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Cammino rapido in mezzo a una strada quasi cancellata dalla nebbia. Un vento secco e cattivo mi fa socchiudere le palpebre, mi toglie il respiro. Mi chiedo dove sono e dove sto andando. Dal muretto di mattoni sbreccati, carico di rampicanti, che scorgo alla mia sinistra, mi sembra di riconoscere la strada che porta alla scuola in cui insegno. Non vedo a due metri di distanza. Avanzo a fatica, forzando quella parete di vento e nebbia. Improvvisamente quasi inciampo in una bambina che cammina lesta, avvolta in un cappottino rosso da cui esce un collo bianco e lungo. Faccio per dire: mi scusi, e scavalcarla, ma qualcosa in quella bambina mi blocca in mezzo alla strada, stupito. Il cappottino rosso, i capelli castani raccolti in una coda dietro la nuca, con qualche ricciolo biondo che sguscia disordinato, la camminata ciondolante, un poco sghemba. Ma è mia figlia, mi dico e grido: «Martina!». La vedo fermarsi in mezzo al marciapiede e voltarsi frettolosa come se le avessi gettato un sasso.
La bambina gira la testa e mi osserva sorridendo ma senza muovere le labbra. Non è Martina, penso deluso, eppure qualcosa le accomuna, ma cosa? Ah, certo, la camminata: come Martina, la bambina procede con quel passo che io scherzosamente chiamavo «da papera»: le punte dei piedi divaricate, la marcia decisa ma un po’ sbilenca. Ha gli occhi grandi, di un colore indeciso fra il verde e l’azzurro. Sembra canzonarmi, sfidarmi, non capisco. Ha lo sguardo candido e determinato di una bambina che si pensa già adulta. Una piccola Alice, penso, quasi avessi davanti la ragazzina delle meraviglie che sa attraversare gli specchi e calarsi senza pericolo dentro i pozzi più profondi.
Sto per dirle: buon giorno!, proponendomi di fare un piccolo inchino, come nei giochi con mia figlia quando la mattina, vedendola apparire avvolta nel suo chimono rosso, le accennavo una riverenza e la salutavo: «Buon giorno, madamina, ci prepariamo per la scuola?». Ma quando mi piego in un goffo e burattinesco inchino, la vedo di nuovo di spalle che si allontana decisa sul marciapiede, facendo ciondolare la cartella marroncina mentre la coda di cavallo le saltella sul collo candido. Il cuore prende a trottare: una tenerezza straziante mi stringe la gola. Vorrei correre, fermarla, chiederle dove stia andando, come si chiami, perché cammini a quel modo, proprio come mia figlia, pur non essendo mia figlia.
Mi sveglio con un grido: una improvvisa ombra scura ha cancellato la figurina che procedeva davanti a me con tanta gioiosa sicurezza. Al posto del suo corpo di scolara ho visto d’un tratto una frotta di uccelli bianchi e neri gracchianti che svolazzavano, correvano, giravano in tondo, emettendo versi gutturali.
Mi alzo, corro in bagno alla cieca, metto le mani a coppa sotto il rubinetto del lavandino, ma l’acqua schizza fuori bollente e poi gelida. Sono io che stamattina ho le mani di pasta frolla o il miscelatore non funziona più? Sollevo gli occhi sullo specchio e vedo un uomo magro e allucinato, dalla barba precocemente ingrigita, gli occhi cerchiati, i capelli castani incollati alle orecchie, le pupille dilatate come se fossero rimaste spalancate per tutta la notte.
Con il pigiama addosso, mi spruzzo la schiuma da barba. Voglio togliermi questi peli grigi che mi fanno sentire vecchio. Prendo il rasoio e comincio a radermi. Mi accorgo che la mano mi trema. Che cavolo mi succede oggi?
Accendo la radio per sentire le notizie. Ascolto distrattamente la voce malinconica del ragazzo che parla di tasse e di scioperi. Poi però qualcosa attira la mia attenzione. Dopo le notizie dello sport, ovvero le ultime del giornale radio, una voce femminile sta parlando di una bambina scomparsa.
