1
Chi era quello che si svegliava insetto? Tipo blatta, schiena sul materasso, che poi non ce la faceva a rivoltarsi… le zampette che annaspavano nell’aria. Boh. Forse era un film horror, non un libro.
Quello che non riusciva a smettere di fumare invece era Zeno. Che si sposava la sorella di quella che gli piaceva.
E quello mezzo gay che si innamorava del ragazzetto e gli si scioglieva il trucco… Era a Venezia, mi pare.
Poi c’era l’ufficiale asburgico che non contava più niente, che si dava tanto da fare e le mani ossute della morte brindavano già sopra la sua testa.
Come avvocato sono bravo, ma dal punto di vista della cultura generale sono una zappa. Ci vorrebbe Magda, che queste cose le insegna. Comunque erano tutti così, i protagonisti dei romanzi che ci facevano leggere a scuola, non ce n’era uno sano.
A pensarci bene, più o meno come noi.
Se avessimo anche solo studiato di più, avremmo evitato la tragedia? Saremmo stati più gentili? O anche solo meno superficiali? Se avessimo immaginato gli autori, i personaggi, le loro imperfezioni, come fossero stati compagni di banco…
Ma il nostro approccio era decisamente diverso. Ricordo l’interrogazione su Leopardi: «Da dove nasce il pessimismo del poeta?».
Dal fondo dell’aula: «Professore’… si rendeva conto!».
E giù risate.
Mirko non rideva, lui non capiva.
Non ci arrivava.
2
Credo di essere diverso dagli altri. Non c’è un ricordo che mi faccia stare bene. E non cambia se sono belli o brutti: è il ricordare in sé che mi scatena il senso di colpa.
Non sto male pensando a quella notte, sto male pensando a qualsiasi cosa sia successa prima dell’istante che sto vivendo.
Mi fa male il format del ricordare.
Anche le memorie più felici sono una condanna.
Penso alla nascita dei miei figli? C’è un primo attimo in cui provo gioia, ma subito dopo una mano invisibile mi afferra per la nuca e sposta la mia testa a guardare altro. Mi dice: «Mirko».
E così per il matrimonio, così per il giorno in cui mi hanno assunto nel mio primo posto di lavoro, così per il viaggio in Venezuela, o per quello in Alaska. Per la partita di Mariolino, o per il saggio di danza di Chiara. Per il concorso di Magda, per i pomodori ripieni di riso che mi ha fatto mia madre venerdì.
Non posso guardare indietro.
L’altro giorno un cliente ha invitato tutto lo studio a una visita privata alla Cappella Sistina. Ho pensato a Michelangelo che lavorava steso sulle impalcature e disegnava il dito di Dio. Mi è girata la testa, mi hanno dovuto far accomodare.
Ci ho fatto un figurone, sembravo vittima della sindrome che guardi le opere d’arte e la troppa bellezza ti fa sentire male. Le colleghe hanno pensato: chi l’avrebbe mai detto che era così sensibile.
Invece era un conato di quella notte di ventisette anni fa.
3
Guido già da un paio d’ore, e da almeno mezz’ora non incrocio altre auto. La campagna toscana è splendida, verde e brillante come può essere in un primo pomeriggio di luglio.
Ho spento l’aria condizionata e aperto i finestrini, per sentire i profumi e soffrire il caldo, come piace a me. Ma non posso certo dire di godermi il viaggio.
Non è facile guidare verso ciò che ha stravolto la tua vita, che l’ha indirizzata e marchiata. Andare incontro al segreto che ha fatto di te quello che sei.
Un segreto molto ben custodito, forse.
Dico forse perché poi ognuno risponde per sé. Io non ho mai parlato, neanche con Magda (che impazzirebbe, se sapesse). D’altronde se emergesse la verità , non resterebbe più in piedi nulla di quello che sono.
Gli altri avranno taciuto?
«Scusi… sa dirmi per zona Cascinali?»
«Diritto pe’ du’ ’hilometri, poi a destra pe’ lo sterrato.»
«Grazie.»
Verdone che scappa con Regina Orioli: so’ piccino…
Mah… mi devo concentrare. D’altronde non è difficile, ci penso sempre, da decenni. Non sarei quello che sono senza quella notte. È assurdo pensare che sarei potuto diventare una persona diversa da quella che poi sono diventato, quindi quella notte sono io. Quella frazione di secondo non ha cambiato la mia vita: era la mia vita, anche quella che sarebbe stata.
Però non mi aspettavo che quella notte mi avrebbe convocato. Con un telegramma.
LA PREGO DI RAGGIUNGERMI IL GIORNO 7 LUGLIO
ORE 15
A CASALE VECCHIO, ZONA CASCINALI
ASCIANO (SI)
PER LA LETTURA DI UN DOCUMENTO CHE LA RIGUARDA.
ELENA CAIATI
Pensate che colpo mi ha preso. Come quando a casa tutto è tranquillo e dalla cucina arriva il fracasso di piatti che si rompono, o il tonfo di qualcosa che finisce per terra.
Elena era (in effetti è) la madre, me la ricordo bene. Sentivamo le sue urla disperate fin dalla lobby. Noi, chiusi ancora in quella stanza, seduti sui letti.
4
Più o meno ci dovremmo essere. Prendere lo sterrato al km 25 della statale e proseguire fino a un gigantesco cespuglio di rododendro.
Eccolo.
