PARTE SECONDA
Inghilterra
Londra, 1972
Chiuse gli occhi e rivide il verde intenso dell’erba umida di rugiada primaverile. Udì il ruggito del mare mosso da un vento impetuoso. Vento. Rivisse intensamente tutte le sensazioni di quel giorno lontano. Quella mattina di soli sei mesi prima doveva essere l’ultima. Ma qualcuno aveva deciso che doveva continuare a vivere per ritrovare se stessa.
Lasciò la presa dalla tenda, lasciandola cadere sulla finestra della camera. Ne seguì per un po’ il lento ondeggiare finché non si arrestò, osservò il ricamo a fiori e sorrise. Un regalo di Isabel. «Tieni, questa è per te. L’ho ricamata con le mie mani. Portala con te, Tracy» furono le sue ultime parole, seguite da un sorriso e da un lungo abbraccio, quando la salutò quel pomeriggio di inizio estate, appena quattro mesi prima. Le mancava molto, nonostante si sentissero al telefono due o tre volte al mese. Talcolta provava una dolce ma cocente nostalgia per quella bellissima parte di Irlanda che aveva potuto esplorare e assaporare assieme a Ben. Adorava quei luoghi, ma non rimpiangeva di averli sostituiti con i ritmi e le atmosfere della grande città .
«Tracy… come stai?»
I suoi pensieri furono presto interrotti dall’arrivo di Ben. Si voltò verso di lui e gli sorrise.
«Ero venuto per salutarti. Devo andare al lavoro.»
«Di già ?»
«Sì. Devo fare più ore finché non rientra il mio collega non rientra. Ma tu, piuttosto, come ti senti?»
«Uhm… meglio, non preoccuparti» mentì.
«Sicura? Forse è meglio se ti stendi ancora un po’ a letto.» Tracy scosse il capo.
«Hai riposato, almeno?»
«Sì… però avevo bisogno di alzarmi un po’.»
«A cosa stavi pensando poco fa?»
«A te… a noi.»
«Cosa intendi?» Le si avvicinò.
«Stavo ricordando il giorno in cui ti ho incontrato, e mi hai salvata… Non saremmo qui, ora.»
Ben le accarezzò la testa, affondando le dita fra i suoi lunghi e ondulati capelli. Le sorrise dolcemente. «Tutto ok. Posso stare tranquillo allora?»
Tracy annuì, mentendogli di nuovo. «Vai, ora, sennò fai tardi. Ti aspetto stasera. Non preoccuparti per me: se ho bisogno, ti chiamo.» Lo baciò sulle labbra. Lo vide andar via e chiudersi la porta alle spalle. Si affacciò di nuovo alla finestra e rimase a osservare la lunga e trafficata via della città , brulicante di vita. Appoggiò una mano sul ventre tondo e l’altra sul suo debole cuore.
Londra, 1972
Il dottor Ridley era entrato nel suo studio da qualche minuto. Seduto dietro la scrivania d’ebano, se ne stava a capo chino, intento a leggere alcuni fogli. Ne prese uno in mano, avvicinandoselo un poco al volto, e si sistemò gli occhiali sul naso. A un tratto corrugò la fronte e fece una smorfia. «Da quanto tempo… signora…»
«Tracy. Tracy Chapman.»
«Sì… stavo dicendo, da quanto tempo accusa questa aritmia, signora Chapman?»
«Ormai, da un po’…»
«Potrebbe essere più precisa? Qualche mese, per esempio?»
«No, in realtà sono diversi anni.»
Ridley alzò di colpo lo sguardo su di lei e appoggiò il foglio sulla cartellina bianca. Rimase in silenzio alcuni istanti, un’espressione tesa sul volto. «Ho bisogno di farle alcune domande perché, come le è stato detto poco fa, sto sostituendo il mio collega, il dottor Grant, a cui lei ha già avuto modo di presentare il problema, seppur sommariamente, a quanto ne so.»
Tracy annuì. «Prego. Mi chieda pure.» Il tono gentile tradì una velata ansia.
«Mi ha detto anni… ma non si è mai sottoposta a esami cardiologici, prima?»
«No.»
«Mi scusi, ma… nessun controllo?»
«No, dottore.»
«Mi dica gli anni, per favore. Quanti sarebbero?»
«Sei… forse, sette.»
«Uhm… e con quale frequenza?»
«Non saprei dirle, sinceramente. Ho avuto dei periodi dove l’aritmia si presentava più volte, e nell’arco di due, tre mesi… poi, per diverso tempo, non mi capitava di sentirla.»
«Dolori al torace, suppongo…»
«A volte… sì, a volte anche quelli. Brevi e improvvisi, simili a fitte.»
