Prigionieri dell'Islam (VINTAGE)
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Prigionieri dell'Islam (VINTAGE)

Terrorismo, migrazioni, integrazione: il triangolo che cambia la nostra vita

  1. 256 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Prigionieri dell'Islam (VINTAGE)

Terrorismo, migrazioni, integrazione: il triangolo che cambia la nostra vita

Informazioni su questo libro

L'islam ci fa paura. Per i fanatici che in suo nome seminano morte nel mondo, e perché è la religione dominante nell'ondata migratoria da cui l'Europa teme di venire sommersa. Di questa paura e dei nostri pregiudizi siamo prigionieri, così come lo sono gli stessi musulmani, spesso ostaggio di un'interpretazione retrograda del Corano. È possibile aprire un discorso comune sulle regole e sui valori? E cosa ci aspetta in un futuro in cui l'islam avrà un ruolo sempre più importante, anche in Italia? Sono domande che mettono in gioco la nostra identità, a partire dalle conquiste fondamentali e più minacciate: i diritti e la libertà delle donne, su cui si misura il progresso di una società. In questo libro battagliero, Lilli Gruber ci conduce in un'Italia che cambia sotto i nostri occhi: dal porto di Augusta, presidio permanente dove approdano i migranti in fuga da fame e guerre, fino all'amara sorpresa della propaganda estremista nelle periferie di Roma, incontriamo giovani pasionarie che rivendicano il diritto al velo e imam prudenti che temono la radicalizzazione, agenti segreti e italiane convertite. Mentre sullo sfondo scorre la storia dei decenni che hanno insanguinato il Medioriente, un avvincente racconto ci porta dai tormenti del Siraq, luogo di nascita dell'Isis, all'Iran riconciliato. Per scoprire che dietro lo "scontro di civiltà" si nasconde un grande inganno. E che l'unica arma da brandire è quella della disobbedienza, per difendere uno spazio comune di dialogo e di libertà.

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1

Augusta, il porto della speranza

Il porto di Augusta, in provincia di Siracusa, è invaso dal vento in questa domenica mattina. L’acqua ora scintilla innocente, ma le onde sono state alte, nella notte: mare molto mosso. Condizioni proibitive per il gommone di dieci metri e per il suo carico di umanità e disperazione, composto da centoventi persone. Sono sbarcati da poco dalla nave che li ha salvati, passando li vedo in fila fuori dalle tende di prima accoglienza, erette sul molo centrale.
«Nessun gommone può percorrere duecentocinquanta miglia, con fusti di carburante limitati» mi dice il comandante Francesco Iavazzo della Comandante Bettica, una corvetta di novanta metri dotata di una pista di atterraggio per gli elicotteri. Ha recuperato l’imbarcazione a una ventina di miglia dalle coste libiche: era sovraccarica, non sarebbe andata lontano. È stato un elicottero della Royal Navy a individuarla e a lanciare l’Sos.
Il comandante mi ha accolto assieme ai rappresentanti delle molte realtà locali coinvolte nel soccorso e nell’accoglienza dei migranti. È domenica, ma il giorno del Signore qui non è diverso dagli altri. La sfida di questi uomini e donne è quotidiana, sulla frontiera meridionale dell’Europa.
«La salvaguardia della vita umana è la priorità, secondo la legge del mare» mi ricorda Iavazzo. È ben dritto nella sua uniforme, e gli occhi scuri non lasciano trasparire la stanchezza, ma i turni sono massacranti. Quattordici giorni di seguito, senza riposo. E sulle spalle un carico di tragedie pesante.
Non ho mai visto annegare una persona, ma so che è una morte terribile. Le forze che ti abbandonano, lo sfinimento che prende il sopravvento, le grida che si perdono nel silenzio della notte. Cadere, a occhi aperti, nell’abisso. I polmoni che si riempiono d’acqua, il soffocamento inesorabile. Sono scomparsi così a migliaia, negli ultimi anni. Il Mediterraneo, cimitero dei disperati.