«Nella piccola città di S., in un quartiere di periferia chiamato Pozzobasso, lungo la strada che dalla sua casa porta alla scuola Giuseppe Mazzini, una distanza di nemmeno cento metri, la bambina è sparita oggi, 2 ottobre, senza lasciare traccia. Portava un cappottino rosso e degli stivaletti di gomma bianchi. La madre della bimba ha già sporto denuncia.»
Mi accorgo di essermi tagliato quando allo specchio vedo la schiuma arrossarsi. Scaravento il rasoio nel lavandino, mi asciugo le mani alla meglio e corro ad afferrare la radiolina che avevo appoggiato sul davanzale del bagno. L’accosto all’orecchio: ripeti per favore! ripeti cavolo! ma la voce frettolosa non ripete. Va avanti parlando del cattivo tempo che incombe.
Mi seggo sul bordo della vasca e cerco di ricordare cosa abbia detto: di certo che è sparita una bambina, appena uscita da una villetta alla periferia della piccola città di S., la mia città, mentre si avviava verso la scuola Giuseppe Mazzini, la mia scuola, ma non ci è mai arrivata. La madre è subito corsa a sporgere denuncia.
Rimango a bocca aperta. Il sogno è ancora così nitido. La bambina portava un cappottino rosso, gli stivali bianchi non li ho notati, ma forse sì, li aveva. Ho notato invece il collo lungo da cigno e quella coda di cavallo saltellante sulle spalle, il suo passo deciso ma un po’ sbilanciato. Ricordo benissimo la sua faccia pallida quando si è girata verso di me, gli occhi grandi e malinconici, la bocca piccola e graziosamente disegnata, il labbro superiore che sporgeva su quello inferiore, il che le conferiva un’aria volitiva e nello stesso tempo incerta, ma anche dolce e bambinesca. Ma che ora sarà stata quando l’ho vista con tanta nitidezza? le quattro, le cinque del mattino? quindi prima che andasse a scuola. E come ho fatto a sognarla così bene, che si dirigeva verso la scuola, se di sicuro a quell’ora non era ancora uscita di casa? Adesso sono le dieci e devo anche sbrigarmi perché alle undici ho una lezione. Ma no, che dico: sono tre giorni che ho la febbre e me ne sto chiuso in casa.
Giusto, chiuso, in gabbia, e ti preoccupi per un sogno che non significa niente, mi soffia nell’orecchio l’aquilotto che mi sta appollaiato sulla spalla e pretende di giudicarmi e guidarmi come farebbe un angelo custode. Difatti lui si pretende tale. Per me è solo un volatile pettegolo e saccente. Ancora tremo per quel sogno premonitore e lui mi vuole mortificare.
Non tremare, era solo un sogno, insiste. È un sogno, lo so, ma se poi scopri che aderisce come un francobollo alla realtà, permetti che mi allarmi. Ma chi l’ha detto che è la realtà? La radio, cavolo, mica ho sognato anche quella! La presa sulla spalla si fa più stringente. Storco la bocca per il dolore. Ma so che è precisamente quello che vuole il malevolo. Vuole che io dubiti di me. Ma non ce la farà. La voce della radio era troppo precisa e chiara. E io l’ho sentita con tutte e due le orecchie. Non sto delirando.
Riaccendo la radio e vago da una stazione all’altra. Ma nessuno parla di una bambina scomparsa. Accendo la televisione: passo da un programma per casalinghe a un dialogo fra politici che si insultano, si deridono, uno fa no con la testa mentre l’altro spiega, e decido di spegnere del tutto. Forse daranno dei dettagli durante il tg regionale, mi dico. Intanto afferro il telefono e chiamo la scuola. Ma non mi risponde nessuno.
