V
Venere, donna di lettere
| | Dii duo magna duo dederant munera Romae: |
| | Imperium Mavors et Venus Imperiam. |
| | Ac pariter totis nixi sunt viribus ambo |
| | Condendo imperium Mars, Venus Imperiam. |
| | Hos contra steterunt Mors et Fortuna, rapitque |
| | Fortuna imperium, mors rapit Imperiam. |
| | Imperium luxere patres, nos luximus ipsi hanc: |
| | Illi orbem, nos nos cordaque perdidimus.* |
da un epigramma latino di
Gian Francesco Vitale
Il 15 agosto 1512, quando a Roma si spegne all’età di trentun anni la bella Imperia, epigrammi simili a quelli di Gian Francesco Vitale fioriscono in tutta la città, insieme a qualche virulenta invettiva. Il fatto si è che la giovane donna che si è avvelenata ed è morta dopo due giorni di sofferenze atroci, con tutti i sacramenti e perfino con la benedizione di Giulio II, non è una donna come le altre, e la sua fine non può dunque passare nella generale indifferenza: essa sottrae alla città eterna la cortigiana più famosa e più adulata dei tempi moderni, quella il cui nome nel contempo riesce simultaneamente a evocare e a relegare nell’ombra quelli delle più celebri etere dell’antichità: Imperia.
L’imperatrice delle cortigiane
Lucrezia, questo era il suo vero nome, era nata nel 1481 da una madre che esercitava la stessa professione di cortigiana e da un uomo di cui solo il nome è noto, certo Paride, in cui gli storici con qualche leggerezza hanno creduto di poter identificare Paride Grassi o de Grassis, maestro di cerimonie di Giulio II e compilatore assai informato di una cronaca (Diarium) della vita pontificia del tempo. Nessun documento noto prova questa paternità, suggerita soprattutto dalla relativa rarità del nome; pure, si può presumere che il padre della bambina fosse in effetti un personaggio influente della Curia romana da vari indizi, non ultimo la protezione piuttosto eccezionale di cui godette la madre di Lucrezia dopo la sua nascita, protezione che solo un alto dignitario o una persona ben introdotta negli ambienti della Curia poteva essere in grado di offrire. A quanto pare, a Diana di Pietro Cognati, la giovane madre, dopo la nascita della figlia fu destinata una dote e procurato un marito, anch’esso onorato in seguito di alcuni importanti favori pontifici. Si trattava di un certo Paolo Trotti, chierico tonsurato ma non titolare di un qualche ordine sacro, che in un non ben precisato momento diventa cantore della cappella pontificia e «normale commensale di Sua Santità»; in seguito, sebbene fosse un laico, godette di benefici ecclesiastici in talune diocesi tedesche.
Poco si sa dell’infanzia, della prima giovinezza e degli inizi della carriera di Lucrezia. Pare che abbia vissuto sotto lo stesso tetto di un giovane, parente o forse anche figlio del patrigno Paolo Trotti, e che con lui intorno ai diciassette anni abbia scoperto l’amore. Pare anche che, durante i mesi successivi ai suoi primi amori, la madre non sia rimasta estranea al suo lancio nella fruttuosa carriera di cortigiana, se si considera che a partire dal 1499 Diana e il marito cominciano a investire capitali di una certa entità acquistando beni immobili nelle vicinanze della loro casa. La giovane, non c’è dubbio, non ha mai partecipato alle famose orgie dei Borgia, poiché i poeti dell’entourage di Cesare, alcuni dei quali le hanno poi dedicato epigrammi assai elogiativi, l’avrebbero sicuramente notata. Ma nel 1503, quando il papa Alessandro VI muore, non è sicuramente più alle prime armi ed è già una delle cortigiane più adulate della città eterna, per la sua celebre bellezza ma anche per la sua cultura. La madre infatti, ben conoscendo per esperienza le qualità e i doni capaci di condizionare il successo della cortigiana, non ne aveva trascurato l’istruzione, e sebbene non sia rimasta traccia degli esercizi poetici di Lucrezia, i letterati contemporanei ricordano che sapeva tornire con grazia il madrigale e il sonetto.
Già «lanciata» alla morte del papa Borgia, Lucrezia conoscerà la gloria sotto il fastoso pontificato di Giulio II: prova ne sia il prestigioso nome di Imperia che intorno al 1506 relega nell’ombra il suo nome di battesimo. Un poeta dalla lingua piuttosto velenosa l’accusò di essersi scelta questo nome per eccesso di orgoglio, ma probabilmente le fu suggerito, se non dato esplicitamente, dalla coorte di banchieri, gentiluomini, umanisti e artisti che quotidianamente si stringevano intorno a lei. Non esistono prove sicure del fatto che Imperia, come peraltro asserisce un documento coevo, abbia fatto da modella a Raffaello, ovviamente per un ritratto di Venere!, ma restano comunque le innumeri testimonianze lasciate dagli umanisti sull’adorazione che provavano per la diva.