«Ci sono più cadaveri che pesci» commenta Jacques fissando l’acqua, mentre saliamo a bordo. È una frase che gli ha detto qualche mese fa un pescatore incontrato a Mazara del Vallo, e non riesce a dimenticarla.
Le cifre ufficiali sono implacabili. Nel 2014 i morti sono stati 3279. Nel 2015, 3771. E nel 2016 il conto è ricominciato, con l’intensificarsi dei flussi. Le vittime del mare sono ben più numerose rispetto alle rotte di terra, nonostante il lavoro della Marina italiana, degli equipaggi di corpi internazionali come Eunavfor Med (European Union Naval Force Mediterranean), la Forza navale mediterranea dell’Unione Europea, e anche del Naviglio mercantile. Già, perché la legge vale per tutti: chi si trova più vicino al natante in difficoltà deve andare in suo aiuto. A volte è una vera e propria nave di soccorso, altre volte è un vascello della Marina militare come la Bettica, di pattuglia per proteggere piattaforme petrolifere e pescherecci. Ma può trattarsi anche di un mercantile, in viaggio per consegnare i suoi carichi. In mare non puoi voltarti dall’altra parte. Cambi rotta, recuperi chi puoi, e lo accompagni in porto. A tuo rischio, a tue spese? Sì.
E tuttavia, ancora non basta. Chi si ricorda più della tragedia di Lampedusa, nell’ottobre 2013? Annegarono oltre quattrocento persone. Papa Francesco si era recato sull’isola qualche mese prima, nel luglio del 2013, e in quell’occasione aveva parlato di «globalizzazione dell’indifferenza». Ma nell’aprile del 2015 i morti sono stati ottocento, la più grande tragedia del Mediterraneo. Allora Matteo Renzi ha lanciato un appello all’Europa: «Non lasciateci soli». Ha denunciato lo scandalo del traffico di esseri umani, questo «schiavismo dei nostri tempi». Ma non sono sufficienti le preghiere, né a Dio né agli uomini, per fermare un esodo che si fa ogni giorno più intenso.
Nel 2015, oltre un milione di persone ha raggiunto l’Europa via mare: 153.842 sono approdati in Italia, il resto in Grecia. Solo nei primi tre mesi del 2016 gli sbarchi sulle coste elleniche sono stati più di 155.000 e quasi 20.000 in Italia, già il doppio rispetto all’anno scorso nello stesso periodo. Il mare non si ferma, e non si ferma l’umanità in fuga dalla guerra o dalla fame: se vengono bloccati e rimandati indietro, ritenteranno per un’altra via. Il 2016 potrebbe essere l’anno che li vedrà incolonnarsi a piedi attraverso l’Albania, per poi passare l’Adriatico fino alla Puglia. Lo ha detto anche Michele Emiliano, presidente della Regione, invitato a marzo 2016 a Otto e mezzo: «Aspettiamo centocinquantamila rifugiati, ho già chiesto l’aiuto del governo».
Pensando ai numeri di questa migrazione, oggi, il molo della base navale militare di Augusta appare tranquillo. La quiete dopo la tempesta. O prima? Da qui si può toccare un mondo che ora ci fa paura ma a cui apparteniamo, quello del Mediterraneo. Il Nord Africa con le sue recenti rivoluzioni. La vasta distesa del deserto, e al di là la terribile povertà dell’Africa subsahariana. A est il Medioriente devastato dalle guerre. A ovest Gibilterra, con lo stretto che i marinai fenici hanno attraversato per primi, tanto tempo fa.
