Piccoli bulli e cyberbulli crescono
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Piccoli bulli e cyberbulli crescono

Come impedire che la violenza rovini la vita ai nostri figli

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Piccoli bulli e cyberbulli crescono

Come impedire che la violenza rovini la vita ai nostri figli

Informazioni su questo libro

Minacce e pestaggi dentro e fuori dalle scuole. Violenze fisiche e psicologiche protratte per mesi o anni. E, sempre più spesso, persecuzioni "virtuali" con conseguenze tragicamente reali. Nelle sue molteplici forme, il bullismo è una delle costanti preoccupazioni di genitori e insegnanti, alla ricerca di soluzioni per un fenomeno che continua ad avere un impatto devastante sulla crescita di molti ragazzi e ragazze. Da sempre attenta e sensibile studiosa del tema, in questo libro - appositamente rivisto e aggiornato con un nuovo capitolo dedicato al cyberbullismo - Anna Oliverio Ferraris esamina il bullismo giovanile in tutti i suoi aspetti: origini e cause delle violenze, dinamiche individuali e di gruppo, reazioni e sentimenti di aggressori e vittime, pericoli e trappole on line, interventi e misure di prevenzione. Spiegando come interpretare i messaggi nascosti dietro i comportamenti dei nostri figli, Oliverio Ferraris ci aiuta ad affrontare i casi di violenza e aggressività in cui bambini e adolescenti possono trovarsi coinvolti. Per capire e trovare soluzioni, per imparare a farsi ascoltare e intervenire nel modo più efficace.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
eBook ISBN
9788858688786

Seconda parte

PREVENZIONE E INTERVENTI

L’uomo è un animale sociale, osservava Aristotele, e così come è in grado di essere distruttivo, allo stesso modo è anche capace di collaborazione, altruismo, amicizia. Si tratta dunque di favorire le situazioni che agevolano l’emergere di comportamenti collaborativi stabili e costruttivi. Dai numerosi studi, nazionali e internazionali, e anche dalle numerosissime esperienze condotte in diversi Paesi, oggi noi sappiamo quali sono gli interventi che possono funzionare e quali invece quelli che risultano insoddisfacenti. Metterli in pratica può essere difficile qualche volta, ma disporre di una bussola consente di orientarsi più facilmente.
La famiglia è l’ambiente di vita in cui i bambini fanno i primi fondamentali apprendimenti. Qualunque sia la sua struttura, la famiglia dovrebbe essere in grado di accogliere un bambino e di prepararlo a vivere sia tra le mura domestiche sia al di fuori, anche tra persone diverse dai propri familiari. Una madre amorevole, che sa trasmettere ai figli il rispetto di sé e dell’altro, può contrastare gli influssi negativi delle cattive compagnie. Un padre presente nella vita dei figli può rappresentare un modello di riferimento più forte di altri modelli, attraenti ma inconsistenti, oppure pericolosi. Un genitore «sufficientemente buono» (non perfetto!) riesce a insegnare ai figli come gestire l’aggressività, quale indirizzo imprimerle, verso quali obiettivi costruttivi rivolgere le proprie energie vitali.
La scuola è l’altro polo educativo fondamentale. È il ponte che collega la famiglia con la società. Il suo primo compito, oggi, è trovare il modo di indurre negli alunni un sentimento di appartenenza. Se i ragazzi vivono la scuola come un luogo «loro», diventa più facile per gli insegnanti dare quella formazione di base che contribuisce allo sviluppo della personalità. Si va a scuola non solo per studiare, per ampliare orizzonti e saperi, ma anche per confrontarsi con gli altri, farsi degli amici, riflettere sui problemi che si incontrano, assimilare norme di comportamento, imparare a relazionarsi con persone diverse, coetanei e adulti. È bene che questa opportunità non venga sprecata. Ci sono ragazzi per cui la scuola è soltanto un luogo di passaggio da lasciare alle spalle il più presto possibile, quando invece potrebbero farvi apprendimenti ed esperienze importanti per la vita.

