La vita quotidiana delle donne nella Francia di Luigi XIV
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La vita quotidiana delle donne nella Francia di Luigi XIV

  1. 384 pagine
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La vita quotidiana delle donne nella Francia di Luigi XIV

Informazioni su questo libro

Nel 1675 per le sarte di Parigi era illegale confezionare un vestito femminile completo: l'abito di una donna era una scelta riservata ai soli sarti uomini. Sotto il regno del Re Sole, le donne adulte avevano appena i diritti di un minore: crescevano analfabete e andavano in spose al miglior offerente, vendute dal padre al marito, e il resto della loro vita domestica era destinato alle gravidanze. Quando le percosse, le ingiustizie e gli abusi le portavano alla pazzia o alla ribellione, allora venivano processate e condannate come streghe. Eppure è proprio durante il XVII secolo che la condizione della donna comincia a cambiare. Dalle piccole iniziative, come le scuole dove le bambine imparavano finalmente a leggere, o nella nascente società borghese, in quei salotti e ricevimenti che portavano una ventata di rinnovamento. Claude Dulong ci porta sui primi passi della parità di genere, raccontando le vittime di una società chiusa e patriarcale, ma anche le lotte e i progressi, e ci presenta una galleria di donne che hanno saputo scavalcare con determinazione i limiti di una quotidianità imposta dagli uomini: dall'attrice vagabonda che incantò Molière, alla donna di lettere che regalò i libri a Voltaire, fino alle scelte fondamentali di una reggente come Anna d'Austria, la vera regina sole di un'epoca non poi tanto luminosa.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
Print ISBN
9788817165662