A circa un’ora di automobile da qui c’è Pozzallo, in provincia di Ragusa, un piccolo porto divenuto «hub» dove sbarcano la maggior parte dei migranti recuperati dalla Marina o dai guardiacoste. Ha avuto l’onore di comparire in un articolo del «Financial Times» uscito all’inizio di febbraio 2016. Un articolo davvero strano. Il Mediterraneo è un mare senza controllo, spiegava il prestigioso quotidiano londinese, dove migliaia di barche clandestine incrociano indisturbate, portando uomini, armi e naturalmente terroristi. Citava il caso di un cargo di settantasei metri partito dalla Turchia, che avrebbe fatto scalo in Libia, costeggiato la Tunisia, per poi attraccare senza essere individuato proprio a Pozzallo. Sulla via, questo cargo fantasma avrebbe interrotto le comunicazioni radio, scomparendo per tre ore. Prova inconfutabile, concludeva l’articolo, che l’Europa non è in grado di controllare le sue frontiere marittime. Il pericolo incombe sul Vecchio Continente.
Questa è l’opinione di molti: dai comuni cittadini ai politici. Ma la storia del «Financial Times», è il caso di dirlo, fa acqua da tutte le parti. Che il Mediterraneo sia attraversato – da millenni – da ogni genere di traffici è indubbio. Ma perché scegliere Pozzallo come destinazione di questo rocambolesco periplo? Perché attraccare a due passi da Augusta, con le sue navi militari e i suoi controlli? Pozzallo è il dettaglio fuori posto che mi fa dubitare di tutta la faccenda. La fonte del quotidiano sarebbe un rapporto di Windward, una società privata israeliana che si occupa di sicurezza marittima. Sarebbero loro, a quanto pare, ad aver seguito il percorso del cargo in questione, e di centinaia di altri nel Mediterraneo. Perché dare la precedenza a questo rapporto, piuttosto che a quelli ufficiali delle Marine europee o americana? Perché alimentare la paura in un momento in cui è già così forte? Tra l’altro, questo tratto di mare è certamente uno dei più pattugliati del pianeta.
A bordo della Bettica, attraverso stretti corridoi e ripide scalette, vengo accompagnata nei quartieri degli ufficiali. La sala riunioni è piccola e affollata: siamo almeno in quattordici distribuiti tra sedie, divanetti, qualcuno in piedi sulla porta. Per completezza di informazione o perché le relazioni con la stampa sono sempre delicate? Oltre al comandante, al prefetto e al questore di Siracusa, sono con me la sindaca, ufficiali della Marina e della Guardia costiera e responsabili dell’unità per il contrasto all’immigrazione clandestina.
I mezzi messi a loro disposizione dal governo, mi assicurano tutti, sono sufficienti. Capisco che ci tengono a evitare che passi il messaggio sbagliato. Non è vero che la nostra Marina impiega risorse degli italiani per far arrivare qui dei clandestini, un ritornello che fa comodo alla politica xenofoba. «Coordiniamo tutte le attività in mare» taglia corto il capitano di vascello Antonio Donato, della Guardia costiera. «Non solo i soccorsi, ma anche i commerci e la pesca. Non dimentichiamo che il 70 per cento delle merci che arrivano in Italia lo fanno via mare.»
E intanto che difendono gli interessi nazionali nel Mediterraneo, salvano centinaia di vite umane. La mobilitazione è esemplare, in un’isola che troppi conoscono solo per la mafia, il suo peggior prodotto da esportazione. A Siracusa è stato formato un gruppo che unisce Guardia costiera, Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di finanza. Intervengono già a bordo dei barconi con un primo lavoro di intelligence, per cercare di capire se portano elementi sospetti o pericolosi. Poi, sulla nave di soccorso, i migranti trovano il personale sanitario, spesso coadiuvato da volontari inviati da fondazioni umanitarie. Sul gommone di stanotte per esempio c’era un uomo con una ferita da arma da fuoco. Sostiene di essere stato fermato a un posto di blocco, in Libia. Perché? Da chi? Le indagini vanno condotte tra lingue diverse, identità incerte. Migranti, soccorritori e inquirenti si capiscono in un misto di italiano, francese, inglese e frasi in arabo preconfezionate, imparate a memoria oppure scritte su un foglietto.
E in un anno, da marzo 2015 a oggi, gli interventi della Marina hanno portato all’arresto di seicento scafisti, di cui trecento solo ad Augusta. Non è abbastanza? Dovremmo contrastare questo traffico all’origine, evitare che le barche si allontanino dai porti di partenza? Certo. Ma attorno al tavolo ovale si alza una sola domanda: come? Con quali governi e forze locali si può parlare, se la Tunisia coopera quando può, l’Egitto dà risposte parziali e la Libia è nel caos?