Gigantesco davvero.
Girare a destra, poi dritti per un sette, otto chilometri fino al casale.
Verrà a piovere? C’è troppa umidità . Davvero non si respira. Dovevo portarmi il cambio per la camicia.
Ecco il casale, finalmente. Bellissimo. Circondato da un prato all’inglese largo e ben tenuto. Rose rampicanti contro un muro della casa, di fronte un anziano giardiniere con cappello e cesoie.
Accidenti, il giardiniere. Non sapevo che stesse così bene la famiglia di Mirko. Avranno pure il maggiordomo?
La ghiaia scricchiola sotto le ruote mentre mi fermo nel parcheggio, in ombra, su un lato. Bello per essere un parcheggio, anche qui è pieno di rose, aiuole messe a delimitare i posti auto, piante alte e rigogliose, altro che gli alberelli rachitici nei posteggi dei centri commerciali.
Quattro macchine, una a fianco all’altra. Più la mia, cinque.
Inutile chiedersi di chi siano. È peggio di come temessi.
5
Germano, il Kapo, teneva Mirko per le caviglie, lasciandolo ondeggiare nel vuoto. Io da dietro, aggrappato alla cintura di Germano, facevo finta di inchiappettarmelo. Ridevo: tutti ridevano.
Ridevano anche Silvia e Margherita. Quale di loro stava con Germano? Forse tutt’e due, ma più Silvia. Lucio, sporgendosi dalla ringhiera, colpiva Mirko che penzolava a testa in giù. Lo colpiva sulle gambe con un righello.
E Mirko urlava.
Si era prestato di propria volontà al gioco. Ultima umiliazione, sfida incosciente o estremo tentativo di integrarsi nel gruppo dei migliori? Chissà . Ma ora aveva paura.
Siamo stati convocati tutti. Non poteva andare che così. Come se fosse scritto da sempre, che dovevamo ritrovarci, prima o poi. E ritrovarci così.
Sono ventisette anni che non li vedo. Dalla maturità .
Sembrava non ci fosse alternativa al passare la vita insieme. Invece l’alternativa c’era, ed è stata la nostra vita.
Non posso fare a meno di chiedermi: ci sentiremo in colpa, incontrandoci ora tutti insieme, più di quanto ci siamo sentiti in colpa singolarmente in questi anni? Anche gli errori vanno in prescrizione, no?
Non per lui, mi direbbe Magda.
Per questo lei non sa niente. Perché sennò mi direbbe esattamente questo. Subito prima di prendere la porta.
Mentre smonto dalla macchina, mi si stringe lo stomaco. Proprio non ho voglia di vederli. E d’altronde come potrei? La paura blocca persino la curiosità su quello che possono essere diventati.
Mi sa che questa giornata ce la ricorderemo a lungo.
6
«Eccolo, va’… mancavi solo tu.»
È una sagoma in controluce, ma non serve guardarlo in viso per riconoscerlo: non è mai servito, data la stazza.
«Germano.»
«Eh. Saluta il Kapo, testolone di minchia!» Mi afferra per una spalla, come se fossimo ancora a ricreazione. Ma è terrorizzato, si sente.
D’altra parte come potremmo essere a nostro agio? Che quotidianità ci può essere tra persone che non si vedono da trent’anni? L’ultima volta che ci siamo incontrati ne avevamo diciannove. Ancora adesso mi aspetto di sentirgli urlare Viva il duce da un momento all’altro. Provo a sorridere, e lo abbraccio.
Germano, il Kapo. Ha perso i capelli, quasi tutti, ma la silhouette è sempre quella, addome a parte. Alto, spalle larghe, viso lungo con il mento appuntito anche se ora di menti ne ha un paio; ha aggiunto un tatuaggio sul collo da toro. Occhiali scuri, anche dentro casa. Camicia sbottonata quasi fino all’ombelico. Si è fatto crescere il pizzetto.
«Mi dicono che sei diventato comunista!» E continua a strattonarmi.
Ma è scemo? Che lavoro può fare uno così? A cinquant’anni ti prendono ancora come buttafuori nelle discoteche?
Poi li saluto uno a uno. Senza stupore.
«Ciao, Lucio.»
«Ciao, Ste’.»
Stravaccato sulla poltrona, come se ce l’avessero lanciato sopra, una gamba buttata a cavallo del bracciolo, Lucio ha mantenuto lo sguardo che ti giudica dall’alto, la voce bassa e un po’ impostata di quando ci metteva all’angolo con i suoi discorsi sulla vita e sull’universo. E quel suo sorrisetto. Giacca stazzonata, occhialetti, i capelli da biondi sono diventati bianchi e radi. Cercava la rivoluzione e teorizzava il superuomo, oggi ha tutta l’aria di condividere le spese per l’affitto.
«A questo punto è davvero un processo, abbiamo anche l’avvocato.» La voce è più amara e più tagliente ancora di quanto ricordassi. Silvia. Abbozzo un sorriso, anche perché è una bellissima donna. Un po’ troppo dura, in effetti: tailleur impeccabile come una divisa, gambe toniche, i capelli color miele sono freschi di messa in piega e probabilmente di tinta, ma sul viso perfetto lo sguardo è collerico e nervoso. Deve essere suo il Suv Mercedes parcheggiato fuori. Almeno a giudicare dalla collana, che fa pendant.
E poi finalmente il volto che si fa fatica a riconoscere. Mi...