CAPITOLO OTTO
La casa è una deliziosa cascina ristrutturata, dalle pareti bianche e i mattoni a vista lungo gli archi che la contornano. Deliziosi fiori colorati crescono lungo il vialetto e ogni davanzale ha un suo piccolo e rigoglioso giardino.
Come scendiamo dall’auto, una signora dalle forme rotonde, una crocchia bionda sulla testa e un sorriso cordiale, si avvicina agitando le braccia al cielo.
«O buon Dio, ma cosa vi è successo?»
«Ciao, zia!» Giulio la abbraccia forte, così com’è, ancora tutto bagnato, e lei lo scansa via, cercando di rifilargli una sonora sculacciata e apostrofandolo «incorreggibile ragazzaccio», ma si vede che è felice di averlo lì, e i suoi occhi rivelano affetto e orgoglio per quel nipote palestrato e indisponente.
«Amabel, lei è mia zia Lucia. Zia, lei è Amabel. L’ho trascinata a pesca ma l’epilogo non è stato dei migliori: siamo caduti nel lago e siamo anche a mani vuote. Possiamo…»
«Certo, certo, ho capito. Adesso porto questa bella signorina a fare una doccia calda e le cerco qualcosa per vestirsi, mentre i suoi vestiti asciugano al sole. E tu» lo apostrofa usando un tono burbero e autoritario, «lavati in giardino e metti la tua roba ad asciugare. E poi vieni ad aiutarmi in cucina!»
«Hai capito come mi tratta?» protesta Giulio, fingendosi offeso.
Lucia mi prende sottobraccio, sorridendo. «Vieni, mia cara. Spero solo di trovare qualcosa da prestarti. Sei così alta e minuta, un fisico da modella, di certo non come il mio. Nemmeno da giovane ero così carina… però qualche spasimante ce l’avevo anch’io» dice facendomi l’occhiolino e trascinandomi via con lei.
Doveva essere davvero una bella donna, lo intravedo dagli occhi celesti e vivaci, dal sorriso radioso, dai capelli ancora ricchi di fili d’oro.
Dentro la casa è ancora più bella: i mobili, tutti rigorosamente di legno, sono lucidi e sembrano emanare odore di bosco. In particolare sono colpita da una credenza, sicuramente antica, con intarsi in legno che raffigurano rami colmi di fiori e frutti.
«Ha una casa bellissima» esclamo con sincerità.
«Grazie, mia cara. Il mio buon marito ci teneva come e più di me. Andavamo spesso per mercatini di antiquariato a cercare vecchi mobili che a volte lui stesso restaurava.»
Mi accorgo che solo a nominarlo i suoi occhi sono diventati lucidi, così non chiedo più nulla. Saliamo per le scale fino a una stanza da letto, perfettamente ordinata, da dove arriva un intenso profumo di lavanda.
«Questa è la mia stanza. Di fianco c’è il bagno.»
La vedo cercare qualcosa nell’ultimo ripiano di una cassettiera e alla fine estrarre una vestaglia di cotone azzurra e un vestito completamente abbottonato sul davanti e decorato da minuscoli fiori bianchi e azzurri.
«La vestaglia è nuova, forse sarà un po’ grande. Il vestito è mio, lo mettevo anni fa. È solo un vestitino da casa… sai, per stare freschi d’estate… ma è pulito e in ordine.»
Sembra quasi imbarazzata e provo un moto di tenerezza. «Andrà benissimo, grazie mille.»
«Bene, allora ti metto anche degli asciugamani in bagno. Se vuoi iniziare a spogliarti, nel frattempo puoi stendere i tuoi vestiti nel balconcino della stanza. Ci batte il sole tutto il pomeriggio.»
La ringrazio ancora, dopodiché mi denudo, infilo la vestaglia e mi sento avvolta da un effluvio di lavanda. Sicuramente usa mettere nei cassetti dei rametti profumati, proprio come faceva mia madre.