È già tanto riuscire ad arrestare i pesci piccoli. Non è facile, su una barca affollata e di notte, capire chi sono le vittime e chi i trafficanti. E gli scafisti lo sanno. Spesso sono loro stessi a chiamare i soccorsi con il satellitare. Anche perché i gommoni, piccoli, scuri e fatti di un materiale che riflette male le onde radio, non si vedono bene dagli elicotteri e sfuggono ai radar. Stanotte, però, sono stati individuati. E poi?
«Ci siamo avvicinati all’imbarcazione, e abbiamo messo in mare dei dinghy, gommoni a scafo rigido, con potenti motori idrogetto, per poterci accostare senza rischi» mi spiega il comandante. Il pericolo era che ci fosse qualcuno in mare, spesso in questa fase concitata rovesciano la barca. E potrebbero restare presi tra le eliche della nave, un’altra morte orrenda. «Poi i marinai hanno lanciato i giubbotti di salvataggio e i salvagenti, ne abbiamo a bordo una scorta apposta. Infine, con cautela, cercando di evitare il panico, abbiamo trasferito tutti sulla Bettica.» Sembra facile? Non tanto, con una folla confusa e disperata, nell’oscurità, e con il mare grosso…
«Stanotte abbiamo recuperato ottantacinque uomini, sette donne e ventotto minori» specifica Iavazzo. Neanche tanti per la Bettica, che può portare tra i cinquecento e i seicento «ospiti». Ai suoi colleghi della San Giorgio è capitato di averne 1890 tutti insieme: un’operazione durata una settimana, con dodici recuperi.
Dopo che i siriani e gli iracheni avevano preso la via dei Balcani, gli arrivi in Sicilia erano diminuiti. Ma le cose sono destinate a cambiare. Negli ultimi mesi, qui sono giunte in porto in maggior parte barche guidate da egiziani e tunisini, che hanno fama di ottimi marinai, e quindi di ottimi scafisti. Ma con il peggioramento della situazione in Libia, sono aumentate le partenze da quelle coste. Anche con scafisti provenienti dall’Africa subsahariana, dal Senegal, dal Gambia, che quando va bene hanno fatto una settimana di corso, e poi via sui gommoni. Non c’è da stupirsi se, quando arrivano «i nostri», sono già in fase di affondamento.
«Oltre agli arresti di scafisti» mi riferisce il questore di Siracusa, Mario Caggegi, «abbiamo smantellato alcune reti di trafficanti eritrei e nigeriani. Ma il cuore del problema resta la Libia.»
I magistrati italiani usano ogni arma messa a disposizione dal diritto internazionale. Compreso un trattato fondamentale, firmato a Palermo nel 2000: la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale. Che è nata proprio per combattere questo nero commercio: il traffico di esseri umani. Ratificata da 169 Paesi.
Ma sono in gioco interessi politici ed economici colossali. Anche se la giustizia riesce a catturare i pesci piccoli, i veri pescecani restano intoccabili.
È possibile, chiedo, che tra le maglie della rete sfuggano interi navigli, come sostiene il «Financial Times», o singoli terroristi infiltrati tra i migranti? Caggegi mi rassicura: «Tra i controlli che si effettuano subito sulle navi, quelli a terra, e le informazioni dei servizi, le probabilità che i terroristi arrivino via mare sono scarse». Il che non vuol dire che possiamo ritenerci al sicuro, purtroppo.
