Il falso nemico
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Il falso nemico

Perché non sconfiggiamo il califfato nero

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il falso nemico

Perché non sconfiggiamo il califfato nero

Informazioni su questo libro

Un reportage dalle zone più infuocate del mondo, a tu per tu con la follia e il dolore, ma anche il tentativo di capire cosa si nasconde dietro il sanguinoso gioco di specchi che chiamiamo califfato nero. "Ogni volta che torno dalla guerra è più difficile ricomporre i pezzi, ricostruire i lineamenti del califfo. Capire chi siano i suoi veri amici e i falsi nemici." L'onda nera sta dilagando, cambiando per sempre il volto del mondo e le nostre abitudini. Si diffonde come un cancro, si insinua nelle nostre vite. Ma chi propaga l'infezione? Com'è stato possibile che poche migliaia di jihadisti abbiano inventato dal nulla uno Stato grande come il Regno Unito e siano in grado di organizzare stragi in ogni angolo del pianeta? Questo libro racconta quali incredibili complicità e quanta occidentale sapienza si nascondano sotto la maschera dei nuovi terroristi. Che si sono formati sotto gli occhi delle grandi potenze, riprendono le esecuzioni come nei film di Hollywood, hanno connessioni internet ultraveloci e autostrade su cui sfrecciano indisturbati trasportando armi fabbricate in Occidente. Il nemico non è sempre quello che sembra. Basta guardare alla sofferenza delle vittime di questo massacro infinito, donne bellissime e bambini senza futuro, profughi da Aleppo a Milano. Perché se in Italia l'orizzonte muore a Lampedusa, sui corpi dei migranti, nel cimitero delle barche, se è quello l'ultimo confine da difendere, allora l'Europa non ha avvenire. Mentre è solo occupandoci dei nostri errori e del loro dolore che potremo avere una chance. C'è una guerra in corso, e non la stiamo vincendo. Il califfo è già qui tra noi, confuso tra la folla. Coi suoi mille volti, pronto a morire per rinascere ancora.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
Print ISBN
9788817086967
eBook ISBN
9788858686119
Argomento
Historia

Gli scheletri e le maschere

Primo viaggio

I fantasmi del sottosuolo
Mi vengono incontro nel buio fetido di questo immenso garage. Uomini dal passo incerto con magliette bucate e ciabatte rotte, donne scarmigliate coi vestiti sbiaditi, tanti bambini magri e scalzi. Questo doveva essere il parcheggio sotterraneo di un centro commerciale, invece è una città di profughi senza cielo né finestre. Sono cristiani fuggiti dalla zona di Qaraqosh, nella piana di Ninive. Vivono qui sotto da tre mesi e la loro pelle ha perso il colore, come squamata. Sono fantasmi ricoperti di stracci, indeboliti dall’oscurità.
Questa è Ankawa, periferia di Erbil. Un misto di palazzi scalcinati, edilizia residenziale, scheletri di cemento e tante chiese cristiane. I giovani curdi ci vengono a bere whisky e tirare notte. Ma adesso, alla fine di agosto del 2014, il quartiere è sconvolto dall’emergenza profughi. Decine di migliaia di disperati fuggiti dall’Is sono raccolti qui alla meglio, in grosse tendopoli sparse. E visto che fuori fanno 50 gradi, molte famiglie si sono rintanate nel sottosuolo in cerca di fresco.
Dentro il garage c’è un’aria malata. La fogna è a cielo aperto, rigagnoli di liquami inzuppano la terra e i piedi nudi dei bambini. Le donne sono quelle che si fanno sentire di più. Appena si sparge la voce del nostro arrivo, accorrono e ci mostrano lo stato pietoso in cui vivono, l’acqua sporca che bevono: «Siete americani?» ora una grande mamma vestita di nero mi pianta gli occhi addosso. «Gli americani devono tornare in Iraq! Devono venire a liberare Mosul!»
Qaraqosh è stata conquistata dai jihadisti i primi di agosto. È accaduto tutto in una notte. La colonna dei pickup, le minacce coi megafoni, i rastrellamenti, le regole del califfo: hanno segnato le case dei cristiani con la N di nazareni. Poi sarebbero andati casa per casa a chiedere la jizya, la tassa per chi non è musulmano. O magari li avrebbero uccisi subito, come hanno fatto con gli sciiti e gli yazidi.
