1
Jennifer’s pov
«Jennifer, svegliati, santo cielo!»
«Oh, papà! Sono troppo stanca, chiudi quelle tende.» Come fa la gente ad amare la mattina io non lo so.
Uscire dalle coperte calde con la fastidiosa luce mattutina che ti ferisce gli occhi e sfidare il freddo là fuori, per affrontare un’altra monotona giornata… Fosse per me mi alzerei dal letto solo per andare in bagno, visto che per mangiare mi basta aprire il cassetto del comodino e allungare le dita su una delle tante leccornie che ci stanno dentro tra Coca-Cola, patatine e cioccolata. Tutte cose salutari, insomma.
«Jennifer, non voglio sentire storie. Dobbiamo partire tra pochissimo per riuscire ad arrivare in tempo e tu non hai nemmeno finito di fare le valigie, Dio che casino» lo sento dire quasi inciampando in una delle mie scarpe sparse per la stanza.
Sembra abbastanza nervoso e arrabbiato, così capisco che è meglio alzarsi, per questa volta, prima che mi prenda per le gambe e mi scaraventi in bagno a forza.
Striscio giù per le scale e lo faccio quasi nel vero senso della parola: mi rendo conto infatti che non sto camminando.
«Riesci a comportarti da persona normale e scendere decentemente le scale?» mi dice “mister simpatia”, che in realtà dovrei chiamare “papà”.
Lui è una persona molto distinta, forse pure troppo, con un grande senso degli affari. Lavora tantissimo, ma non mi ha mai fatto mancare nulla. Inizialmente si potrebbe pensare che sia una persona molto fredda, anche per via dei suoi occhi color ghiaccio; ma in realtà basta poco per scioglierlo e io ci riesco sempre.
Quindi decido di usare la mia tattica da figlia leccapiedi. «Oh, avanti papà, rilassati!» gli dico con occhi dolci buttandogli le braccia al collo.
«Fila a fare colazione e poi a vestirti, sennò faremo tardi.» Vedo l’ombra di un sorriso comparire sul suo volto.
Ingurgito in pochi minuti tutto ciò che è in tavola e torno a dirigermi verso la mia stanza. Prendo la mia felpa preferita, quella enorme e nera, e la indosso con le All Star grigie ormai consumate.
Mi guardo allo specchio. La mia faccia è un vero e proprio orrore, pallida con delle occhiaie da spavento e delle labbra rossissime, sembro una reduce di guerra.
Sì, io ho sempre delle labbra rosse, anche se fuori si gela. Non ho mai capito il perché, ma resta che non le sopporto: il pallore del mio viso, infatti, le mette ancora più in risalto. L’essere notata non mi va a genio, questo mi pare chiaro.
«In teoria dovresti essere una ragazza» dice mio padre spuntando dalla porta e lanciando uno sguardo al mio abbigliamento.
Io gli faccio la linguaccia e lui mi ridice per la milionesima volta di finire la valigia.
Prendo gli ultimi jeans rimasti, i miei cappellini e le mie numerose magliette e appallottolo tutto in valigia. Ecco fatto.
Mi guardo allo specchio un’ultima volta e sembro una ragazzina di quindici anni, anche se ne ho diciotto e mi manca un solo anno per poi andare all’università o all’accademia d’arte. È tutto ancora da vedere o, per meglio dire, deve ancora cominciare la lotta con mio padre riguardo a questa decisione.
Intanto stiamo per tornare a Manhattan.
È da quando avevo sette anni, ossia dal famoso incidente, che non ci tornavamo più. Ma stavolta mio padre non ha potuto fare diversamente. Il lavoro lo ha costretto e così eccomi qui, in macchina con le cuffie alle orecchie e la testa poggiata al finestrino, mentre lancio un’ultima occhiata a casa mia.
«Qualcosa non va?» mi chiede lui e io lo guardo stranita. «Siamo in viaggio da un’ora buona e non hai detto una parola.»
Effettivamente è vero, ma mi ero persa nei miei pensieri, a cercare di capire con quale forza sarei riuscita a rivivere tutto senza crollare, ma soprattutto senza far crollare il muro che mi sono creata.
«So che è stato improvviso, ma non ho avuto scelta. So che ora sarà difficile ripartire da una nuova scuola e poi i tuoi amici…» Lo blocco con un gesto della mano.
«Non preoccuparti, papà, davvero. Vedrai che andrà tutto bene. La scuola non sarà un problema, il programma è lo stesso, non dovrei metterci molto per recuperare e i miei amici… be’ con loro mi terrò in contatto.»
Il suo sguardo diventa più tranquillo e a me basta questo.
In qualche modo non sto mentendo: a scuola ero piuttosto brava, me la cavavo sempre. E per quanto riguarda gli amici non è che ne avessi. Ogni tanto uscivo di casa dicendo che andavo da alcune amiche o al cinema, ma in realtà passeggiavo da sola nel parco. Questo non significa che sono psicopatica o schifata dal mondo, solo che per me i rapporti umani sono inutili. Affezionarsi a persone che tanto per un motivo o un altro poi ti lasciano non ha senso. L’unico a cui voglio davvero bene è mio padre. Tutti gli altri potrebbero anche svanire dalla faccia della Terra.