Tu sei ancora scosso dalla morte di tua figlia, lascia perdere, mi gracchia nell’orecchio il volatile. Lasciare perdere cosa? qui c’è un fatto di cronaca gravissimo: una bambina scompare sulla strada che porta alla scuola, la mia scuola, e vuoi che non mi preoccupi? Ma non capisci che sei tu a inventare le cose? la bambina non esiste, la voce non esiste, la realtà non esiste, tu stesso non esisti, guardati bene, sei ridicolo!
Comincio a sospettare di avere sentito male. Forse è come sostiene l’uccellaccio: deliro, ho la febbre, sono ancora scosso dalla morte di mia figlia e prendo lucciole per lanterne: vedo bambine in pericolo ovunque. Sono un padre angosciato, mi ripeto, sono un padre depresso, sono un padre che si inventa le cose, devo preoccuparmi? E improvvisamente mi viene in mente che, nel sogno, attorno alla testa della bambina volavano degli uccelli bianchi. Gabbiani? E che senso ha tutto questo? Eppure l’ho vista bene quella faccia: era sorridente ma anche mesta, era serena ma anche corrucciata, era bellissima ma anche deforme.
In effetti mi gira la testa. Sarà bene che mi faccia un bagno caldo. A volte serve per schiarirsi le idee. Mi seggo sul bordo della vasca, rasato a metà, un cerotto sul mento e rifletto mentre l’acqua calda scorre. Sono tre giorni che ho la febbre. Ho i dolori alle ossa, ho la bocca arsa, nessun appetito, solo nausea e sonnolenza. Il medico, spedito dalla scuola, mi ha detto che era inutile prendere gli antibiotici.
«È un virus, passerà in cinque giorni. Intanto: non esca di casa, beva molto e riposi.»
«Ma nemmeno per andare a prendere i giornali?»
«Deve proprio evitare di uscire. Ha qualcuno che le compri qualcosa da mangiare?»
«No, vivo solo.»
«Telefoni al suo droghiere e si faccia mandare dei biscotti e del tè.»
«Ok, starò a casa a bere tè e leggere libri.»
In effetti sono tre giorni che me ne sto prigioniero fra queste mura. Alterno la lettura dei libri che più mi fanno arrabbiare, come quelli sull’Italia avvelenata, l’Italia della mafia e del malgoverno, agli amati classici nella versione Bur, quei tascabili color grigio topo che mio padre ha conservato da quando era ragazzo e che mi ha lasciato in eredità.
Mi alzo come un automa e vado alla libreria del soggiorno. La mano si dirige da sola in alto a destra dove tengo i volumi inglesi e tiro giù una vecchia versione dell’Alice di Lewis Carroll, accompagnata dai disegni di Tenniel. Un libro che non leggevo da quando avevo sedici anni. Ma perché proprio Alice? Il fatto è che nel sogno, osservando la bambina che si muoveva sulla strada, l’avevo chiamata dentro di me “piccola Alice” e la vedevo in procinto di sprofondare sotto terra. Mi è rimasto nella memoria il nome che le attribuivo, senza neanche pronunciarlo, assieme a quel cappottino rosso e a quella codina di cavallo che le ciondolava sulla nuca, legata con un laccetto rosa.
È talmente strana questa coincidenza che voglio saperne di più. Con il libro in mano torno alla radio. Vorrei che dicessero a che ora precisamente è uscita dalla villetta la bambina, e come si chiama, e dove andava. Si dirigeva verso la scuola Mazzini, spiegavano nel primo annuncio della scomparsa. Non era la radio nazionale. Doveva essere l’emittente locale: quella Radio Disperazione che ascolto qualche volta per le notizie di cronaca. Perché poi chiamare una radio con un nome così assurdo, Radio Disperazione, non lo capisco. Sono dei ragazzi, l’ho saputo dal barbiere, che hanno preso in affitto una cantina e da lì, “con disperazione”, perché senza soldi, senza attrezzature, senza aiuti, solo con grande voglia di fare, una solida amicizia e una imbattibile solidarietà, hanno aperto una radio che pare sia molto ascoltata dalla gente della piccola città di S., che in certi giorni sembra navigare come una barca alla deriva nel mare delle risaie. Queste nuove voci giovani entrano nei dettagli delle notizie locali, non tranciano giudizi, ma sono sempre puntuali e oneste nel raccontare i fatti. Adesso stanno parlando di un detersivo che pare abbia provocato dermatiti con bolle e lacerazioni sulle mani e sulle braccia di alcune casalinghe di Pozzobasso. Abbasso un poco il volume, senza però spegnerlo del tutto.