Loro, i cristiani, non hanno aspettato. Sono scappati portandosi dietro niente e ora sono qui, davanti ai miei occhi. Un quarto di tutti i nazareni d’Iraq vivevano nella piana di Ninive. Questo è un esodo, ma non soltanto di povera gente. Anche di famiglie agiate, borghesi. Parlando con questi fantasmi del sottosuolo scopro che si tratta spesso di commercianti, insegnanti, funzionari: è la fuga della classe media ciò che rende irreversibile l’abbandono di Qaraqosh.
Ankawa è un quartiere fatto di poche strade. Ma solo ad agosto qui sono arrivati cinquantamila profughi. Cinquantamila bocche, cinquantamila cuori, cinquantamila intestini.
Nella tendopoli c’è un bagno chimico ogni duemila persone. La situazione igienica è tremenda. Sotto i teli di plastica, ci sono bambini ancora in fasce col viso paonazzo dal caldo, le pustole infettate dalla sporcizia e i primi segni della scabbia sul viso. Il caldo, la polvere e l’acqua lurida diffondono il contagio.
Un prete caldeo in lacrime mi ferma prendendomi per un braccio, e grida: «Aveva due mesi, solo due mesi. Mi è morta tra le braccia mentre cercavo un dottore». Se ne va tenendosi il viso fra le mani, tremante per l’impotenza. La chiesa qui fa moltissimo, ma non basta mai, l’emergenza è immane. Mancano le medicine, l’acqua, il cibo, soprattutto le proteine.
Fa così caldo che non sto in piedi. Dalla spianata di tende si levano le voci delle mamme e i pianti dei bambini. È una marea umana sparpagliata nelle strade, nei cortili delle chiese, nei campi. Accalcata, appena suona la campanella, attorno ai blocchi di ghiaccio portati dai volontari per raffreddare i corpi smagriti e scottati. Non avrei mai immaginato che fossero così tanti, che avessero un bisogno così disperato di tutto. Il sole di Erbil cuoce i suoi profughi. Non resisteranno a lungo in queste condizioni.
Il 21 agosto 2014 in uno di questi campi è arrivato il presidente del consiglio Matteo Renzi. L’Italia presiede il semestre europeo e lui ha promesso di portare l’Ue in Iraq. Il riferimento ai massacri in Bosnia è immediato: «Quando avevo vent’anni» racconta appena giunto nella tendopoli, «la comunità internazionale rimase zitta davanti al genocidio di Srebrenica. Ora la situazione è diversa ma ciò che succede in alcune zone dell’Iraq e della Siria è uguale a un genocidio. L’Europa può permettersi tutto tranne il silenzio».
Il massacro di Srebrenica è una delle vergogne d’Europa. Migliaia di musulmani uccisi e sepolti nelle fosse comuni mentre seicento caschi blu dell’Onu si voltavano dall’altra parte. Ma quello che il califfato sta compiendo nei giorni in cui Renzi visita la tendopoli di Erbil è ancora peggio. È un olocausto. Sono proprio questi i giorni in cui l’eliminazione e la deportazione sistematica della popolazione civile irachena raggiungono il loro culmine. La marea nera dilaga in Iraq. Ma a parte qualche visita diplomatica, i leader europei non alzano un dito.
Verso la guerra
Lasciato alle spalle il carnaio disperato dei cristiani di Ankawa, riprendiamo il nostro viaggio continuando a muoverci verso il confine invisibile dello Stato islamico in Iraq. La piccola Toyota sobbalza di continuo sui dissuasori seminati ovunque lungo la strada che corre verso nord. Bozzi di asfalto, posti di blocco, baffoni impolverati di peshmerga che chiedono documenti e scrutano attraverso i vetri. Qui sono i curdi l’unico esercito di terra. Hanno fama di guerrieri invincibili: peshmerga è un nome eroico, significa «prima della morte», come dire che non conoscono la paura. Ma a guardarli sembrano combattenti invecchiati in fretta, poco equipaggiati e motivati. Costretti ad arretrare dalle conquiste a raffica dell’Is. Al fronte di Makhmour arriviamo dopo aver attraversato villaggi desertificati dalla guerra. L’Iraq non è più una nazione ma un territorio lacerato in mille punti. L’esercito iracheno è in fuga. I curdi resistono come possono. Il confine della paura è un serpente nero che ogni giorno disegna linee nuove sulla sabbia del nord. L’esercito del califfo fa guerriglia con le mine disseminate sul ciglio delle statali: non si contano più i convogli pershmerga saltati per aria.