Esco nel piccolo balcone per stendere i miei indumenti, quando vedo, sotto di me, Giulio che si sta sfilando i jeans rimanendo solo con degli attillatissimi boxer neri. E non basta…
Apre il rubinetto del tubo dell’irrigatore, con cui probabilmente innaffiano il giardino intorno casa, e se lo passa sul corpo come fosse sotto la doccia, cantando disinvolto una canzoncina. L’acqua gli cola lungo la schiena, il petto, per poi scendere più in basso e far aderire ancora di più i boxer alla pelle. Il sedere già tonico sembra ancora più evidente, e non solo quello. Provo un improvviso calore nascere dentro e un leggero giramento di testa. Non so dire se perché non ho ancora mangiato nulla o per lo spettacolo che si sta presentando ai miei occhi. Poso entrambe le mani sulla ringhiera, come per trovare sostegno, mentre Giulio continua a far scorrere l’acqua sul viso, lungo i rigonfiamenti degli addominali, le gambe, fino ai piedi, dove si è creata una piccola pozza. Ha i capelli appiccicati alla fronte, i muscoli tesi. Mi mordo il labbro e alzo i piedi sulle punte per sbirciare meglio, seminascosta dai vasi straripanti di gerani rossi, che ornano il balcone di zia Lucia. Più lo contemplo e più l’eccitazione sale. Ma cosa sto facendo? E proprio nell’istante in cui la razionalità sta per prendere il sopravvento, lui si gira e guarda in alto, nella mia direzione. Con un balzo felino scatto all’indietro, battendo il piede nello stipite della porta e mi spiaccico contro la parete sperando di mimetizzarmi come un geco. Mi sento come un’adolescente sorpresa a spiare negli spogliatoi maschili durante l’intervallo: non è possibile! E tutto questo per colpa di Elena e dei suoi propositi di vendetta…
Ma no, a chi voglio darla a bere. Provo una forte attrazione per quest’uomo e non riesco più a nasconderla e, ahimè, neanche a trattenerla.
Sbircio la situazione nel giardino sottostante, allungando appena il collo: intravedo la schiena, scorgo anche un piccolo tatuaggio che mi era sfuggito. Prima di tornare a sbavare lascio la stanza e corro a farmi una doccia: forse fredda è meglio.
Chissà, potrebbe anche non avermi vista, in fondo…
Quando scendo Giulio è già in cucina: ha dei jeans sporchi di vernice e una canotta grigia che lascia i bicipiti e i tricipiti bene in mostra. Sta addentando del pane sotto lo sguardo severo di Lucia, intenta a girare un cucchiaio di legno in quello che, dal delizioso aroma, immagino sia il sugo per la pasta.
«Vieni, cara. Ti sta d’incanto quel vestitino» dice voltandosi verso di me.
«Già, davvero d’incanto» ripete Giulio, lanciandomi uno sguardo di fuoco.
Deglutisco a stento e istintivamente porto le mani all’orlo dell’abito per allungarlo. È come se avessi indosso un prendisole, corto sopra le ginocchia, che ondeggia pericolosamente a ogni mio movimento. Sorrido imbarazzata e mi precipito sulla sedia.
Giulio ridacchia sporgendo il collo, poi mi fa l’occhiolino e si volta per immergere furtivo un pezzo di pane nell’intingolo odoroso di pomodoro e basilico. Lucia, per tutta risposta, gli dà una bacchettata sulla mano con il cucchiaio di legno, scuotendo la testa come se si trovasse di fronte un bambino. Già, un bambinone con un corpo da favola e un sorriso che conquisterebbe chiunque, ma completamente inaffidabile.
«Avanti: tutti a tavola. Butto giù gli spaghetti.»
Giulio si siede di fronte a me, senza mai staccarmi gli occhi di dosso. L’espressione è la stessa di una sfinge: non saprò mai se mi ha scoperta o no nella mia scadente interpretazione di Mata Hari. Nel dubbio, ostenta un’espressione serafica.
«Scusa per come son conciato, ma erano gli unici abiti che avevo qui. Ho aiutato la zia a verniciare le persiane… Vedi cosa mi costringe a fare durante le mie vacanze?» brontola ostentando un’espressione corrucciata che mi fa scoppiare a ridere.
«Non dargli retta. Ha fatto un piccolo lavoretto e me lo rinfaccia ogni giorno» scherza lei.
La pirofila fumante è al centro del tavolo. Uno a uno ci passiamo il forchettone per portare gli spaghetti nel piatto. Lucia premurosa mi passa subito il parmigiano grattugiato, mentre Giulio versa a ciascuno del vino bianco frizzante.
L’atmosfera è così rilassata da non aspettarmi assolutamente questa domanda: «Amabel… è un nome particolare. Mi ricorda qualcosa» dice Lucia portando un dito alla fronte. «Sei di queste parti?»
Gelo. Che stupida. Non avevo affatto pensato al fatto che sua zia potesse ricordarsi della mia famiglia. E adesso che devo fare? Cerco di tranquillizzarmi pensando che, anche se sapesse chi sono i miei parenti, non può certo ricordare l’amicizia di due bambine. In fondo lei non era una nostra conoscente, io non la ricordo neppure.
«Amabel non è di qui ma aveva dei parenti, una prozia. Giusto?» interviene Giulio senza neanche lasciarmi rispondere. «E non iniziare con le tue solite chiacchiere, zia, lasciala mangiare in pace.»
Proprio chi sto cercando di smascherare mi salva dall’essere smascherata a mia volta.
«Sono stata qui da bambina. Invece so che voi avete sempre abitato qui, anche Giulio, per molti anni…»
Lo so, non sto ricambiando il favore, ma forse potrei far uscire il discorso su Elena e il matrimonio mancato.
«Già, e speravo che si fermasse qui, ma cosa può offrire un piccolo paese a un ragazzo ch...