V

Come si diventa una donna celebre

Marquise

Molière, Corneille, Racine: una donna ha potuto annoverare questi tre nomi tra le sue conquiste. Questa donna è la Du Parc.
Essa era nata intorno al 1634 da una coppia di ticinesi che era andata a cercar fortuna a Lione. Il padre, Jacomo de Gorla, si fregiava del titolo di «primo operatore del re», e non era altro che uno di quei ciarlatani che spacciavano sulle piazze le loro droghe e le loro frottole. Egli aveva impiantato la sua baracca in place des Jacobins. Marquise Thérèse de Gorle (questi erano i suoi nomi) era abituata quindi, fin dall’infanzia, a esibirsi sulle piazze. Ne conserva un’agilità quasi acrobatica; le sue «capriole» scoprivano gambe perfette, il cui ricordo sarebbe rimasto impresso a lungo nei contemporanei.
Non c’è da meravigliarsi se in una giornata d’inverno del 1652 un giovane attore, scorgendo tra le nebbie di Lione quest’apparizione radiosa, se ne fosse pazzamente innamorato. Era René Berthelot, detto Du Parc; apparteneva a una compagnia itinerante, quella di un autore-attore di nome Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière. Non si sa che cosa, in Du Parc, avesse potuto affascinare Marquise. Egli non aveva la figura di un Céladon; era quello che si dice un ciccione, e per le rotondità di cui si serviva tanto comicamente sulla scena si era meritato il soprannome e il personaggio di Gros-René, il Grosso Renato. Ma sopra quel corpo pesante c’era un viso aperto, avvenente, in cui due begli occhi neri scintillavano di allegria. E poi, Du Parc era un attore, un vero attore, e sposarlo era una autentica promozione sociale, per una giovane che, fino a quel momento, aveva conosciuto soltanto il pubblico delle fiere!
La stesura del contratto avvenne nel febbraio del 1653. Du Parc s’impegnava a «illeggiadrire con abiti buoni, anelli e gioielli» la sua futura sposa, e a costituirle una «sopraddote di 2000 lire, nel caso che gli fosse sopravvissuta». Marquise portava 3000 lire, il vestito e la gonna nuziale; ma era stato Du Parc a procurare ai de Gorle, con delicatezza e generosità, i mezzi per provvedere a questa dote. Un marito innamorato, finalmente!... Si noti che Marquise sapeva scrivere, e firmò il contratto; ma sua madre se ne dispensò, non essendone capace.
Il matrimonio fu celebrato qualche giorno dopo, in presenza della compagnia, della quale la nuova Madame Du Parc diventava, da quel momento, parte integrante. Nel XVII secolo gli attori lavoravano spesso in coppia, anche se poi il meno dotato dei due finiva per recitare soltanto particine, o a occuparsi soltanto... degli accessori. Ma Marquise sarebbe stata utilizzata meglio. Con la sua bellezza, la sua grazia e la sua abitudine alle scene, non era una recluta trascurabile. Del resto, il mestiere si imparava lavorando. Non esistevano scuole di arte drammatica: lo stesso Molière, al tempo dei suoi esordi, non era stato forse il compare di un giocoliere del Pont-Neuf, che gli faceva inghiottire droghe, e, si dice, delle vipere? E non aveva appena accolto nella sua compagnia un pasticciere, Ragueneau, un tempo famoso, ma che, rovinato, aveva dovuto lasciare Parigi con moglie e figli? Da principio adibito a spegnere le candele; Ragueneau era poi entrato a far parte del «coro del popolo» nell’Andromeda di Corneille. Una piccolissima promozione, tuttavia soddisfacente per un uomo che si era rovinato per dar da mangiare ai poeti!
Qualche mese dopo il suo matrimonio col Gros-René, Marquise avrebbe dato un esempio dei servizi che poteva rendere alla compagnia, e si sarebbe guadagnata i galloni, se non di attrice, almeno di bella donna. Fu a Pézenas, dove si tenevano gli Stati di Linguadoca. Il governatore della Linguadoca altri non era che il principe di Conti, fratello del Grand Condé; durante gli Stati, egli soggiornava nel suo castello della Grange-aux-Prés, nelle vicinanze di Pézenas. Non essendo ancora diventato un devoto, egli aveva un’amante, Madame de Calvimont, e Madame de Calvimont, che forse gli ardori, se pur principeschi, di un giovanotto deforme e alquanto brutto non bastavano a distrarre, si annoiava. Essa pretese quindi una compagnia di attori. Si mandò a chiamare Molière, che si trovava nella regione. Egli venne, ma non abbastanza presto per evitare di essere preceduto da un’altra compagnia. Gli fu concesso, tuttavia, di recitare una volta nel castello. Ma questo non sistemò le cose, perché Madame de Calvimont, che era decisamente una sciocca, l’aveva giudicato deludente. I nostri attori, quindi, sarebbero stati costretti a lasciare quella piacevole oasi per rimettersi in cammino, se non fosse stato per Marquise, o più esattamente per la bellezza di Marquise. Essa aveva talmente affascinato un servitore del principe, il poeta Sarasin, che questi ordì un abile intrigo di corte per far dare la preferenza alla compagnia di Molière. Osserviamo che probabilmente la pena che Sarasin si era dato non gli servì a niente: Marquise, sposa fedele, era incinta del marito. Ma l’importante è che Molière e i suoi colleghi ottennero, per un certo tempo, la protezione di un principe del sangue.
