Quattro
La valigia è pronta. Si riparte. L’attore e la valigia sono come il barbiere e le forbici, come il muratore e la cucchiara, come il falegname e il martello, come il deputato e il vitalizio. La valigia sempre quasi pronta, lì in un angolo della camera da letto, a veloce portata di mano, è la costante invariabile della vita del teatro. La conquista sindacale della nostra categoria non è tanto il famigerato contratto nazionale, ma l’invenzione del trolley.
E pure la mia vita è così: sempre in giro, sempre in viaggio, sempre altrove. Un giorno un’ospitata a Milano, un altro giorno una convention in Sardegna, dopo due settimane la tournée teatrale... a volte mi chiedo se, in tutto questo andare, non si nasconda anche una fuga da me stesso.
Ma non ci voglio pensare adesso. Stavolta parto col mio amore: ce ne andiamo una settimana in vacanza a Formentera. Contrariamente a quanto si possa pensare, io di tempo per le vacanze non ne ho mai. Anzi, è proprio quando le persone si godono le ferie che sono chiamato a lavorare più del solito, per cercare di rendere quei giorni di svago più allegri. Ma questa settimana no. Questa settimana mi rilasso davvero.
«Enry, hai chiuso la tua valigia?»
È Flora, che mi parla dalla stanza-guardaroba. Il giorno della partenza è sempre così: non la vedo mai. Viene come inghiottita dall’armadio e ne riemerge ogni tanto solo per assicurarsi che io abbia fatto quello che, di solito, lei è ancora molto lontana dal fare.
«Sì, ho messo anche il lucchetto. Sono stato bravo, è entrato tutto in un trolley piccolo, di quelli da bagaglio a mano.»
«Bene! Perché io ho preso qualcosina in più...»
Okay. Comincio ad allarmarmi. Non voglio assolutamente fare il maschio vittima di luoghi comuni, ma conosco molto bene le donne e meglio di tutte conosco la mia. Quando mi parla per eufemismi, tipo «ho preso qualcosina in più», significa che delle cose dell’armadio, a casa è rimasto solo l’armadio. Un altro indizio, segno del fatto che si sente in colpa, è l’aria candida con cui fa capolino dalla porta della camera da letto, una bambina innocente che non sa come dire ai genitori che ha rotto il prezioso e insostituibile vaso cinese della dinastia Ming.
«Flo, giusto per capire... quantificheresti il “qualcosina”?»
«Ma no, niente di che! Non ho tante valigie...»
«Come sarebbe “valigie”? Al plurale?»
«Sì. Ma sono solo tre!»
«Amore, ma con tre valigie ci possiamo trasferire in Australia per cinque mesi! Non puoi fare a meno di portare tutta questa roba?»
«Eh no, Enrico, scusami. Tu sei un uomo e certe necessità non ce le hai. E poi io ho ridotto tutto proprio all’osso. Seguendo le tue istruzioni, per altro.»
«Istruzioni? Quali istruzioni?»
«Tu hai detto che a Formentera farà molto caldo, giusto?»
«Sì.»
«E allora mi sono portata quattordici abiti freschi.»
«Scusa, ma perché quattordici se stiamo solo sette giorni?»
«Mica vorrai che la sera indossi quello che porto durante il giorno? È una questione di decoro. Metti che c’è una festa... io col prendisole dove vado a fare la ridicola? Che figura ci fai?»
«Che c’entro io, scusa?»
«Stiamo insieme, no? Lo faccio per la tua immagine.»
«Sì, certo, infatti lo immagino. Ma io vorrei capire come sei arrivata a tre valigie. Di certo non con quattordici vestiti...»
«Guarda, non riesco a capirlo neanche io. Non me lo spiego proprio.»
«Vabbe’, che altro avresti preso?»
«Intanto, con quattordici vestiti bisogna portare almeno sette paia di scarpe.»
«Sette paia? Io non so neanche se tutte le scarpe estive che ho arrivano a essere sette paia!»
«Amore, sii ragionevole! Le devo abbinare! Poi ho portato i costumi. Non starai a sindacare pure sui costumi, vero?»
«No. In effetti quelli sono indispensabili.»
«Ovviamente, ho dovuto abbinarci sedici copricostumi...»
«Cert... quanti? Sedici copricostumi? Quindi devo supporre che ti sei portata anche sedici costumi?»
«Ma noooo! Di costumi ne ho portati ventidue, ma i copricostumi sono meno; è che sono stata brava a ottimizzare gli abbinamenti.»
«Eh, certo! Ma che ci fai con tutti ’sti costumi?»
