Quell'amore portato dall'Africa (Youfeel)
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Quell'amore portato dall'Africa (Youfeel)

Chi vuole sul serio qualcosa trova una strada, gli altri una scusa.

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Quell'amore portato dall'Africa (Youfeel)

Chi vuole sul serio qualcosa trova una strada, gli altri una scusa.

Informazioni su questo libro

Chi vuole sul serio qualcosa trova una strada, gli altri una scusa. Un progetto letterario e un lutto da superare spingono la giovane scrittrice Cristina Morru a partire per il continente nero. In uno sperduto villaggio del Congo scoprirà una nuova se stessa e soprattutto l'amore, che veste i panni di Jonathan Weiss, medico americano volontario. Ma l'imprevisto si accanisce su Cristina: un tragico evento la porta via dalla sua nuova vita. Sarà costretta a lasciare l'Africa, una terra che nonostante tutto le manca e che ha imparato ad amare sopra ogni cosa. E soprattutto le mancherà Jonathan, quell'uomo che le ha riempito il cuore. Ma proprio quando ormai tutto sembra perduto, uno spiraglio di luce si affaccerà nuovamente su Cristina. La luce calda e viva dell'Africa, dove tutto può succedere, dove tutto può rinascere. Mood: Emozionante - YouFeel RELOADED dà nuova vita ai migliori romanzi del self publishing italiano. Un universo di storie digital only da leggere dove vuoi, quando vuoi, scegliendo in base al tuo stato d'animo il mood che fa per te: Romantico, Ironico, Erotico ed Emozionante.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
eBook ISBN
9788858686089

CAPITOLO DODICI

Ripensare a quei momenti mi fa star male, si dice che il tempo guarisca tutte le ferite, purtroppo però non è sempre così.
Il terrore aveva gelato la mia mente, la mia persona, ogni mia volontà. Avevo sentito raccontare ogni genere di atrocità di cui erano capaci quegli individui. Io, in quanto donna, potevo solo aspettarmi il peggio in una simile circostanza.
Stupri e torture gratuite erano il pane quotidiano di quelle tribù. Avevo visto con i miei occhi di che cosa erano capaci quegli esseri. Le stesse donne che avevo conosciuto al villaggio mi avevano raccontato ogni sorta di atrocità subita da mariti padroni e da uomini violenti senza scrupoli che le avevano violentate e costrette ad avere rapporti intimi contro la loro volontà.
La maggioranza di quei bambini sorridenti che avevo conosciuto erano il frutto della violenza gratuita che, in quelle zone così remote del mondo, è una terribile atrocità quotidiana.
Durante il tragitto in auto chiusa in quel maleodorante bagagliaio con una benda sugli occhi, pensai agli orrori più terribili che mi aspettavano. Non volevo e non potevo ricordare quell’angoscia. Era troppo per me.
Avevo vissuto ogni attimo di quei primi giorni in attesa di subire ogni genere di sopruso e violenza. Avevo pregato ogni istante di ogni singolo giorno affinché Dio mi proteggesse. In quel momento e in quel luogo avevo desiderato poter vedere mio padre, essere con lui, vivere ancora quell’ultima litigata se necessario, tutto pur di rivederlo, tutto affinché lui potesse essere ancora lì a difendermi e proteggermi come quando ero bambina.