«Capisco. Frequenza irregolare e… qualche fitta al petto. Comunque, poco importa. Il referto è chiaro.»
«Cosa intende, dottore?»
«Signora Chapman… lei è affetta da stenosi mitralica.»
Rimase in silenzio. Serrò le labbra. «Potrebbe spiegarsi meglio?»
«Ha una malformazione cardiaca alla valvola mitralica. Questa patologia comporta un restringimento della valvola, e questo compromette la corretta attività cardiaca. In sostanza, succede questo… la valvola mitralica, che si trova a livello dell’orifizio che collega l’atrio sinistro al ventricolo sinistro del cuore, ha la funzione di regolare il passaggio unidirezionale del sangue, ricco di ossigeno, tra le due cavità cardiache, durante le fasi di diastole e sistole. Per cui, quando il normale flusso sanguigno attraverso la valvola è ostacolato, il sangue tende ad accumularsi nell’atrio, cioè la prima cavità che esso attraversa quando giunge al cuore. L’effetto di questa sosta forzata si traduce in un aumento di pressione all’interno dell’atrio e, in generale, di tutto ciò che si trova a monte dell’occlusione, polmoni compresi… Stiamo parlando di ipertensione atriale e polmonare, signora Chapman. Ora, non le indicherò nel dettaglio ciò che avviene, può bastare quello che le ho appena spiegato. È un processo che prevede diversi eventi consequenziali, concatenati fra loro.»
«Io… io non so cosa dire.»
«Non ne ha mai sentito parlare, vero?»
Tracy scosse il capo, affranta. «No.» Era preoccupata, ma non stava pensando a se stessa, in quel momento.
«Vede, in sintesi è come quando una diga accumula acqua senza sosta e non riesce a scaricarla.»
Tracy alzò lo sguardo, incrociò quello di Ridley e vi lesse una grande umanità . «Dottore» gli disse dopo alcuni istanti di silenzio. «Che cosa succede, di solito, in questi casi?»
«Come può immaginare, la terapia dipende sempre dallo stadio della patologia. Nel suo caso, una stenosi di forma lieve e sintomatica, si ricorre alla somministrazione di alcuni farmaci… Volevo parlarle appunto di questo, signora Chapman.»
«Non credo vi sia molto da dire, dottor Ridley.»
«Ho come l’impressione che lei sappia già ciò che sto per dirle… non è così, Tracy?» La chiamò per nome, stavolta dimostrando di voler instaurare un rapporto più umano e confidenziale con lei in quel momento delicato e doloroso.
«Non prenderò farmaci, dottore… Non posso e non voglio farlo… Sono appena entrata nel quinto mese di gravidanza.»
«Sa cosa significa per lei, vero?»
«Il bambino viene prima di tutto.»
«Lei sta scegliendo di non curarsi, così.»
Tracy scosse il capo. «Ma il bambino… ne risentirà , mio figlio?»
«No. La patologia in sé comunemente non ha conseguenze sul feto. Lei andrà avanti con la gravidanza… ma vede, potrebbero esserci delle complicazioni durante il parto.»
«Cosa intende? Mi ha appena detto che mio figlio non ne risentirà ! Nascerà , Dottore?» Istintivamente, si portò le mani al grembo.
«Sì, Tracy, il parto andrà a buon fine, ma…»
«Dottore, la prego… ma cosa?»
«Sono certo che suo figlio nascerà e sarà sano… e se il suo cuore sarà abbastanza forte, Tracy, potrà vederlo, una volta nato. In caso contrario…» Non erano necessarie altre parole. Era tutto tremendamente chiaro. Estremamente amaro. O lei o il bambino. La vita, pensò, era sempre e soltanto una questione di scelte, un’agghiacciante roulette. Con autentico amore materno, scelse lui.
Posò la penna sul tavolo della cucina, accanto alla lettera, mentre quel ricordo stava lentamente dissolvendosi dentro di lei. Erano trascorsi ormai dieci giorni, da quell’incontro rivelatore. Da quando una triste verità era entrata a far parte della sua vita. Ancora una volta. Un lieve tremore, in
quella esile mano. Dita affusolate, eteree, costrette a compiere il gesto per lei più doloroso. Parole. Soltanto parole. Che non avrebbe mai pensato di poter scrivere. Di dover scrivere. Di vivere nel suo debole cuore. Era stato uno sforzo immane, accettare quella verità , così frustrante riflettere e comprendere cosa bisognava fare in quella delicata circostanza. In quei dieci giorni, tutto ciò era diventato il suo primo e unico pensiero. Il suo nemico.
Con la mano ancora tremante prese la lettera. Con occhi lucidi, la rilesse lentamente, in silenzio, cercando di capire se ciò che vi era scritto fosse abbastanza giusto, ...