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LA PREVENZIONE INIZIA IN FAMIGLIA

Nessuna famiglia è perfetta, alcune però riescono a creare danni che potrebbero essere evitati anche in situazioni difficili. Per esempio, crescere in un quartiere malavitoso è, per riconoscimento unanime, un fattore di rischio elevato per i figli, che corrono il pericolo di essere risucchiati dalla mentalità dominante; se però la famiglia è unita e intollerante nei confronti della devianza, il rischio si riduce notevolmente.
Un altro fattore di rischio per un bambino è l’iperattività (si muove continuamente, è troppo impulsivo, fastidioso, irritante...) che porta facilmente a insuccessi scolatici e a essere emarginati dai coetanei. Può però essere diagnosticata, monitorata e ridotta (per esempio al bambino viene insegnato a fermarsi e a riflettere prima di agire).
Secondo statistiche internazionali, divorzio, separazioni, famiglie in cui uno dei genitori vive con un altro partner prima che i figli abbiano sedici anni sono condizioni a «rischio lieve» per i figli; povertà, genitori criminali, cattivi rapporti con i genitori, mancanza di supervisione nell’adolescenza sono condizioni a «rischio medio»; violenza domestica, trascuratezza, abusi sessuali, mancanza di supervisione nell’infanzia, gravi perdite o separazioni sono condizioni a «rischio elevato».
I rapporti tra fratelli rappresentano un altro fattore che può avere un ruolo rilevante nel bullismo. Bambini bulli con i compagni di scuola possono essere vittime dei fratelli maggiori dentro casa; ma può anche verificarsi il contrario, ossia che le vittime fuori casa siano vittime anche in famiglia, nel senso che si sono attestate in questo ruolo per loro consueto o senza via d’uscita.
I bambini e i ragazzi possiedono la capacità di reagire alle avversità. Quando però nella loro vita sono presenti contemporaneamente più fattori tra quelli appena elencati si crea una condizione esplosiva. Bisogna allora cercare di ridurli e mettere in campo degli antidoti: per esempio, è importante che nella vita del ragazzo ci sia almeno un adulto capace di trasmettere fiducia, sicurezza, calore, valori e di svolgere un’azione di controllo.
Ogni volta che si riesce a eliminare un fattore di rischio dalla vita di un bambino, le probabilità che egli riesca a tenersi in rotta aumentano. A volte ci riesce la famiglia, altre volte la scuola, altre volte è la comunità a dover subentrare e non solo per motivi umanitari ma anche utilitaristici: l’infelicità e la sofferenza nell’infanzia creano risentimenti, rancore e intensi desideri di rivalsa che possono ritorcersi contro la stessa comunità.
Iniziare bene
Un buon inizio è un fattore protettivo importante. Per sentirsi sicuri i neonati hanno bisogno di essere accuditi, rassicurati, amati e soprattutto, secondo un’espressione felice di Donald Winnicott, di sentire che la mamma li pensa. Nel rapporto col mondo sono vulnerabili, l’affetto delle persone da cui dipendono li rende invulnerabili.
Il legame di attaccamento nei primi mesi e anni di vita (i bambini possono «attaccarsi» a varie persone) è una necessità. Per sopravvivere, un neonato ha bisogno che ci sia almeno un adulto che si prenda cura di lui e che svolga un’opera di mediazione tra lui e il mondo. Un genitore «sufficientemente buono» (secondo un’altra felice espressione di Winnicott) riesce a creare per il suo bambino un clima sereno e costante che trasmette fiducia e ottimismo. Tra zero e tre anni i bambini incominciano a formarsi un primo «concetto di sé»: una sorta di immagine di se stessi nel mondo e in rapporto agli altri. Se sono circondati da affetto e hanno buone relazioni si sentono sicuri e hanno un’immagine positiva di sé, in caso contrario, se per esempio vengono maltrattati, spaventati, abbandonati, possono considerarsi «cattivi» o delle nullità. Anche il temperamento ha un ruolo, ma l’atmosfera che circonda il bambino, le relazioni che egli instaura con gli «altri significativi» hanno un peso non trascurabile.