Secondo la tardiva testimonianza di Matteo Bandello, che ha scritto sulla sua dimora sontuosa la descrizione che abbiamo citato in un precedente capitolo, il maestro di poesia di Imperia non fu egli stesso dei più sublimi: non si trattava infatti di Domenico Campana, come per errore dice il narratore, confondendo il nome del poeta con quello di un suo conoscente domenicano, ma del faceto Niccolò Campani, più noto con il soprannome di Strascino. Questo Senese, per metà poeta e per metà buffone, arrivò a Roma all’inizio del XVI secolo e fino al 1523, anno della sua morte, divertì le allegre baldorie degli ambienti cortigiani con la sua verve e le farse gioviali, per la verità poco apprezzate dai severi umanisti. Dal titolo di una di queste, Lo Strascino (1511 ca.) dev’essergli derivato il nomignolo, a meno che, come invece suggerisce uno storico, non sia avvenuto il contrario, ovvero ch’egli abbia dato per titolo alla sua farsa quel soprannome che da anni gli era stato appioppato per via di un’infermità fisica causata dalla sifilide da cui era notoriamente afflitto. Comunque sia, questo buontempone scrisse anche le Rime varie, e molto probabilmente proprio il suo duplice ruolo di tipo ameno e di poeta gli valse la scelta, a preferenza di dotti umanisti sicuramente più seri ma anche assai più noiosi.
Il cordiale disprezzo di cui è oggetto da parte degli umanisti, che lo considerano un semi-analfabeta se non altro perché ignora il latino, non intacca peraltro l’adorazione che provano per la sua graziosa e intelligente discepola. Infatti non passa giorno senza che nei salotti di Imperia arrivi qualcuno dei più famosi uomini di lettere dell’entourage di Giulio II. Uno dei più assidui, e non dei meno importanti, il bibliotecario del papa e titolare anche di due canonicati assai ambiti, quello di San Giovanni e quello di San Pietro, è il patrizio Tommaso Inghirami, soprannominato Fedra, e più spesso ancora Fedrone per via della sua corpulenza imponente, poiché in gioventù aveva interpretato il ruolo della mitica eroina nell’omonima tragedia di Seneca. Tra gli adoratori di Imperia si trovano comunque altri canonici di San Pietro: il romano Camillo Porzio, discendente di una famiglia illustre, all’epoca professore di retorica all’università e poi cameriere segreto di Leone X, oltre che titolare di un arcivescovato negli Abruzzi; Bernardino Capella, poeta e grande conoscitore dei classici, e perfino autore, si dice, di epigrammi piuttosto licenziosi, che aveva ormai superato la cinquantina ma non trovava in ciò una ragione sufficiente per non prosternarsi ai piedi della bella cortigiana. L’umanista Angelo Colocci, di famiglia patrizia, che diventerà molti anni dopo tesoriere pontificio e morirà vescovo, all’età di ottant’anni, lasciando una solida fama di poeta, figura anch’egli tra gli spasimanti di Imperia a cui dona, tra gli altri ricchi regali, una piccola Venere d’oro. In breve, per dare un’idea precisa del numero e della qualità degli ammiratori della «Divina», bisognerebbe passare in rassegna tutti gli umanisti di fama che vivono a Roma o vi si trovano di passaggio sotto il pontificato di Giulio II. Pure, su uno almeno di essi vale la pena soffermarsi un attimo, non solamente per la sua celebrità ma anche perché il suo esempio meglio di qualsiasi altro mostra come la dimora di Imperia sia il punto d’incontro di un’élite assai ristretta, di cui a pochi eletti soltanto è dato far parte: intendiamo l’umanista bolognese Filippo Beroaldo (1472-1518) il quale, dopo aver dato prova del suo valore nell’università della città natale, fu chiamato a Roma, dove occupò una cattedra in attesa di succedere poi a Inghirami nelle funzioni di bibliotecario pontificio. Questo colto commentatore di Tacito, ben introdotto non solo nei circoli culturali e nella buona società romana, ma anche nel mondo delle cortigiane; questo poeta apprezzato per i suoi versi latini, e in particolare per gli epigrammi in cui immortala le tante dame galanti che frequenta, da Albina a Faustina a Prudenza, a quanto pare faticò un poco a farsi ammettere nella cerchia di Imperia. Alcuni suoi Carmina evocano, con un certo humour peraltro, i suoi tentativi e le sue trame: ora prega un amico altolocato, Giulio de’ Medici, l’allora priore di Capua e futuro Clemente VII, di invitare Imperia, con una piccola compagnia di persone allegre, a una festa, ora schernisce benevolmente un compagno di sventura troppo grasso per piacere alla bella, o ironicamente si impietosisce della propria magrezza, evocando le malizie della Dama e i misfatti dell’amore. Alla fine la sua tenacia viene ricompensata e, grazie ai buoni uffici di un amico più fortunato, ottiene il tanto atteso invito. Ma, oh disdetta!, emicrania e mal di stomaco provocati dalle troppe cipolle ingurgitate, lo costringono a restarsene chiuso in casa e a rimandare il tanto desiderato incontro con la Divina. Finalmente ha la gioia di parlarle e si affretta allora a trascrivere il loro primo dialogo in un poema che è nel contempo un prezioso catalogo degli adoratori della cortigiana:
BEROALDO Finalmente, o Imperia, vieni a me, dopo tante promesse e tanto tormentoso ritardo? Quanto non ho dubitato della tua parola, pensando che saresti stata sempre eguale a te stessa!