Dal 1654 al 1658 i «commedianti di Monsignore il principe di Conti», come si chiamavano allora, circolano tra il Mezzogiorno e la regione lionese. Se nel XVII secolo vi fu qualche spazio di libertà per le donne, certo uno di questi fu l’esistenza itinerante degli attori. Sicuramente, il disagio era estremo, e si può rileggere con malinconico divertimento il passo che Scarron, in Le Roman comique, ha dedicato all’arrivo di un carrozzone di attori di campagna nella città di Mans:
Il carro era trainato da quattro buoi assai magri, guidati da una giumenta, il cui puledro andava e veniva intorno al carro, da quel pazzerello che era. Il carro era pieno di casse, di bauli e di grossi pacchi di fondali di tela dipinta, che formavano una specie di piramide sulla cui sommità compariva una ragazza vestita metà alla cittadina, metà alla campagnola. Un giovanotto, tanto misero nel vestiario quanto ricco nel portamento, camminava a fianco del carro. Sul viso aveva un grosso impiastro, che gli copriva un occhio e metà di una guancia, e portava sulla spalla un gran fucile, con il quale aveva assassinato parecchie gazze, ghiandaie e cornacchie, che formavano una specie di bandoliera, in fondo a cui penzolavano, appesi per i piedi, una gallina e un papero, che avevano proprio l’aria di essere stati presi in una razzia.
Il terzo compagno, un vecchio, non ha un aspetto migliore, vestito com’è anche lui, in parte, con orpelli di scena: farsetto logoro, turbante variopinto, brache e scarponi «all’antica», rovinati dal fango. La marmaglia, ben lieta del divertimento, fa chiassosamente da scorta a questo misero carro di Tespi; i buoni borghesi si commuovono, e la polizia, nella persona di un tenente, si presenta per indagare sull’identità degli sconosciuti:
Il giovanotto prese la parola e, senza portare le mani al turbante, perché con una teneva il fucile e con l’altra il fodero della sua spada, per timore che gli sbattesse tra le gambe, gli disse che erano francesi di nascita, e attori di professione; e che il suo nome di teatro era Le Destin, quello del suo vecchio collega La Rancune, e quello della ragazza appollaiata come una gallina in cima al bagaglio, La Caverne.1
Al che, naturalmente, la folla scoppia dalle risa. Un oste di buon cuore, appassionato (indicazione interessante) di romanzi e di commedie, finisce per offrire alloggio e cibo ai tre attori, in cambio di una rappresentazione nella sua taverna.
Teniamo conto che si tratta di una satira, e ricordiamo che la compagnia di Molière, più solida e comprendente attori esperti, quali la Béjart, negli anni 1650 non presentava un aspetto così famelico; e le sue ristrettezze di denaro non dovevano essere croniche, se Du Parc aveva potuto disporre di 3000 lire per la dote di Marquise. Ma comunque bisogna sapere che la futura interprete dell’Andromaca ha condotto, per cinque anni della sua vita, l’esistenza dei saltimbanchi; che, «appollaiata come una gallina» sui bagagli e sugli accessori, ha sopportato, essendo spesso incinta, la fatica di quei tragitti su un carro, o in un barcone su un fiume; che nelle soste in pessimi alberghi, ha subito i ridicoli complimenti degli sdolcinati di provincia, o le libertà che si prendevano i patineurs (erano chiamati così quelli che non si contentavano dei complimenti). Bisogna sapere anche che la mentalità sospettosa delle autorità civili o religiose l’ha talvolta cacciata, insieme con i suoi compagni, da un riparo appena raggiunto; che le pretese delle stesse autorità (riduzione d’autorità del prezzo dei biglietti, rappresentazioni gratuite per i poveri degli ospedali) hanno altre volte ridotto l’incasso, e di conseguenza il suo guadagno, a zero. Bisogna sapere che ha recitato sulle pubbliche piazze, in granai, in taverne, nel migliore dei casi su campi da gioco, perché in provincia non esistevano veri e propri teatri. Quanto al pubblico, come poteva essere meno grossolano e indisciplinato di quello di Parigi, che, perfino nelle sale «ufficiali», orinava, sputava, era pronto a tirar fuori la spada? Certuni arrivavano con il loro cane, il cane saltava sulla scena, impauriva gli attori, interrompendo la rappresentazione, tra le sghignazzate e gli incoraggiamenti della platea. Questi spettatori dalla platea, tanto, più impazienti in quanto stavano in piedi, rifiutavano decisamente di ascoltare quello che a loro non piaceva, e, se gli attori non si sbrigavano a ubbidire alle loro ingiunzioni, si mettevano a fischiare, a urlare e a bombardarli con tutto quello che avevano a portata di mano. Se invece una scena li divertiva, pretendevano che gli attori la ripetessero una volta, due volte, tre volte, fino all’esaurimento. I palchi – quando esistevano palchi – erano frequentati meglio, ma, proprio per questo motivo, oggetto di una tale richiesta, che si arrivava al punto di infilzarsi con le spade o di massacrare il portiere per avervi accesso; eppure certi spettatori, una volta ottenuto un palco, si occupavano soltanto di far conversazione o di corteggiare le signore. Corteggiare è un eufemismo: nell’oscurità propizia, tutto poteva capitare, e in effetti capitava.