Quando un bambino è tranquillo e fiducioso è più esplorativo, prende iniziative, reagisce meglio alle paure e agli stress, ha rapporti più sereni con gli altri bambini. Durante le prime competizioni con i pari, un bambino vive inevitabilmente qualche sconfitta; ma se ha delle buone relazioni con le sue figure di attaccamento e grazie a esse ha potuto introiettare (cioè fare proprio) un senso basilare di fiducia, queste contrarietà sono tollerabili; la prossima volta – pensa – avrò successo. Il sistema nervoso dei bambini che crescono tra forti tensioni invece è alterato: i circuiti cerebrali che comandano l’angoscia e la paura sono attivati in permanenza, mentre le zone da cui dipendono pensiero ed empatia non vengono stimolate. Poiché le loro risorse sono in gran parte mobilitate a fronteggiare l’incertezza e la paura, non ci sono spazi per sentirsi sicuri o rilassarsi. Tim Guénard, un ragazzo di strada che durante l’infanzia è stato selvaggiamente picchiato dal padre e abbandonato a tre anni dalla madre, scrive nel suo libro di memorie (Più forte dell’odio, 2000):
La cosa più dura, in un’infanzia ferita, è dover sembrare più grande, più forte, più maturo di quanto si è in realtà. Quando si ha solo l’età per essere bambini. Mettersi sulle spalle fragili la giacca quotidiana della violenza, quando si vorrebbe portare il mantello della tenerezza.
C’è dunque la necessità di dare ai figli quella tenerezza di cui hanno bisogno. Ma oltre all’amore-tenerezza un figlio deve incontrare anche, crescendo, l’amore-fermezza, ossia una serie di regole coerenti, adeguate all’età, e una guida. Le regole fanno sentir bene i bambini, danno sicurezza e consentono di fare delle previsioni; indicano che i genitori hanno il controllo della situazione, che sanno che cosa è bene per loro e che cosa si aspettano da loro. D’altro canto i bambini sanno di essere «piccoli», di non conoscere abbastanza il mondo e, anche se protestano, si affidano agli adulti da cui dipendono. L’amore-fermezza (che è l’opposto della durezza e dell’indifferenza) ha come obiettivo l’apprendimento graduale dell’arte di vivere, l’acquisizione di una progressiva autonomia e fiducia in se stessi.
Una questione di stile
Lo stile educativo più in voga al tempo dei bisnonni era autoritario: obbedienza senza repliche, regole indiscutibili, punizioni di vario tipo comprese quelle fisiche. La madre era generalmente meno temuta del padre cui competeva il compito di esercitare il comando e la disciplina, e tra figli e padre c’era una distanza che non prevedeva dialogo. Le famiglie che oggi adottano questo stile educativo sono assai meno numerose di un tempo e tuttavia non sempre le alternative sono soddisfacenti; quando i genitori sono troppo permissivi e cedono a qualsiasi capriccio, per esempio, viene a mancare una linea di condotta. C’è amore, magari anche dialogo, ma non vengono posti né limiti né richieste: è come se i genitori si aspettassero che i figli si educhino da soli. Manca una guida. Ognuno si regola seguendo l’umore o l’impulso del momento. Crescendo i figli possono cercare altrove ciò che non hanno trovato tra le mura domestiche.
Lo stile respingente/trascurante è quello che adottano i genitori distaccati e non coinvolti. Tengono i figli a distanza e ignorano i loro bisogni psicologici. Non li sostengono e forniscono loro pochi strumenti per comprendere il mondo e le sue regole. Di fatto sono assenti dalla vita dei figli. Il messaggio che questi ultimi ricevono è «fai quello che ti pare», «non mi interessa ciò che fai o pensi, lasciami in pace». Il rischio è di crescere inesperti, immaturi, con il sospetto di non valere e un forte bisogno di rivalsa; una condizione che può rendere problematica l’integrazione con i coetanei. Ragazzi sbandati possono cercare punti di riferimento e certezze in una banda (vedi pagg. 61-64), qualche volta in una setta dove un guru dice loro come comportarsi e come pensare.
I genitori iperprotettivi/possessivi non sono distaccati e neppure demotivanti, si sovrappongono però in ogni scelta e iniziativa. Sono consapevoli dell’importanza dell’educazione e capaci di stabilire legami forti con i figli, sono però troppo preoccupati e invadenti. Hanno paura che i figli possano sbagliare, mettersi in situazioni pericolose, andare incontro a insuccessi e alla fine non concedono loro l’autonomia necessaria per imparare dalle proprie esperienze e rafforzarsi. Continuano a svolgere per i figli, ormai grandi, una serie di «servizi» come se fossero ancora dei bambini. I figli possono ribellarsi a questo regime oppure adeguarvisi delegando compiti e decisioni ai genitori. Nel tempo l’iperprotezione può trasformare i figli in tiranni domestici: abituati a essere serviti in tutto, si aspettano che papà e mamma (e successivamente il partner) soddisfino ogni loro desiderio.