L’acqua cola piano e sempre più scarsa dal rubinetto. Anche questo è strano ma ogni cosa mi appare bizzarra stamattina. Mentre aspetto, riapro il libro e leggo di Alice che cammina nella rigogliosa campagna inglese. E mi chiedo se sia stata la noia a spingere Alice fuori da casa, come suggerisce il reverendo Dodgson, alias Lewis Carroll, o la fuga da un matrimonio che si sta preparando per lei e di cui non vuole saperne, come suggerisce il regista Tim Burton nel suo film su Alice che ho visto recentemente in tv. Corri, Alice, corri via da quello stupido giovanotto che vorrebbero darti per marito, che tu non conosci nemmeno e di cui non ti importa niente! Ma Alice è una ragazzina educata e perciò si rivolge al promesso sposo con voce garbata e gli dice: «Scusa, caro fidanzato, ma non credo di essere pronta per il matrimonio». E via di corsa, per i campi, con un paio di scarpine bianche, di raso, piccole e scomode. Come farà a non inciampare su quelle radici che sporgono dal terreno? come farà a non cadere in quelle buche scavate dalle marmotte? come farà a non sbattere contro quelle pietre che spuntano brusche e taglienti in mezzo ai ciuffi d’erba ancora freschi di rugiada?
Ma l’Alice del film è una tredicenne, mentre nel libro di Carroll, Alice dice di avere sette anni e mezzo. È quel mezzo anno che festeggia col coniglio prescioloso? Perché Tim Burton ha sentito il bisogno di aumentarle gli anni? Nel suo racconto vediamo una ragazzina adolescente, a cui i parenti ottocenteschi hanno assegnato un marito dall’aria ridicola e petulante. E Alice scappa, superando tutti gli ostacoli, finché, stanca, appoggiandosi a un grosso albero, non vede vicino ai piedi una apertura nel terreno, come la bocca di un pozzo. La ragazzina si sporge per capire dove conduca quel foro inatteso ai margini del prato e un piede le slitta sul bordo bagnato. Il suo corpo giovane e leggero che aveva volato sulle buche, sui sassi, sulle radici degli alberi, ora perde l’equilibrio e precipita, ruzzolando, avvolgendosi su se stesso, dentro quel budello di terra di cui non si vede il fondo, verso le zone più impreviste e oscure, nel centro del piccolo nuovo universo dove tutto la sorprenderà e la spaventerà. Una rocambolesca e inaspettata metamorfosi. È di questo che stavo sognando?
Perché ho pensato ad Alice e perché l’ho collegata alla scomparsa della bambina del quartiere di Pozzobasso, non saprei dirlo. Soffro dell’immaginazione ipertesa del lettore accanito. Mi viene spontaneo scovare i nessi fra i personaggi, fra le trame dei grandi libri e la vita reale. Per esempio, appena ho vagheggiato lo sprofondare di Alice nel tunnel sotterraneo, mi si è subito sovrapposta l’immagine del giovane impiegato delle Memorie dal sottosuolo. “A volte l’uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza” scrive Dostoevskij.
