suoi famigliari?
La verità è talvolta un macigno che cambia per sempre la storia e le relazioni: anche per questo va gestita con cautela, usando il tempo come un alleato. Comunicare la diagnosi non è semplicemente fornire un’informazione. È dare tempo all’altro di interiorizzare gli elementi che gli vengono forniti, di digerirli, riproporli e sollevare tutte le domande che ritiene.
Informazione e comunicazione non sono la stessa cosa: se un’informazione è troppo difficile da recepire, semplicemente ci rifiutiamo di comprenderla, di prenderla e portarla con noi. La comunicazione integra l’informazione all’interno di un processo relazionale, usa la continuità della relazione come strumento. Per questa ragione è un aspetto fondamentale della cura, cui va prestata un’attenzione costante.
Il lavoro d’équipe, in hospice o al domicilio, prevede molti momenti di passaggio di consegne in cui ci trasmettiamo l’un l’altro notizie su modi e contenuti della comunicazione: proprio perché tutti siano pronti ad accogliere i dubbi, le paure, le richieste del paziente. Una buona comunicazione esige luoghi, modi e tempi adeguati.
Così è andata anche con Anselmo: a quella prima domanda ho dato una risposta interlocutoria, che apriva alla possibilità di riprendere il discorso negli incontri successivi. Sulla soglia di casa, mentre me ne andavo, la moglie mi ha intimato ancora una volta di non dire la verità per alcuna ragione. Ho provato a spiegarle perché invece sarebbe potuto essere per lui un aiuto sapere che cosa lo attendeva, ma le mie ragioni non l’hanno smossa.
«Come avrà notato non ho fatto nulla perché suo marito sapesse quello che gli era stato tenuto nascosto, in parte anche assecondando il suo desiderio. Ma non posso accettare ancora la sua richiesta» ho concluso, «né dal punto di vista etico, né da quello legale: se suo marito vuole sapere, ha il diritto di sapere e io ho il dovere di informarlo. Lasciamo a lui lo spazio e il tempo per decidere se e fino a che punto vuole andare avanti.»
Alla visita successiva Anselmo è perentorio, chiede alla moglie di uscire dalla stanza e si rivolge a me: «Ci ho pensato: voglio sapere tutto, se sto morendo e quanto tempo mi resta».
Inizia un lungo e delicato discorso fatto di certezze – «Sì, purtroppo il tumore è andato avanti e questi sintomi sembrano dipendere proprio dalla malattia che avanza e non dalla chemioterapia» – e di ipotesi – «Il tempo non lo conosce nessuno, anche noi medici possiamo dare ordini di grandezza, non essere precisi al dettaglio».
«Dunque mi conferma che non sono matto e che avevo capito bene... Ma saranno anni, mesi o giorni?»
«Mi sento di dire che non saranno anni.»
«Quindi mesi, al massimo.»
«Penso di sì.»
«Magari due mesi che poi è come dire qualche settimana...»
«Forse, ma io sono un medico, non prevedo il futuro. Quello che so è che faremo di tutto per rendere questo tempo il migliore possibile.»
Progetta il suo ultimo viaggio, un pellegrinaggio, Anselmo. Non ho mai capito se si trattasse della richiesta di un miracolo o della realizzazione di un ultimo desiderio o di tutte e due le cose.
La moglie mi dice semplicemente: «Un medico vero non avrebbe mai detto ad Anselmo le cose che ha detto lei». La nostra relazione finisce con la mia disobbedienza alla sua richiesta, da lì in poi si limiterà a comunicazioni di servizio.
In Italia spesso la famiglia si frappone nella comunicazione tra medico e paziente. E alla famiglia viene talvolta dato ascolto più che al paziente. Le ragioni sono molteplici, in parte culturali e in parte legate alla crescente paura del conflitto, e del conseguente rischio di denunce, che contraddistingue la cosiddetta medicina difensiva.
Quando si tratta di un malato alla fine della vita però, la famiglia è, sì, parte attiva della cura, ma nel dolore che sta attraversando ne è anche e soprattutto oggetto.
La storia di Anselmo da un certo punto di vista è fallimentare. La cura del paziente passa attraverso la cura delle relazioni importanti per lui. Idealmente, la contrapposizione tra la volontà della famiglia e quella del paziente viene superata dalla possibilità di costruire un dialogo di cui a volte l’équipe curante si fa tramite. In quella che viene chiamata «congiura del silenzio», capita infatti che sia il paziente sia i famigliari siano perfettamente a conoscenza della verità sostanziale ma mettano in atto una recita, volta a non affrontare mai il tema esplicitamente.
Sapere una cosa e dirsela è molto diverso: le cose dette hanno un peso, uno spessore e un senso di definitivo che i pensieri possono permettersi di non avere. Non tutti poi possono concedersi di piangere insieme. L’intimità che questo comporta precede la malattia e non appartiene a tutte le relazioni: se non lo si è fatto prima, sarà difficile farlo proprio in un momento così critico. Ad alcuni fa semplicemente molta paura affrontare i sentimenti, propri e altrui.