Quello autorevole è lo stile migliore. Il genitore esige rispetto e fornisce regole di comportamento che hanno maggiori probabilità di essere rispettate perché si adattano all’età e alle caratteristiche individuali. Riconosce i desideri e i bisogni dei figli e sollecita la loro opinione. Gli piace stare con loro ma non è invadente. Non si sostituisce in quelle attività che essi possono svolgere da soli. Fornisce feedback coerenti. Vuole bene ai figli e li rispetta, ma a differenza del permissivo sa dire «no» in accordo con i valori che cerca di trasmettere. Promuove l’autonomia. Sa tenere a freno le proprie ansie e sa che certi errori e dolori aiutano a crescere. I figli dei genitori autorevoli risultano, in media, i più capaci: sono più fiduciosi nelle proprie possibilità, socialmente più responsabili e maturi. Sono anche meno inclini, da adolescenti, ad assumere sostanze stupefacenti e a far ricorso alla violenza per ottenere ciò che desiderano o sentirsi superiori.
L’intelligenza emotiva
All’inizio degli anni Sessanta uno psicologo sociale, Walter Mischel, ideò un semplice ma ingegnoso esperimento con bambini di quattro anni. Questi venivano fatti entrare, uno alla volta, in una stanza e fatti sedere a un tavolo. Mischel informava il bambino di turno che avrebbe potuto mangiare un dolcetto subito oppure, se avesse aspettato un po’, avrebbe potuto avere due dolcetti. Il bambino veniva poi lasciato solo nella stanza per un tempo piuttosto lungo, 15-20 minuti. Come si può facilmente immaginare non era facile per un bambino di quattro anni resistere alla tentazione di mangiare subito il dolcetto, e un terzo dei bambini non resisteva. I due terzi però riuscirono a resistere cercando di distrarsi: coprendosi gli occhi, cantando, inventandosi dei giochi e così via.
L’esperimento dimostrò che già a quattro anni è possibile esercitare un controllo sui propri impulsi. Ma non è questo l’aspetto più interessante. Dodici anni più tardi Mischel tornò da quegli stessi bambini che ormai erano adolescenti e riscontrò delle differenze tra coloro che erano riusciti a ritardare il piacere di assaporare il dolcetto e gli altri. All’età di sedici anni, i ragazzi del primo gruppo apparivano più fiduciosi e meno propensi ad arrabbiarsi o deprimersi di fronte alle difficoltà rispetto agli altri. Come all’età di quattro anni, i due terzi dei ragazzi erano ancora capaci di posporre le gratificazioni; gli altri invece apparivano più fragili: intolleranti alle frustrazioni, incapaci di attendere. Come interpretare queste differenze? Ci può essere una componente individuale, temperamentale, ma la capacità di ritardare le gratificazioni si impara tra le mura domestiche, al nido, alla scuola materna. Rispettare i turni, aspettare, condividere, capire che anche gli altri hanno le stesse nostre esigenze, sono apprendimenti necessari quando un bambino vive e gioca con altri bambini.
Questo esperimento ci introduce a un’importante dimensione della personalità, la cosiddetta intelligenza emotiva. Si può essere bravissimi in matematica, geni della chimica o maghi del computer, ma possedere in misura ridotta la capacità di gestire i propri impulsi e capire quelli degli altri. L’esperimento di Mischel ha posto in evidenza una dimensione di questa forma di intelligenza, ma ce ne sono altre:
L’intelligenza emotiva rinvia alla conoscenza di sé, alla capacità degli individui di automotivarsi e di controllare i propri impulsi, differendone o reprimendone la soddisfazione. Altre caratteristiche dell’intelligenza emotiva sono l’empatia e la speranza. La capacità di influenzare le emozioni di terzi e la capacità di muoversi in maniera efficace nelle relazioni sociali di cui dispone un individuo sono manifestazioni della sua intelligenza emotiva. Una di queste competenze è l’attitudine a esprimere i propri sentimenti. Le persone che sono emotivamente e socialmente competenti hanno, in generale, un’esistenza più produttiva. L’elemento cruciale è il controllo che hanno sulla loro vita emozionale e la capacità che ne traggono per poter meglio concentrarsi su un determinato compito. Nell’ottica della prevenzione, è opportuno insegnare a bambini e ragazzi ad accordare i loro progetti e i loro sentimenti. (Van der Stel e Vooderwind, 2001, pag. 94)