La paranoia per gli ordigni è enorme. La leggo sul volto scuro del generale Sirwan Barzani, comandante di questo avamposto a meno di 70 chilometri da Mosul. I Barzani sono la famiglia più potente del Kurdistan iracheno: lo zio di Sirwan è il presidente Massoud, leader del Pdk, il partito democratico e moderato di questa regione autonoma. Sirwan è un milionario prestato alla guerra. Magnate delle telecomunicazioni, dirige la Korek Telecom, un’azienda di telefonia cellulare da due miliardi di dollari. O meglio, dirigeva. Ora è qui, al comando della base militare ribattezzata col nome di guerra che portava quando combatteva contro Saddam Hussein: «Black Tiger».
Appena entro nel suo ufficio, il generale, un uomo alto e distinto, dalla parlata calma, sparpaglia sul tavolo cinque sim card: «Queste le abbiamo trovate ieri durante un pattugliamento. I terroristi le inseriscono nei cellulari e poi collegano i telefoni a ordigni nascosti nelle auto o ai bordi delle strade. Quando passano i nostri militari, chiamano quel numero di cellulare e la bomba esplode. Negli ultimi mesi è accaduto undici volte». Le sim, mi fa notare Barzani, sono tutte dello stesso operatore telefonico. «E sa a chi appartiene quella società?» ora un lampo impercettibile gli attraversa lo sguardo. «A una famiglia del Qatar.»
Che i finanziamenti esteri allo Stato islamico provengano soprattutto dalle monarchie del Golfo non è soltanto convinzione del nemico curdo. Delle raccolte fondi organizzate sui social network da fantomatiche Ong con sede in Qatar, Kuwait e Arabia Saudita, in una rete internazionale di filantropi del terrore, si parla anche nei rapporti dell’amministrazione Usa. Gli sponsor sono gli stessi che foraggiano, dal 2003, i combattenti di Al Qaeda in Iraq (Aqi), il gruppo di Abu Musab al Zarqawi dalle cui ceneri nascerà l’Is.
Con il ritiro progressivo delle truppe statunitensi, la resistenza jihadista comincia a costruire anno dopo anno una vera e propria economia del terrore: nel 2006 si calcolano già parecchie decine di milioni di dollari, frutto principalmente di confische ai danni della popolazione, riscatti e altre attività criminali. Seduto su una montagna di dollari, il nascente Stato islamico si organizza e si arma. Fino a dilagare.
Grazie anche all’esercito iracheno, tacciato dai curdi di codardia, incapacità e corruzione. Non si spiega altrimenti, a detta loro, l’incredibile capacità di fuoco del califfato rispetto ai male equipaggiati peshmerga.
Per rendere tangibile la loro convinzione, gli uomini del generale Barzani mi accompagnano sul piazzale della caserma, dove è parcheggiato un enorme blindato Humvee di fabbricazione americana strappato in battaglia ai jihadisti. Toccando gli sportelli e i vetri spessi quasi 10 centimetri, mi rendo conto dell’inutilità dei kalashnikov e dei razzi Rpg contro una tale corazza: bastano appena a scalfirli. «Avremmo bisogno di lanciamissili ed elicotteri Apache» si lamenta Barzani, «invece facciamo la guerra con vecchi fucili russi e bombe a mano. Gli unici due elicotteri disponibili sono piccoli velivoli della polizia. I carri armati sono tutti fermi nelle rimesse, mancano i pezzi di ricambio. Aiutateci.»
Ogni generale, colonnello, capitano, soldato semplice o volontario che incontro mi ripete la stessa frase, lancia lo stesso messaggio al governo italiano: mandateci più armi, qui stiamo combattendo a mani nude contro un esercito molto meglio equipaggiato.
E noi? Come abbiamo risposto all’appello dei curdi? Abbiamo fatto la nostra parte?
Nel settembre del 2014 l’Italia, per dar seguito all’impegno preso da Renzi a Erbil, invia armi ai peshmerga. Ma sono poche e vecchie. I numeri li fornisce il ministro della Difesa Roberta Pinotti al Parlamento: cento mitragliatrici Mg 42/59, cento mitragliatrici Browning 12.7, mille razzi Rpg 7 e mille fantomatici Rpg 9 che in realtà non esistono. Forse è un errore di battitura del ministero e ci si riferisce all’Spg 9, arma anticarro russa. O magari all’Rpg 29.
Ma la sorpresa è nelle munizioni: il governo italiano all’inizio di quell’autunno ne spedisce ai peshmerga duecentocinquantamila per l’Mg 42, altre duecentocinquantamila per i Browning e quattrocentomila per mitragliatrici sovietiche Dshk. Una fornitura risibile se si pensa che un Mg puo’ sparare fino a ottocento colpi al minuto. Fatti due calcoli, vengono fuori duemilacinquecento colpi a mitragliatore: con un po’ di parsimonia, quattro minuti di autonomia. Per dare un’idea, l’Albania invia nello stesso periodo ai curdi ventidue milioni di munizioni.