Dopo la tragedia di Lampedusa, nell’ottobre 2013, l’Italia ha varato l’operazione Mare nostrum. L’idea era mobilitare le navi della Marina per pattugliare il Mediterraneo, anche al di là delle nostre acque territoriali. E soccorrere i battelli in difficoltà che trasportavano i rifugiati. Una decisione dell’allora presidente del Consiglio Enrico Letta, presa nel silenzio dell’Europa, perché come ha detto lui stesso: «Bisognava fare qualcosa. Non si poteva semplicemente lasciar morire questa gente». Invece di trovare solidarietà e aiuto, l’Italia è stata accusata di incentivare l’immigrazione clandestina. Dagli altri Paesi dell’Unione, e da molti politici. L’operazione è partita comunque, e tra l’ottobre 2013 e l’ottobre 2014 ha permesso di recuperare in mare più di centomila persone. Era necessario? La risposta è sì.
Divenuto premier nel febbraio del 2014, Matteo Renzi ha smantellato rapidamente Mare nostrum. Che, dal 1° novembre 2014, è stata sostituita dall’operazione europea Triton. Largamente insufficiente.
Il 18 aprile 2015, nello stretto di Sicilia, un’imbarcazione di oltre venti metri con centinaia di disperati stipati in ogni angolo, dal ponte ai vari piani sottocoperta, urta un cargo, si ribalta, cola a picco. Un’ecatombe. Renzi promette che si farà ogni sforzo per recuperare i corpi. Centinaia di uomini, donne e bambini rimasti prigionieri nello scafo, affogati come topi.
Con ritardo, l’Europa reagisce e lancia l’operazione Sophia. Riprende i princìpi di Mare nostrum, ma gli italiani sono meno soli. Il comando è a Roma e Sophia, oltre a salvare delle vite, ha l’obiettivo di contrastare gli scafisti. Perché è questa la grande ipocrisia: la migrazione «biblica» è anche un enorme business. Assai redditizio. Fiumi di denaro passano dalle mani dei candidati all’esilio a quelle degli intermediari, dei clan mafiosi, di funzionari corrotti in diversi Paesi. Il «Financial Times» a febbraio 2016 parla di un giro d’affari di oltre tre miliardi di euro l’anno, ed è una stima per difetto. Ma il capo di Europol, Rob Wainwright, ha stimato che nel 2015 i trafficanti abbiano guadagnato almeno il doppio.
Si paga a ogni tappa, in queste «agenzie di viaggio». La prima, fino a un porto sul Mediterraneo: per l’Africa e il Maghreb è la Tunisia, la Libia o l’Egitto. Per Pakistan, Afghanistan e Siria è invece la costa turca. Dalla quale sono partiti migliaia di rifugiati, anche grazie a una innegabile complicità del regime di Recep Tayyip Erdoğan. La Turchia è uno dei Paesi più sorvegliati al mondo, con una polizia efficientissima, servizi segreti ed esercito onnipotenti. Le sue guardie di frontiera e la Marina sono perfettamente in grado di controllare chi parte e chi resta. Aprendo i rubinetti dei flussi migratori, il presidente Erdoğan ricatta e punisce l’Europa, restia ad accogliere nell’Unione il suo Paese. Che continua a violare diritti fondamentali come la libertà d’espressione.
Mentre trafficanti, mafiosi e governanti senza scrupoli fanno affari d’oro, l’Europa investe in nuove barriere. Macedonia, Bulgaria, Slovenia, Slovacchia, Austria, Polonia, Ungheria pagano vere fortune per dotarsi di muri o di dispositivi capaci di impedire il passaggio ai migranti. Ma tutto questo denaro, che spendiamo per chiuderci dentro, non sarebbe meglio utilizzato per dare un futuro alle popolazioni in difficoltà? In occasione del suo viaggio in Africa nel febbraio 2016, Renzi ha detto bene: senza un piano serio di investimenti per lo sviluppo di quel continente, sarà impossibile fermare l’esodo. Non ci sono mari né muri che tengano.
E occorre pacificare il Levante, perché i rifugiati che si ammassano nei campi della Turchia, del Libano e della Giordania possano tornare a casa. Ma questo dipende da una volontà politica internazionale che al momento non è abbastanza determinata.