C’è dunque un lato «interno» dell’intelligenza emotiva, che riguarda la gestione dei propri impulsi, sentimenti e sensibilità in vista di un maggiore benessere, adattamento ed equilibrio personale, e un lato «esterno», non meno importante, che concerne le relazioni. Per quanto riguarda quest’ultimo, le principali competenze da acquisire nel corso dello sviluppo per poter convivere con gli altri senza doversi scontrare continuamente possono essere così riassunte:
– ognuno ha diritto di esprimere le proprie opinioni;
– non bisogna per forza essere uguali, o fare tutto ciò che fanno gli altri;
– si può essere amici pur non condividendo alcune cose;
– si può usare un tono deciso senza offendere;
– ci sono modi positivi e negativi di chiedere le cose e di rivolgersi alle persone;
– chiedere ciò che si desidera è corretto, non è sempre corretto pretenderlo;
– fare un errore non significa essere una persona sbagliata;
– è più facile controllare il proprio comportamento che quello degli altri;
– il nostro modo di fare può influenzare gli altri;
– se si è gentili è più facile che gli altri siano gentili con noi.
Come le altre forme dell’intelligenza anche quella emotiva si sviluppa col tempo, con l’esperienza. Non è soltanto una questione di temperamento, ma anche di esercizio. Per esempio, un bambino impulsivo con un buon livello di intelligenza emotiva è più capace di controllarsi di quanto non lo sia un bambino altrettanto impulsivo ma con un basso livello di competenza emotiva. Un bambino timido con un buon livello di comprensione emotiva impara strategie che lo rendono via via più sicuro nei rapporti con gli altri. Se l’ambiente promuove l’educazione, prima o poi tutti i bambini si rendono conto che non si può avere tutto subito, che gli altri vanno rispettati, che le cose non possono andare sempre secondo i propri desideri, che ci sono eventi spiacevoli ma tollerabili, che a volte gli altri non ci capiscono ma non per questo bisogna farne un dramma.
Per questo tipo di apprendimenti contano i modelli di riferimento e le indicazioni che, al contrario dei predicozzi generici, arrivano quando il bambino è pronto per assimilarle. Genitori e fratelli maggiori possono insegnare molte cose «intelligenti» ai bambini, tra cui anche come sbollire la rabbia, come prendere tempo prima di agire, come rassicurarsi nei momenti critici e così via. E naturalmente le vie informali attraverso cui questi insegnamenti possono arrivare sono varie e diverse: l’esempio, i racconti, la lettura, le attività condivise, i giochi, le normali interazioni quotidiane (ne parleremo in seguito).
Scheda 8
Cronologia dell’alfabetizzazione emotiva
Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva inizia presto, quando il neonato avverte di aver stabilito un contatto significativo con le persone che si prendono cura di lui.
Tra i 3 e gli 8 mesi, le smorfie, il solletico, le parole sussurrate e tutte le altre forme di piacevole vicinanza comunicano sensazioni di intimità e fiducia.
Tra i 6 e i 14 mesi, la comunicazione a due vie che si realizza nei giochi di imitazione (fai un cenno, lui lo ripete; fa una smorfia, tu la riproduci) è la modalità con cui i bambini imparano a usare i segnali emotivi («posso far sorridere papà!») e a leggerli sul viso degli altri. L’intelligenza, in questo caso, consiste nel saper cogliere rapporti di causa ed effetto.
Tra i 12 e i 20 mesi, quando l’interazione diventa più orientata (per farti capire che ha sete ti prende la mano e ti accompagna al frigorifero), nel piccolo sta emergendo la consapevolezza di sé come individuo separato e diverso dalla «base sicura» (la mamma o chi per lei). Sottolinearlo è utile: «Vuoi dell’acqua e cerchi di dirmelo! Sai quello che vuoi!».
Tra i 18 e i 30 mesi, incomincia a rappresentare le emozioni nei giochi; se tu nomini queste emozioni, lui può collegarle all’azione che sta facendo. Dici «la bambola è contenta che tu la culli!» e lui diventa consapevole del fatto che il cullare genera benessere, che è così anche per te, che se ne può parlare. Potrà esprimere con parole sue questo tipo di emozione che prima viveva in silenzio.
Dopo i 3 anni è più abile nel collegare le idee ai sentimenti quando i concetti sono introdotti in un contesto emotivo. Ci sono modi per favorire quest...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. PRIMA PARTE. IL PROBLEMA
  5. SECONDA PARTE. PREVENZIONE E INTERVENTI
  6. Appendice. Giochi sociali
  7. Bibliografia
  8. INDICE