Africa. Il sequestro

Le giornate trascorrevano frenetiche, così senza che potessi rendermi conto del tempo che passava ci comunicarono che entro una settimana saremmo dovuti rientrare, che il nostro tempo lì, in quella terra sperduta, volgeva al termine. Non avevo più trascorso un solo attimo da sola con il mio Jo, così lo avevo soprannominato dentro di me. Erano passati tre giorni da quelle ore consumate in balia di noi stessi nella mia camera.
Di lui nessuna traccia. Il mio cuore piangeva al pensiero della sua indifferenza dopo aver trascorso una bellissima notte d’amore con me. Ma forse era così che doveva andare. Che cosa mi ero messa in testa? Non ero nulla per lui, aveva avuto un momento di difficoltà e io ero stata ben felice di consolarlo, di prendermi cura di lui.
Quando quella mattina si era alzato ed era uscito silenzioso dalla mia stanza, sapevo, intuivo che probabilmente tutto quello che c’era stato tra noi in quelle ultime ore era solo un’avventura. Nulla di serio, non una relazione: due persone si erano incontrate in un momento particolare della loro vita e avevano accettato, con tacito consenso, di amarsi.
Avevo chiesto a Roberto notizie su di lui, ma era stato vago.
«È impegnato. Ha altro per la testa» aveva detto con tono freddo e distaccato.
Queste sue parole mi addoloravano, ma avevo deciso di accettare quella condizione. Quella mattina i miei occhi avevano cercato ovunque la sua figura senza ottenere nessun risultato, solo illusione.
Non lo avevo incontrato in sala da pranzo e non lo avevo visto nemmeno a cena. Mi chiusi nella mia stanza alimentando la speranza che potesse tornare anche quella notte a trovarmi, lo avrei accolto senza fare domande, perché io lo volevo e, sperai, che fosse così anche per lui: speranza vana, non bussò alla mia porta, non arrivò, mai.
Non accadde.
Avevo sentito dire a Roberto che erano state fatte delle sollecitazioni per la nostra partenza, lo stesso «dottor Weiss» ci aveva detto che avrebbe fatto il possibile per accelerare il rientro. Questione di ore, forse giorni, disse. Voleva che rientrassimo in sede il giorno seguente all’aggressione del giovane congolese che aveva perso la vita atrocemente.
Per quanto fosse una persona influente, non aveva un simile potere.
Qualcosa comunque si mosse, perché fu comunicata la data della partenza che sarebbe avvenuta con netto anticipo, mancavano pochi giorni, il rientro per motivi di sicurezza era stato anticipato.
«Finalmente, che bello, non vedo l’ora di levarmi di dosso questo fango e quest’odore di umido che non sopporto più» aveva replicato alla notizia Nicole, venticinque anni e aspirante giornalista e scrittrice.
L’avevo incontrata un paio di volte fuori dai corridoi della struttura che ci ospitava; non sembrava per nulla a suo agio, non parlava mai con quelle persone, era sempre diffidente nei confronti della popolazione locale. Il suo disappunto era visibile e, per questo suo atteggiamento, era ampiamente ripagata, infatti anche la gente del villaggio non nutriva una forte stima nei suoi confronti, così come anche per gli altri miei fantomatici colleghi, avevo avuto modo di appurare.
Avevo sentito dire che gli abitanti di quelle località sono spesso diffidenti nei confronti degli estranei che si recano nei loro villaggi; all’inizio pensavo che fossero solo degli ingrati, ma dopo aver visto il comportamento e l’atteggiamento degli altri autori, compagni della mia avventura letteraria, capii perché esisteva questa ritrosia. Sicuramente non erano i primi e, purtroppo, temo non sarebbero stati nemmeno gli ultimi.
Eravamo nella sala adibita al pranzo e alla cena, mi trovavo davanti sempre quel solito pesce essiccato che tanto amavano i volontari; io invece avevo imparato a odiarlo, per loro forse era una prelibatezza, un’usanza del luogo che permetteva loro di avere del pesce a popolare le tavole del pranzo; io, nonostante mi fossi sforzata di mangiarlo in un paio di occasioni, alla fine avevo rinunciato. Così andavo avanti mangiando polpette di una strana farina, che avevo poi scoperto essere di mais. Più che polpette, in verità era una specie di purea. Tutto sommato non aveva un brutto sapore per i miei gusti ma, appena ne avevo la possibilità, preferivo mangiare una specie di pane, il kwanga, che si ricava dalla cassava, in pratica dalla lavorazione della farina di mais. Il suo sapore non mi dispiaceva. Quando ero fortunata lo abbinavo al riso, uno tra gli alimenti principali che ho visto preparare alle donne congolesi del villaggio. Mi ero adeguata nonostante tutto; cosa che non vedevo nelle persone che mi circondavano.