IMPERIA E ben lo avresti meritato per i ridicoli doni che mi hai inviato a Natale: noci sciroppate, frutta dozzinali e, se ben ricordo, un fiaschetto di vino.
BEROALDO Non misurare da ciò il mio amore: tali scherzevoli doni, lo sai, sono d’uso a Natale; del resto non vedo che altri ti regalino monti d’oro.
IMPERIA E donde mi vengono questa maniche di velluto e questo anello? Dalla gravità del tuo Sadoleto; Fedra mi ha regalato questo abito moresco; Capella queste pantofole dorate.
BEROALDO Che mai mi vai facendo? È nota a tutti la saldezza di quegli animi...
IMPERIA O che saporose ventresche della Campania mi ha inviato Porzio! O che balani dell’India mi ha regalato Lelio! Questa Diana d’argento è dono di Fausto (Evangelista Maddaleni Capodiferro); questa Venere d’oro è dono di Colocci.
BEROALDO Bene, bene: anche l’astuto cacciatore, quando non ha fatto preda, si pavoneggia di uccelli comperati; ma sia pure vero che altri ti abbiano dato tante belle cose; io ti ho dato assai più, perché ti ho dato me stesso.1
Tuttavia, più che agli umanisti utili alla sua fama ma spesso non molto agiati, è ad altri più fortunati che Imperia deve le immense ricchezze che accumula nel momento della sua massima gloria; a gentiluomini, a banchieri e ad altri ancora, a credere a un poema composto da Ciciliano subito dopo la sua morte, in cui egli fa dire alla donna:
De’ Cardinali n’ebbi numero assai,
Presi da me col ventibondo velo,
Et tal ci fu che nol crederesti mai.
Non è di tante stelle adorno il cielo,
A quanti Prelati, Vescovi et Mercanti
Feci d’oro costar ogni mio pelo,
Marchesi, Duchi, Ambasciatori tanti...2
Grandezze e miserie
Nella fitta schiera degli ammiratori di Imperia, due nomi spiccano sopra tutti: Angelo Del Bufalo, un gentiluomo romano sposato alla sorella di un futuro cardinale, e quello di un ricchissimo banchiere di origine senese, Agostino Chigi. Il primo, non baciato dalla fortuna, come peraltro la maggior parte dei patrizi romani dell’epoca, non ha avuto la possibilità di offrire alla bella cortigiana la sontuosa dimora in cui vive circondata da parecchi servitori, ma è stato follemente amato di un amore che, secondo le testimonianze contemporanee, è stata la causa principale se non unica del suicidio di Imperia. Da parte sua Angelo Del Bufalo, probabilmente orgoglioso dell’amore di una donna tanto desiderata, si preoccupava ben poco di compromettere per lei posizione e famiglia. Il che spiega tuttavia come mai alla fine dovette cedere – e forse offrire – il posto a un protettore di cui molte cortigiane indubbiamente ambivano i favori.
In effetti Agostino Chigi era uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Si dice che Alessandro VI già gli dovesse 20.000 ducati, e che in seguito ne prestò 40.000 a Giulio II e poco meno di 100.000 a Leone X, per non parlare dei prestiti meno cospicui che faceva a cardinali e alti prelati, sì da consolidare il proprio potere a tutti i livelli della vita romana. I papi devono per contraccambiare concedere privilegi inauditi a questo magnate della banca che, si dice, finì con l’avere al suo servizio fino a 20.000 persone e nel 1520 morì padrone di una fortuna valutata intorno agli 800.000 ducati. Chigi mostra una certa tendenza al mecenatismo: offre feste sontuose, elargisce a piene mani ad artisti e uomini di lettere, apre perfino una tipografia. Senza alcun dubbio, a lui soprattutto Imperia deve la sua fortuna, senza voler con questo sottovalutare tutto quanto le viene da una clientela scelta con la massima cura. Già prima di conoscere il Chigi a Imperia non erano mancati i buoni insegnamenti impartiti dalla madre e dal patrigno, i quali insieme proprio negli anni tra il 1505 e il 1507 avevano firmato un’enfiteusi. Nel 1511 la cortigiana stipula un vantaggioso contratto con un gentiluomo senese per la costruzione di una casa, e pressappoco nella stessa epoc...