Lui continua a scusarsi e a elencarmi la sua lista di problemi, senza rendersi conto che il vero problema non sono la scuola o gli amici o chissà. Il problema sono i ricordi. Nessuno di noi due parla di lei da anni ormai, perché fa sempre male ricordare. Ma io mi domando: fa più male ricordare o fingere di non ricordare?
2
Jennifer’s pov
Manhattan è un groviglio di traffico e vita. Odio e amo questo posto allo stesso tempo. Le persone corrono ovunque: uomini in giacca e cravatta con un’immancabile valigetta stretta salda nelle mani e donne con i loro tailleur eleganti e le loro camicette striminzite alla ricerca di un taxi; si passa da enormi edifici in vetro ai grattacieli, ai bar colmi di adolescenti, alle strade piene di artisti o di parchi verdeggianti.
Questa visione un po’ mi rattrista e a quanto pare non solo a me, visto che anche gli occhi glaciali di mio padre vengono attraversati da un sottile velo di tristezza nel vedere quella che un tempo chiamavamo casa.
«Dove staremo?» chiedo per smorzare la tensione.
«Ho prenotato al New York Hilton Midtown. Per ora staremo là finché gli architetti non avranno finito gli ultimi ritocchi e la casa sarà pronta.»
Annuisco contenta che mio padre abbia deciso di non tornare nella nostra vecchia abitazione nonostante non l’abbia mai messa in vendita non so per quale assurdo motivo. Forse per tenere ancora vivo un ricordo, per aggrapparsi a qualcosa.
Cerco su Google il nome dell’albergo. Un cinque stelle, c’era da aspettarselo. Mio padre ama il lusso almeno quanto lo odio io.
«Eccoci arrivati!» dice pochi minuti dopo.
Entriamo nella hall lasciando i bagagli in macchina e ci dirigiamo verso una receptionist bionda, snella e con un fare molto professionale.
«Salve, benvenuti al New York Hilton Midtown. Come posso esservi d’aiuto?»
Chissà quante volte ripete questa frase ogni giorno con quel sorriso forzato. Poverina. Io non ci riuscirei mai.
«Ho una camera prenotata a nome Milton» le dice mio padre.
La receptionist si ferma per un millesimo di secondo davanti al computer, sembra quasi che abbia visto un fantasma. Poi si riprende e ci consegna due chiavi: una per la sua stanza, una per la mia.
Io la prendo sbuffando. Sempre la stessa storia: basta il nostro cognome per zittire chiunque. Mio padre è ricco e molto conosciuto a Manhattan.
«Le vostre valigie saranno immediatamente portate nelle vostre stanze e…»
Ma non ha ancora finito di parlare? Sono stanca e voglio stendermi, stai zitta e dileguati!
«Sì, sì va bene. Ci si vede!» Con la mia chiave mi avvio all’ascensore, scorgendo mio padre con la coda dell’occhio che mi fulmina con uno sguardo da “non ti uccido ora solo per le troppe persone presenti nella hall”.
«Finalmente!» grido stesa sul letto guardando il soffitto.
La camera è enorme. Ci starebbero benissimo una squadra di football, un gruppo di cheerleader bisbetiche e una banda di trombettieri di lato. Ma è solo per me e la cosa non può che rendermi più serena. Amo stare da sola: io, i miei libri e i miei pennelli, lontana dal resto della gente che trovo sempre inutile.
Driin Driin.
Lo squillo del telefono interrompe le mie riflessioni.
«Jennifer Alexandra Milton!» È mio padre dall’altra parte della cornetta. È infuriato, lo so.
«John Greg Milton, mi dica» gli rispondo. So che così non miglioro la situazione, ma adoro prendermi gioco di lui quando è arrabbiato.
«Non dovevi comportarti in quel modo lasciandomi lì a scusarmi al posto tuo!»
Bla bla bla, penso mentre lo scimmiotto per la stanza.
«E non osare imitarmi. So che lo stai facendo! Io devo incontrare un cliente importante, ti lascio sola per pranzo. E non dimenticarti di iscriverti a scuola.»
«Ma certo che mi ricordo, per chi mi hai preso?» mento spudoratamente.
3
Jennifer’s pov
Dopo aver ordinato tanto di quel cibo in camera da scoppiare, mi dirigo verso la mia nuova scuola.
Ancora rido per la faccia del cameriere quando è entrato in camera con il carrello colmo di patatine fritte, hamburger, crocchette di pollo e dolci di qualsiasi tipo. Cosa si aspettava, che essendo la figlia di John Milton avessi un palato sofisticato? Amo mangiare e non mi faccio scrupoli, e poi il fisico me lo consente.
La New York School of Economics è enorme. Mi perdo quasi subito e comincio a vagabondare fino ad arrivare alla biblioteca scolastica. Sento dei versi e incuriosita apro la porta senza farmi scorgere. Entro e vedo un libro cadere da uno scaffale. Mi avvicino per scrutare nello spazio che si è liberato.
«Josh, piano o potrebbe sentirci qualcuno» dice la ragazza bruna in tono malizioso.
«Tranquilla, piccola, la domenica non viene mai nessuno» ri...