«Amore, guarda che se mi tuffo in mare si bagnano, eh!»
«Ho capito, ma si asciugano pure! Non è che rimangono umidi a vita...»
Anche se qui devo aprire una parentesi: in effetti l’asciugatura del costume dipende dal tessuto di cui è fatto. Io ricordo ancora con fastidio, per non dire quasi terrore, i costumini in ciniglia – ma anche quelli fatti all’uncinetto – che mia madre e le mie zie mettevano a noi bambini. Con quelli era matematico: anche ad agosto, anche aspettando svariate ore, i costumini non si asciugavano mai. Se ti sedevi nella sabbia, dopo poco facevi i fanghi; se cercavi di correre, in modo tale che il vento aiutasse il processo di asciugatura, ottenevi come risultato che ti si gelavano e irritavano le parti basse, per colpa dei refoli d’aria calda misti a umidità e salsedine. Non c’era verso: arrivava l’ora di andare a casa e il costume era ancora bagnato. A mio cugino vennero i reumatismi agli zebedei a sette anni, a causa di questi costumini! Ma scusate la digressione.
Eravamo a Flora e alla pletora di cianfrusaglie e abiti che ha ficcato in valigia.
«Amore, lo sai che quando faccio le valigie io penso a tutto. Proprio per questo, dopo aver preso solo queste cose leggere mi sono detta: e se poi la sera fa fresco? E se piove? In un posto di mare può succedere! Si sa che alle Tremiti il tempo è imprevedibile...»
«Veramente sono le Baleari e il meteo dà un mese di siccità.»
«Mamma mia, come sei fiscale! E poi tanto si sa che il meteo non ci azzecca mai! E, proprio perché non mi fido, ho preso anche sei maglioncini di cotone, quattro golfini di lana, due giacche di pelle, otto paia di occhiali da sole, nove cappelli, quindici pashmine, due sciarpe, tre paia di guanti e gli stivali Ugg. Fin qui, l’occorrente per vestirmi.»
«Vuoi dire che c’è altro?»
«Be’... scusami, ma shampoo, balsamo, bagnoschiuma...»
«Ma quelli li troviamo in albergo, Flo!»
«Io voglio i miei. Se poi in hotel non hanno quelli a base di argan come faccio? Non se ne parla proprio. Ho portato anche la piastra e l’arricciacapelli; ovviamente ho dovuto prendere la lozione preparatoria al sole, quella abbronzante e la lozione doposole. Ho portato anche lo spray per capelli che protegge dai raggi UVA, lo struccante per gli occhi, il latte detergente e quindi il tonico, il deodorante, il profumo, la limetta per le unghie...»
Le mie orecchie ormai sanguinano. Tutto quello che riesco a sentire sono solo suoni indistinti... dei bip, come quando la cassiera, al supermercato, a Natale, passa una quantità immane di prodotti sopra il visore che legge i codici a barre...
«Basta. Ti prego. Non voglio sapere che altro ti sei portata. Vorrei solo sapere se puoi privarti di qualcosa, in modo da non dover partire con una carovana di bagagli.»
«Eh no, amore. Non posso proprio lasciare niente, mi serve tutto.»
«Flo, dài... non è possibile!»
«Uh! Aspetta. Hai ragione.»
«Lo vedi?»
«Ecco, questo posso lasciarlo. Ormai l’animalier non va più di moda.»
E mi porge una fascia per capelli maculata. Peso quarantatré grammi; diametro otto centimetri. La guardo, poi guardo la mia compagna. Mi arrendo: ha vinto lei. Si parte con tre valigioni che, se li legassi insieme, diventerebbero una zattera e a Formentera ci arriverei via mare. E alla fine, il mio minuscolo trolley, piccolo e poco versatile com’è, si rivelerebbe come l’unica zavorra durante la navigazione.
A parte queste piccole scaramucce, che mi fanno toccare con mano quanto l’uomo e la donna vengano da pianeti... anzi, da universi differenti, la settimana a Formentera è stata un sogno. Spiagge bellissime, sole, mare, giri in barca, amore, belle grigliate di pesce, pisolini sulla spiaggia e di nuovo amore.
Ovviamente Flora ha utilizzato un decimo di ciò che si era portata, tanto che a un certo punto ha indossato più cose insieme, uno strato sopra l’altro, per non darmela vinta e non sentirsi dire: «Te l’avevo detto che era troppa roba!».