Sì, Marquise visse tutto questo. Ma d’altra parte, quante soddisfazioni! Prima di tutto se, in quanto donna, l’attrice non ha diritti maggiori di quelli delle altre donne, la sua professione gliene conferisce alcuni molto preziosi. Poiché le compagnie sono società, essa è membro di tale società, e vota, come i suoi colleghi uomini, per decidere la scelta delle commedie e la scelta delle piazze, e si vede assegnare una «parte» sull’incasso, che è dovuta unicamente al suo talento. E poi, quanti orizzonti nuovi, quanti incontri, che sono tutti un arricchimento per lo spirito! A Pézenas, in casa del principe di Conti, Marquise non ha conosciuto solamente Sarasin, ma molti altri uomini di lettere tra i quali Guilleragues, il futuro autore delle Lettres portugaises; sulle strade del Mezzogiorno, la compagnia ha raccolto e tenuto con sé, per un certo periodo, il poeta e musicista Dassoucy; ad Avignone ha preso alloggio presso il pittore Nicolas Mignard, fratello di un altro pittore che stava per diventare famoso, Pierre Mignard, che appena ritornato dall’Italia, ne sa descrivere le bellezze. Senza contare che il gran mondo stesso non sempre tratta gli attori come saltimbanchi. I padrini del terzo figlio di Marquise saranno François de Rebé, arcidiacono di Lione, e Catherine de Neuville, figlia di un maresciallo di Francia, governatore della città. Il XVII secolo ha assistito a una vera, anche se timida, promozione sociale delle attrici; prima di tutto perché, nei secoli precedenti, le parti femminili erano recitate da uomini; ma anche perché il teatro, in sé, è diventato, nonostante le pessime maniere di spettatori neofiti, un divertimento di qualità e di grande successo, grazie alla fioritura di autori drammatici dagli anni 1620 ai 1650. Abbiamo già visto che nel 1641 Luigi XIII, per suggerimento di Richelieu, aveva proibito agli attori di pronunciare o rappresentare volgarità sulla scena; ma va ricordato che questo rigore era la contropartita del diritto, finalmente riconosciuto, di esercitare la professione senza pregiudizio; una professione che, aggiungeva il re, «può innocentemente divertire il nostro popolo, distogliendolo dalle cattive occupazioni». Del resto, quando il cardinale ministro in persona faceva rappresentare commedie nel suo palazzo e scriveva tragedie, quando la regina Anna d’Austria dava un titolo di nobiltà all’autore del Cid, proprio per il Cid, i rigoristi del clero avevano un bel lanciare i loro fulmini: non avevano alcuna possibilità di metter fine all’infatuazione generale, né di ricondurre gli attori e le attrici, d’altronde quasi tutti cattolici praticanti, al rango di reprobi. Il fatto che l’arcidiacono di Lione, ossia il delegato dell’arcivescovo, abbia tenuto a battesimo un figlio della coppia Du Parc riflette questa evoluzione.
Ma, naturalmente, il massimo profitto che Marquise trasse da questi anni errabondi è di carattere professionale. Nell’ascoltare Molière, regista preciso, minuzioso e innovatore, nell’osservare la de Brie e soprattutto la Béjart, che passava con disinvoltura dalle parti comiche a quelle tragiche, e interpretando essa stessa, in condizioni tanto difficili, piccole parti ma vere parti, in vere commedie, Marquise ha imparato il suo mestiere, e presto potrà essere la Caterina delle Preziose ridicole, prima di essere l’Elvira del Don Giovanni.
In breve, quella che arriva a Rouen nella primavera del 1658 non è più una principiante. È una donna che può dirsi attrice, che conosce gli usi del mondo, e della cui bellezza già si comincia a parlare.
Come possiamo immaginarci questa bellezza? Tutti gli ammiratori di Marquise si trovano d’accordo nell’attribuirle una figura stupenda, una carnagione di giglio, un timbro di voce incantevole e quel certo non so che che fa battere i cuori. Ma è curioso che questa seducente creatura, la quale sulla scena continuava a darsi a esibizioni in cui scopriva le gambe e talvolta anche le cosce («per mezzo di una sottana con uno spacco dalle due parti, con calze di seta attaccate, in alto, a un paio di mutandine»), sia potuta passare, agli occhi di certuni, per una bellezza fredda e compassata. Forse perché si prendeva troppa cura di questa bellezza, e si preoccupava più di suscitare amore che di innamorarsi? Marquise era coquette nel doppio significato della parola:2 nell’Improvvisata di Versailles rimprovererà a Molière di darle delle parti da «smorfiosa». E poi, Marquise aveva un «portamento da imperatrice» e un volto regolare, un po’ romano, da tragica.
Questo non sfuggi a Pierre Corneille. Ma chi era Pierre Corneille, in quell’anno 1658?
All’età di cinquantadue anni, sposato da diciotto, padre di sette figli, e fabbriciere della sua parrocchia, questo illustre cittadino di Rouen, sebbene elevato alla nobiltà, faceva la figura del perfetto borghese. Si vestiva di scuro, nascondeva la calvizie sotto uno zucchetto da ecclesiastico, e nelle q...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita quotidiana delle donne nella Francia di Luigi XIV
  4. Cronologia del Grand Siècle
  5. I. Tota mulier in utero
  6. II. Del matrimonio
  7. III. Quando compare il bambino
  8. IV. Sui benefici della mondanità
  9. V. Come si diventa una donna celebre
  10. VI. Le donne e il diavolo
  11. VII. Le donne di misericordia
  12. Bibliografia essenziale
  13. Indice