Il problema principale però è un altro: il grosso delle armi e munizioni italiane destinate ai curdi arrivano sul fronte dei peshmerga soltanto mesi dopo l’annuncio del nostro governo: a febbraio del 2015, ben sei mesi dopo la visita di Renzi a Erbil. Oltre ai mitragliatori, ci sono vecchi cannoni Folgore acquistati negli anni Ottanta dalla Breda e finiti nei magazzini a prendere polvere. I curdi ne sono felici, perché quei residuati potranno comunque aiutarli a fermare i tank nemici. Ma le ragioni di un tale ritardo nell’arrivo delle armi al fronte sono ancora un mistero. È possibile che il governo centrale di Baghdad, prima stazione di sbarco del carico italiano, abbia ritardato la consegna nel timore di rafforzare i peshmerga e il temuto indipendentismo curdo. Oppure che le armi siano rimaste impigliate nelle more della burocrazia procedurale italiana. Resta il fatto che, nell’autunno del 2014, la fase di massima espansione dello Stato islamico, il divario di forze sul terreno fra jihadisti e curdi è enorme. E l’Italia, al solito, fa sfoggio di prudenza. Chissà che nel dibattito su quando e quanto armare la guerra contro l’Is non abbiano pesato le dichiarazioni dell’ex ministro della Difesa del governo Prodi, Arturo Parisi: «Dare armi ai curdi e dargliele direttamente, ancorché nel rispetto della statualità irachena, è in sé un riconoscimento di una loro soggettività internazionale aperto sul futuro. E dargliele esplicitamente per combattere la jihad è una scelta di campo che ci compromette nel presente».
Insomma, mentre nel nord dell’Iraq un manipolo di peshmerga prova ad arginare l’avanzata dei tagliagole dell’Is in condizioni di equipaggiamento drammatiche, coi fucili arrugginiti e mangiando yogurt e pomodoro in trincee esposte ai mortai e ai kamikaze nemici, nei grandi parchi di Roma cadono le foglie dagli alberi e nei palazzi del governo si traccheggia sull’intervento. L’obiettivo è adottare una politica del basso profilo, cercando di non farsi notare troppo dai tagliagole di Mosul. E alla fine si sceglie la tradizionale via italiana: quella di un appoggio molto timido, praticamente simbolico. Ci siamo e non ci siamo, ci facciamo vedere ma non troppo. Spediamo armi ma poche. Spendiamo soldi, ma spiccioli. Il via libera del ministero dell’Economia all’invio di armi, deliberata a settembre, copre un milione e novecentomila euro. Per dare un’idea, i tedeschi ne inviano nello stesso periodo per settanta milioni di euro.
Invece il califfato è armato fino ai denti. Grazie all’Occidente.
Un fiume di piombo
L’8 dicembre 2015 Amnesty International pubblica un rapporto intitolato «Fare scorta: come abbiamo armato lo Stato islamico», in cui si denuncia come decenni di forniture sregolate di armi all’Iraq e la scarsità di controlli abbiano garantito ai jihadisti un massiccio arsenale per compiere crimini di guerra su vasta scala, sia in Siria sia in Iraq.
Gli esperti al lavoro per l’ong hanno passato in rassegna migliaia di video e immagini di cui è stata verificata l’autenticità: ne è risultato un catalogo di oltre cento diversi tipi di armi e munizioni che sarebbero in uso all’Is e sono state prelevate dai depositi militari iracheni. Provengono da molti Paesi tra cui Russia, Cina, Stati Uniti e alcuni Stati dell’Unione Europea.
Con la conquista di Mosul nel giugno del 2014, l’esercito di Al Baghdadi entra in possesso di un’incredibile quantità di armi e munizioni di fabbricazione internazionale. Quegli arsenali pieni sono la conseguenza di decenni di trasferimenti irresponsabili da parte delle grandi potenze all’Iraq e della mancata introduzione di meccanismi di monitoraggio, a partire dall’occupazione militare del 2003. La mancata sorveglianza dei depositi militari e la corruzione endemica dei vari governi iracheni hanno contribuito ad aggravare la situazione.