«Ho messo tutto, hai visto?» E, a guardarla così, con gli Ugg ai piedi, la doppia maglietta e i guanti mentre fuori ci sono trentasei gradi, ho un moto di tenerezza nei suoi confronti e un’irrefrenabile voglia di abbracciarla, in questa calda notte spagnola.
Restiamo così, stretti sulla veranda del nostro bungalow, mentre una leggera brezza si alza intorno a noi, la luna piena fa da complice romantica e, dal mare, arriva lo sciabordio delle onde che ci culla e ci invita all’amore.
La parentesi formenteresca... formenteranica... formenterese... vabbe’, la settimana di vacanza è finita troppo presto. Il lavoro è già ricominciato ed è circa un mese che casa la vedo solo in cartolina. Ma finalmente oggi, 24 giugno 2016, dormirò nel mio letto.
Tornare a casa dopo tanto tempo regala una sensazione di sollievo e di protezione: come se fra quelle quattro mura, così uguali a tutte le altre mura di tutti i palazzi del mondo eppure così uniche perché sono le tue... vabbe’, le tue... molto spesso sono della banca, diciamo che per ora hai pagato una decina di mattoni... be’, dicevo, tra quelle quattro mura ti sembra di poter essere davvero te stesso.
Io in albergo mi formalizzo... sto attento a tutto, in camera, anche quando sono da solo... mi rifaccio pure il letto, per non sfigurare con le signore delle pulizie. A casa invece mi rilasso davvero, spesso giro come uno zombie, spettinato, in mutande, con la barba incolta. Non sembro neanche io. Certe volte grugnisco pure. Lo devo fare, così almeno Flora mi riconosce dalla voce!
Comunque, ho appena richiuso la porta d’ingresso e sto ancora sognando il momento in cui mi divanerò per rialzarmi solo in caso di necessità fisiologiche, quando Flora mi viene incontro. Ha uno sguardo strano, gli occhi le brillano. «Sarà mai stata così bella?» mi chiedo mentre la saluto.
Lei timidamente mi porge un pacchettino regalo: che tesoro che è! Ha pensato di accogliermi con un pensierino! La carta che lo avvolge mi sembra già un indizio inequivocabile: tanti furgoncini anni Sessanta fumettosi, perché lei sa che ho la passione dei veicoli vintage in generale, dei furgoncini in particolare.
Scarto il pacchetto stando attento a non stracciare la carta. Flora mi sembra impaziente. Strano. Mi ritrovo tra le mani una scatola grande quanto uno smartphone, ma più spessa. Apro e... dentro ci sono, adagiate su una nuvola di tulle, due scarpine minuscole, di lana. Da bambini. Anzi, meglio: da neonati. Che c’entrano con i furgoncini?
Preso alla sprovvista, impulsivamente le chiedo: «Belle! Sono dei portachiavi?».
E lei, pronta: «Al massimo, portapiedi!».
«Eh, ma dove li trovi dei piedi così picc...»
Scemo. Sono proprio scemo. Era una cosa ovvia fin dall’inizio, ma evidentemente il mio cervello non voleva illudersi prima di avere la certezza che quelle scarpine significassero quello che non osavo neanche sperare.
«Amore... ma siamo incinti?»
«Tu non lo so, ma io sì.»
Mi rendo conto che è lo stesso momento e la stessa gioia per tutti i padri di questo mondo fin dall’inizio del mondo, ma questo era il mio momento e la mia gioia e ve la racconto come se fossi stato il primo, l’unico e il solo a viverla. Il cuore mi è sembrato uscire dal petto e diventare gigantesco, tanto da contenere tutto l’universo... mi sarei messo a saltare, e forse l’ho fatto. Mi sarei messo a urlare, e forse ho fatto pure quello. Avrei imitato il duck step di Chuck Berry. Anzi, questo temo proprio di averlo fatto, suonando una chitarra che vedevo solo io e il cui suono mi pareva celestiale. È stato solo sull’acuto, quando mi sono ritrovato in ginocchio sul pavimento, a occhi chiusi, con la fantasmatica Gibson tra le mani, che mi sono reso conto che Flora era ancora lì che mi osservava, in piedi. Avvertivo la sua presenza, ma avevo quasi paura ad aprire gli occhi nel timore di poter leggere sul suo volto un ripensamento, o peggio, un pentimento, tipo: «Ma io sono sicura di volere proprio questo tizio qui come padre di mio figlio?». Non potevo certo restare con gli occhi chiusi; la paura di aprirli però permaneva.
Allora, ho optato per la via di mezzo: ho aperto un occhio solo, sicuro di vederla già pronta a lasciarmi, con la valigia in mano. Flora ...