«Come si può mangiare questa roba, meno male che tra qualche giorno questo supplizio finirà. Non vedo l’ora di gustarmi una bella teglia di lasagne o magari una pizza…» aveva detto Nicole. Gli altri si erano uniti in coro alle sue lamentele, non riuscivo a sopportare quell’atteggiamento, non era rispettoso nei confronti di quella gente che si era mostrata gentile e affabile con noi, soprattutto sopportando sempre la nostra presenza anche quando non era necessaria.
«Non avete un minimo di riconoscenza voi? Per non parlare dello spirito di adattamento. Ma perché siete venuti qui?» dissi adirata.
«Siamo qui per il tuo stesso motivo, solo che a differenza tua, noi sappiamo stare ai nostri posti» disse una voce maschile. Era Gerardo. Un ragazzo con il quale avevo scambiato una piacevole conversazione durante il viaggio di andata. Poi, dopo esser giunta al villaggio, la nostra affinità con il tempo era scemata.
In qualche occasione avevo notato i suoi sguardi accarezzarmi. Avevo anche pensato che forse nutrisse qualcosa per me; nessun amore s’intende, ma intuii che doveva aver fatto qualche progetto su di me. Non avevo mai contraccambiato le sue attenzioni, anche se, in verità, si era solamente limitato a fissarmi ogni tanto, ma una donna capisce e sa interpretare certi segnali. In quel momento ebbi conferma dei miei pensieri. Era il comportamento di una persona offesa e gelosa.
«Che cosa vuoi dire?»
«Nulla, nulla.»
«Se sei un uomo, abbi il coraggio di andare avanti con il tuo discorso. Non tirarti indietro.» Ero arrabbiata, ma come si permetteva di lanciare una qualsiasi allusione con il preciso intento di offendere?
«Cristina, ti abbiamo visto tutti andare in giro con quella gente e mischiarti a loro» disse Nicole sottovoce per non farsi sentire dai volontari che consumavano il pranzo in un altro tavolo poco distante da noi.
«Sono persone come noi, forse un po’ più sfortunate. C’è tanto da imparare frequentandoli. Soprattutto voi avreste potuto trarre degli insegnamenti di vita importanti, se solo li aveste avvicinati.»
Continuai, ma il mio tono non era debole. Nicole mi fece dei cenni, capii che non voleva che la discussione fosse sentita da altri. La ignorai.
«Mi dispiace per voi, non sapete che cosa vi siete persi. Se non li aveste tenuti a distanza, forse…»
«Forse cosa? Come osi offenderci così? Ci prendi per dei bambini viziati?» continuò Gerardo.
«Ma che cosa prende a voi? Sapete che vi dico, che mi avete stufato. E sì, credo che siate solo bambini viziati. Io non ho fatto nulla di male. Mi sono fatta trascinare dalle vite di queste persone, mi chiedo che cosa ne verrà fuori dai vostri manoscritti, ammesso che abbiate scritto qualcosa…» Ero arrabbiata.
«Io non ne posso più di questi insetti e di questo cibo disgustoso. Ho cominciato a fare il conto alla rovescia subito dopo aver messo piede in questo posto. Meno di una settimana e poi finalmente potremo tornare alla civiltà.» A parlare era stata Mara, una giovane laureata in comunicazione con la quale avevo scambiato davvero pochissime conversazioni, in realtà erano state più uno scambio d’informazioni reciproche. L’avevo sentita spesso lamentarsi anche con i responsabili del centro di accoglienza, questi puntualmente le avevano ricordato che non si trattava di una vacanza e che era libera di andare quando voleva. Bastava fare richiesta alla sede amministrativa dell’associazione. Lei purtroppo era lì perché obbligata dal padre, che era uno dei finanziatori della suddetta associazione. Avevo capito che era una ragazza capricciosa, abituata a volere tutto ciò che desiderava senza fare alcun sacrificio, ma usando solo la sua bocca biforcuta per fare richieste e, all’occorrenza, usando la carta di credito di papà. Più volte mi ero chiesta che cosa ci facesse in quel posto.