Queste armi sono state pagate col petrolio o sono state oggetto di accordi tra il Pentagono e la Difesa irachena o, ancora, frutto di donazioni da parte della Nato. I jihadisti le hanno trovate nelle basi militari finite sotto il loro controllo, oppure le hanno acquistate al mercato nero dopo che sono state trafugate dai magazzini.
È vero che l’Is comincia ben presto a produrre armi anche per conto proprio: razzi, mortai, granate, ordigni esplosivi improvvisati, trappole esplosive, autobomba, mine terrestri e persino bombe a grappolo. Ma sono le attrezzature «importate» dal nemico quelle che rendono inarrestabili le orde del califfo.
Parliamo di equipaggiamenti per vincere una guerra: sistemi Manpads di difesa aerea portabili a spalla, missili anticarro guidati, veicoli blindati da combattimento, fucili d’assalto come gli Ak russi e gli M16 e i Bushmaster statunitensi. La maggior parte delle armi convenzionali usate dai jihadisti risale al periodo che va dagli anni Settanta agli anni Novanta e comprende pistole, rivoltelle e altre armi leggere, mitragliatrici, armi anticarro, mortai e altra artiglieria. Molto utilizzati sono i fucili tipo kalashnikov dell’era sovietica, prodotti soprattutto in Russia e Cina.
Insomma, il principale nemico dell’Occidente pesca a piene mani nei magazzini bellici riempiti dalle potenze atlantiche in anni di politica dissennata.
I depositi iracheni sono colmi di ordigni e munizioni fin dalla fine degli anni Settanta, con la guerra all’Iran. In quel periodo almeno trentaquattro Paesi forniscono armi all’Iraq, e ventotto di questi le mandano in contemporanea anche all’Iran. Nel frattempo, l’allora presidente iracheno Saddam Hussein dirige lo sviluppo di una fiorente industria in grado di produrre armi leggere, mortai e pezzi d’artiglieria.
L’embargo imposto dall’Onu, dopo che nel 1990 l’Iraq ha invaso il Kuwait, riduce le importazioni. Ma dal 2003, durante e dopo l’invasione diretta dagli Stati Uniti, le forniture riprendono in modo massiccio, in molti casi senza garanzie né controlli da parte delle forze della coalizione e delle ricostituite forze armate irachene. Il commercio riguarda oltre trenta Paesi, tra cui tutti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Una parte consistente di queste finisce prima nelle mani degli insorti anti Usa e, successivamente, in quelle dei qaedisti e dell’Is.
È un traffico di piombo che trova nuovo impulso quando il presidente Obama decide di ritirare le forze statunitensi da Baghdad. L’obiettivo di rafforzare il disastrato esercito iracheno porta a un nuovo, incontrollato flusso di artiglieria. Tra il 2011 e il 2013, gli Usa sottoscrivono contratti del valore di miliardi di dollari per la fornitura di 140 carri M1A1 Abrams, decine di aerei da combattimento F16, 681 missili Stinger terra-aria, batterie antiaeree Hawk e altro equipaggiamento. Alla fine del 2014, Washington invia al governo iracheno armi leggere e munizioni per un valore di oltre cinquecento milioni di dollari. Alcuni mesi prima, il 15 agosto 2014, la risoluzione 2170 del Consiglio di sicurezza dell’Onu aveva rinnovato l’embargo sulle forniture di armi allo Stato islamico e al Fronte al Nusra, affiliato ad Al Qaeda. Ma inondare di armi i depositi iracheni senza essersi prima accertati che fossero a disposizione di ufficiali capaci, coraggiosi e fedeli allo Stato, è stato un errore fatale di Washington. Nel 2014, le strutture militari irachene sono un colabrodo e il virus della corruzione devasta letteralmente le istituzioni e la società, sfibrata dalla crescente ostilità tra il nuovo potere sciita incarnato dal premier Al Maliki e le minoranze sunnite. La verità è che nessuno è in grado di tenere sotto controllo i loschi traffici di armi che continuano ad alimentare i gruppi islamisti e dissanguare le caserme irachene. Il cancro dell’Is cresce e si diffonde velocemente, preparandosi a conquistare paesi e città nel nord del Paese ma anche alle porte della capitale...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prologo
  4. Gli scheletri e le maschere. Primo viaggio
  5. Generazione Camp Bucca
  6. Sull’orlo dell’Occidente
  7. Il mattatoio. Secondo viaggio
  8. Spie, combattenti e falsi amici
  9. La propaganda
  10. Alle radici delle stragi. Terzo viaggio
  11. Là dove tutto è cominciato. Quarto viaggio
  12. Mani blu
  13. I falsi nemici
  14. Ringraziamenti
  15. Bibliografia