Penso che mi piacerebbe approfondire questo curioso rapporto fra il viaggio di Alice nelle viscere della terra e le Memorie dal sottosuolo. È il mondo della decenza, delle buone maniere e del matrimonio per una signorinella come Alice che, sprofondando, diventa qualcos’altro di imprevedibile e indecifrabile? Proprio come il mondo delle abitudini borghesi per il protagonista anonimo del romanzo dello scrittore russo? Vorrei capire qualcosa di più su quelle “zone buie della coscienza”, come dice Dostoevskij, dove tutto è possibile e tutto è capovolto. Dove si può andare avanti e indietro nel tempo. Dove si può diventare alti alti e lunghi lunghi, tanto da sbattere la testa sul soffitto, oppure tanto piccoli da entrare facilmente nella tana di un topo.
Ma la bambina scomparsa non ha tredici anni e non scappava da un matrimonio non voluto. Allora? Torniamo a oggi, ora, al mio corpo febbricitante, al sogno breve e limpido che ha preceduto il risveglio e alla voce radiofonica che annunciava la sparizione di una bambina dal cappottino rosso nella piccola città dove abito, nel quartiere dove insegno. Avrei assoluto bisogno di sapere a che ora è scomparsa la bambina! ma come si chiama? ancora non conosco il suo nome e questo mi disturba, come se veramente l’avessi inventata io. Solo conoscendo il suo nome, saprei che è vera e viva. Rifletto che il sogno si è presentato certamente prima delle cinque. Quindi il sogno ha preceduto la realtà. Una profezia?
Ora non fare lo smargiasso, non sei un profeta, sei solo un padre che non si dà pace per la morte della figlia e continua a sognarla e vederla nei panni di altre bambine, stop, svegliati! Ma perché ho sognato proprio quella bambina che camminava su una strada che potrei riconoscere fra mille perché è la strada che porta alla scuola dove insegno? e perché il sogno si è interrotto proprio quando stavo per parlarle? È un caso, rassegnati, non ci sono premonizioni né profezie, ma solo coincidenze.
Di nuovo la noiosa e prevedibile voce dell’uccellaccio che mi incalza, mi perseguita. Vorrei tapparmi le orecchie ma tanto lui si fa sentire lo stesso.
Appoggio la radio accesa al massimo volume sulla mensola e mi infilo nella vasca di acqua calda. Appena mi sdraio, mi sento meglio e mi sembra che i nervi dolenti si distendano. Me ne sto immobile a guardare il soffitto su cui è disegnato un enorme ragno. Chi abbia disegnato quel ragno non lo so. Ha qualcosa di sinistro ma anche di ingenuo e infantile. Piegando il capo da una parte e osservandolo di sbieco, fa pensare a un polipo. Se invece lo scruto da un altro angolo, assomiglia a un millepiedi: una dozzina di zampine nere e pelose che, nella foschia del vapore, sembrano muoversi lentamente. Meglio non farsi troppo suggestionare da questa immagine che grava sul mio corpo nudo.
Mi chiedo se, quando abbiamo comprato la casa, il ragno fosse già là. Io non l’ho disegnato, e so per certo che a mia moglie non sarebbe mai venuto in mente di dipingere un ragno sul soffitto. Non ricordo di averne avuto consapevolezza, finché un giorno abbiamo litigato, Anita ed io, proprio nel bagno, fino allo sfinimento. E quel giorno, come ho fatto oggi, dopo che lei se n’è andata sbattendosi la porta alle spalle, mi sono lasciato sprofondare nell’acqua calda, stendendomi a pancia in su, immerso totalmente nella saponata, salvo il naso e gli occhi.
Quel giorno, per la prima volta, ho visto il ragno. Tanto che ho pensato fosse il prodotto della mia fantasia mortificata. Ero di pessimo umore, mi sentivo in colpa per avere detto delle cose che non avrei mai voluto dire, e vedevo l’insetto incombere sui miei pensieri contratti e spinosi. Il ragno paralizza la sua preda, come ho letto su un libro preparandomi per una lezione che avrei fatto ai miei alunni. In classe tendo spesso a uscire dal seminato. Quel giorno ricordo che spiegavo cosa fosse la Via Lattea, e osservando la ragnatela di una costellazione mi sono messo a raccontare delle tecniche di predazione dell’aracnide....