La risposta era giunta da diversi commenti infelici dei miei colleghi che avevo udito durante alcune riunioni. Non doveva stare simpatica nemmeno a loro, ma portava un cognome importante, quindi forse per loro valeva la pena fingersi amici. «Il padre ha detto che questa esperienza le serve per fare curriculum, non ho ben capito a che cosa si riferisse, ma queste sono state le sue parole. Appena rientrerà in Italia la metterà in contatto con alcune persone. Insomma per lei il futuro sembra già pronto.» Questo era stato solo uno dei commenti che esprimevano al meglio, e nel modo più educato, il pensiero degli altri nei suoi confronti. Mi sembrò alquanto strano che il padre l’avesse voluta mandare in quel luogo solo per motivi professionali; pensai che forse questa figura genitoriale si fosse assunta la sua responsabilità e che, una volta tanto, aveva trovato il modo giusto per dare una lezione alla figlia: l’occasione era perfetta e lei non poteva dire di no.
«Siete degli irriconoscenti.» Non diedi il tempo di replicare che mi alzai e li lasciai lì, da soli, con le loro inutili repliche.
Se pensavo alla partenza imminente mi prendeva il panico, mancava davvero poco, dovevo già cominciare a preparare la valigia e tutto per la partenza; avrei dovuto dire addio per sempre a quel posto e, non solo, avrei dovuto dire addio anche a lui.
La mia mente aveva subito cominciato a lavorare, dovevo trovare una soluzione, non avevo voglia di partire, di ritornare a quella quotidianità che aveva sollecitato la mia fuga. Forse potevo fare richiesta in sede per prolungare il mio soggiorno, mi ero detta.
Ma sapevo già che sarebbe stato inutile, se c’erano motivi di sicurezza, non mi avrebbero permesso di restare. Decisi che nei giorni successivi avrei avanzato comunque la mia proposta. Se fossi partita non lo avrei più rivisto: questo era ciò disturbava maggiormente la mia mente e il mio cuore.
Ormai, non sapevo nemmeno quando fosse accaduto, mi sentivo quasi parte integrante di quel posto, e questo stupiva anche me.
La sera, chiusa nella mia camera e avvolta da quello strano silenzio africano, la mia mente si riposava e lui appariva nei miei sogni. Mio padre, l’uomo che mi aveva cresciuta e amata senza riserve, l’uomo che più di ogni altra persona mi conosceva e sapeva tutto di me. Riuscivo a vivere il suo ricordo senza farmi prendere dall’angoscia e dal pianto. Lì, mi sentivo in pace. Avevo trovato la mia dimensione.
Quella mattina, dopo che fu dato l’annuncio del nostro imminente ritorno in patria, con una data ben precisa che scandiva il conto alla rovescia dei miei colleghi, svolsi con meno entusiasmo il mio lavoro.
Meno di ventiquattro ore. Avevo con me sempre la mia macchina fotografica e, ogni tanto, immortalavo i giochi di quei bambini innocenti che purtroppo trascorrevano la maggior parte del tempo ad affiancare le madri durante la ricerca dei prodotti offerti dalla terra, che rappresentavano una parte fondamentale della loro sussistenza.
Roberto si trovava dentro un’infermeria, io mi ero recata fuori all’aria aperta in cerca di quel caldo sole di cui già sapevo avrei sentito la mancanza. Volevo stare con quella gente, avevo superato il primo giorno e anche ampiamente la famosa settimana citata da Roberto ‒ avevo vinto, mi ripetevo ‒, le mie paure erano state largamente superate e avevo conquistato a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Frontespizio
  4. QUELL’AMORE PORTATO DALL’AFRICA
  5. TIZIANA CAZZIERO
  6. CAPITOLO UNO
  7. CAPITOLO DUE
  8. CAPITOLO TRE
  9. CAPITOLO QUATTRO
  10. CAPITOLO CINQUE
  11. CAPITOLO SEI
  12. CAPITOLO SETTE
  13. CAPITOLO OTTO
  14. CAPITOLO NOVE
  15. CAPITOLO DIECI
  16. CAPITOLO UNDICI
  17. CAPITOLO DODICI
  18. CAPITOLO TREDICI
  19. CAPITOLO QUATTORDICI
  20. CAPITOLO QUINDICI
  21. CAPITOLO SEDICI
  22. CAPITOLO DICIASSETTE
  23. CAPITOLO DICIOTTO
  24. EPILOGO
  25. NOTE DELL’AUTRICE