Prendersi cura del morente deve includere il prendersi cura della sua famiglia, diventare costruttori di ponti relazionali. Laddove questo non fosse possibile, la volontà della famiglia non dovrebbe comunque essere giudicata. Dietro scelte apparentemente poco comprensibili, come quella di circondare il paziente di una cortina di menzogne, si nascondono spesso ottime intenzioni, o un indicibile senso di colpa o, al limite, il grande timore di non reggere il dolore che implica l’affrontare la morte insieme.
Il compito affascinante del prendersi cura sta nel costante supporto dato al malato e ai suoi cari nel tradurre emozioni e sentimenti in una realtà vivibile, con l’obiettivo di (ri)costruire un dialogo che consenta di salutarsi serenamente.
Questa è un’altra delle ragioni per cui le cure palliative si fanno in équipe: perché la sensibilità e la professionalità dei diversi membri trovino il modo di agire sinergicamente per favorire l’insorgere di relazioni significative, che sono possibili fino all’ultimo giorno.
Il tema della verità è ricorrente nelle cure palliative.
Dire o non dire la verità semplifica ed estremizza una questione assai più carica di sfumature.
Innanzitutto dire la verità non è dire tutta la verità a tutti i costi: è invece entrare in relazione con l’altro per scandagliarne i desideri più profondi. E decidere anche di starci, in quella relazione.
Ai famigliari che mi dicono «Non deve sapere» cerco di trasmettere, quando me lo consentono, alcune semplici riflessioni che ho elaborato in questi anni di professione.
Prima di tutto, è inutile dire che sarebbe molto più facile anche per noi medici promettere che tutto andrà bene e ogni problema si risolverà. Purtroppo però non sarà così e noi siamo medici che hanno scelto di restare fino alla fine, quando le cose andranno ancora peggio. In altre parole, sarebbe facile fare promesse e poi sparire, ma noi dobbiamo tornare, e vogliamo poter guardare negli occhi il nostro paziente ed essere guardati negli occhi da lui. Questo non significa necessariamente entrare in casa o in camera di una persona malata e rovesciarle addosso la verità. Significa riconoscere che la malattia è seria, che faremo insieme (il paziente stesso, l’équipe, la famiglia) tutto ciò che è in nostro potere per farlo stare meglio possibile, che costruiremo un’alleanza in cui ognuno metterà tutto ciò che di utile ha a disposizione. Altrimenti, mi chiedo, per quale ragione un paziente dovrebbe continuare ad affidarsi a un medico? Per me è un’equazione quasi lineare: se il problema è semplice e risolvibile, tu medico me lo devi risolvere, altrimenti significa che sei un incapace e io non mi posso fidare di te. Se il problema è complesso e irrisolvibile, allora capisco che anche tu, con tutte le tue competenze tecniche, resti uomo come me, fai quello che riesci, e mi posso fidare perché sono chiare le premesse del nostro contratto.
Ribadisco che la verità che si condivide non deve necessariamente avere un nome e un cognome. Non serve inondare i pazienti di dettagli: ciò che conta è legittimarli nel loro riconoscere la propria situazione. E questo è un altro elemento su cui spesso insisto con le famiglie.
Il paziente «sente» che sta peggio, il corpo parla in modo chiaro. Negare, minimizzare significa decidere che di alcune questioni non si può e non si deve parlare. Equivale a lasciare il paziente confuso e spesso solo nel proprio dolore, nel suo non poter dire «sto male» oppure «ho paura» o addirittura «sto morendo», nel suo non poter condividere le lacrime.
Peggio, c’è l’idea colpevolizzante che «stai peggio perché non reagisci». E il paziente ribatte: «Ma io non ce la faccio. Mi dicono che devo mangiare, che devo alzarmi, ma io proprio non ce la faccio». La malattia non è una colpa, stare male non è espressione di cattiva volontà, e il declino più o meno lento di chi si avvicina alla fine della vita è fatto di perdita progressiva di autonomia, di desideri, di interessi. «Non legge più il giornale, non guarda più neanche la televisione. Si sta deprimendo, ecco, si sta lasciando andare.»
Mauro, il nostro esperto fisioterapista, usa la metafora del treno per aiutare famigliari e pazienti a meglio comprendere la perdita di funzioni del corpo. «Quando un treno sta per arrivare in stazione rallenta sempre di più fino a fermarsi. È questo che sta succedendo: quando arriverà in stazione non è dato a noi saperlo, ma quello che vediamo è che ci stiamo avvicinando.»
Sapere che la stazione si sta avvicinando consente anche di sistemare questioni lasciate in sospeso, che solo l’urgenza di un tempo contingentato ci spinge ad affrontare.
È il caso di Andrea.
È domenica e sono di guardia in hospice. Ho sistemato le questioni più gravi e conto di riuscire a scappare a casa prima del solito. Mia figlia ha un po’ di febbre e, almeno oggi, vorrei riuscire a pranzare a casa tutti insieme. Sto per spegnere il computer quando suona il telefono. È Elena, l’infermiera più giovane, con il suo inconfondibile accento bergamasco.
«Giada, Andrea, il pa...