Scendo dalla Bettica per visitare le strutture allestite per la prima accoglienza. Uno scenario indaffarato, ma ordinato. Nel vasto piazzale spicca il Polibus rosso di Emergency, arrivato nel 2013 a presidiare il porto di Augusta in sostituzione di Medici senza frontiere. I suoi professionisti hanno un ruolo indispensabile nell’attività di primo soccorso, sia a bordo sia a terra. In una grande tenda bianca al centro si allineano le brande su cui riposano i nuovi arrivati, al riparo dal vento che imperversa sempre più forte. In giornate ancora più burrascose è capitato che le tende volassero via, a dispetto degli ancoraggi che le fissano al cemento.
Alcuni migranti si spostano da una struttura all’altra, vestiti di una tuta bianca di tela termica che li protegge dal freddo. Hanno l’aria esausta. Ma nella tenda dove si radunano i minori non accompagnati, tutti maschi a parte una ragazza, incontro anche sguardi pieni di speranza.
Proprio qui davanti, si danno da fare giovani uomini e donne con la divisa di diverse organizzazioni umanitarie. Micaela, di Save the Children, mi spiega che per la ragazza probabilmente sarà inoltrata una richiesta di asilo politico. Ha dichiarato di essere fuggita dalla Costa d’Avorio, dove a dodici anni è stata data in sposa a uno scafista. Ha una bambina di quattro anni, che ha dovuto lasciare a casa. È vera la sua storia? Micaela mi guarda seria.
«Non siamo noi a deciderlo. Il nostro lavoro è raccogliere i dati da inoltrare alle commissioni competenti e alle prefetture» mi spiega. «E dare un po’ di sollievo e rassicurazione» aggiunge combattiva. Poi entra nella tenda per l’informativa legale: spiegare a questi ragazzi dove sono arrivati e cosa li attende.
Rimango con Ahmed, un giovane egiziano con la giacca azzurra di Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Si occupano molto di tratta delle donne e conosce bene questa triste realtà.
«Non solo è difficile verificare le loro storie, ma a volte è arduo capire se sono minorenni» dice. «Molte ci mentono sull’età. Sono i trafficanti a costringerle: sanno che se le ragazze entrano nei centri per i minori sarà più difficile avviarle alla prostituzione. E invece devono metterle sulla strada subito, per rifarsi dell’investimento del viaggio.»
So bene che i documenti delle donne vittime di tratta vengono sequestrati. E loro pensano che quando avranno ripagato il «debito» con i loro protettori saranno libere. Tra i 25.000 e i 40.000 euro, specifica Ahmed. Ma anche se sopravvivessero alla violenza e alle malattie del mestiere più vecchio del mondo, libere non lo saranno mai.
«I trafficanti le aspettano subito fuori dai centri di prima accoglienza» mi dice il giovane, poi lascia v...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Cartina
  5. Prologo. Una nuova musulmana
  6. Introduzione. Parigi insanguinata
  7. 1. Augusta, il porto della speranza
  8. 2. Isis: nascita di un mostro
  9. 3. Catania, all’ombra dell’Elefante nero
  10. 4. Libia, l’ennesimo grande inganno
  11. 5. Gli 007 di Roma
  12. 6. Maroni e il disegno diabolico di Renzi
  13. 7. Arabia Saudita, il regno del maschio
  14. 8. Colonia, giù le mani dalle donne
  15. 9. Tra le ombre dell’islam di provincia
  16. 10. Alessandro Di Battista, un conservatore a 5 stelle
  17. 11. Ultima fermata: Damasco
  18. 12. Fede vs fede
  19. 13. Bentornato Iran
  20. 14. Firenze, l’arte dell’islam
  21. 15. Comandante Roberta Pinotti
  22. 16. Sunniti e sciiti, gli eterni duellanti
  23. 17. L’islam tra di noi
  24. 18. Centocelle, il libro della vergogna
  25. 19. Bruxelles, bersaglio Europa
  26. 20. Federica Mogherini e l’Europa da rifare
  27. 21. Viale Jenner, la moschea proibita
  28. 22. La comunità dalle troppe anime
  29. Conclusione. La vittoria della disobbedienza
  30. Ringraziamenti