CAPITOLO NOVE
Mercoledì, 8,00 P.M.
A casa di Kevin.
Rose allontanò le dita dal volto. A farle male non era il sole che aveva iniziato a sbatterle in faccia mentre, come concordato, aspettava Kevin davanti al cancello del centro commerciale.
Il caldo veniva da un’altra parte, era sprigionato dalla vergogna di essere stata troppo debole. Le parve che le vene delle tempie pulsassero fino a farle male.
Arrivò un messaggio di Kevin, con il suo indirizzo e un consiglio: IMPOSTA IL NAVIGATORE, NON SI SA MAI!
La Mercedes blu le scorse davanti lentamente. Kevin le fece un cenno con la mano e aspettò che si accodasse.
Imboccarono l’autostrada e procedettero a velocità sostenuta finché il navigatore segnalò che, presa la prima bretella a sinistra, sarebbe arrivata a destinazione entro cinque minuti.
Rose si era dibattuta in un alternarsi di stati d’animo. I dubbi che le avevano riempito la testa si condensarono all’improvviso nell’impulso di proseguire dritto per tornare a casa e dormire, lasciandosi tutto alle spalle.
Doveva concentrarsi sul suo vero obiettivo, la sua unica ancora di salvezza. Le era successo molte volte. Ogni volta in cui si era sentita scossa nel profondo.
Il cellulare squillò proprio mentre le sue dita erano strette attorno al volante, pronte a mantenerlo in asse per mancare l’uscita.
«Rose, giriamo a destra tra un miglio, poi ci siamo!» la informò Kevin con un tono così rassicurante da rendere meno deleteria la parentesi che si sarebbe concessa se avesse seguito il navigatore impostato sul display del telefonino. Così sterzò, seppure troppo bruscamente.
Il quartiere era simile al suo, forse appena meno periferico, ma ugualmente silenzioso.
Kevin imboccò il vialetto di una villetta in stile coloniale. Lei lo imitò.
Per un attimo seguì la traccia di un pensiero e guardò con attenzione la casa sulla destra, dove una signora anziana, vestita con una casacca vivace, si stava prendendo cura di un’aiuola davanti al garage. Con una mano teneva un innaffiatoio, l’altra era premuta su un fianco.
L’immagine di Dean si affacciò alla sua mente, ma la scacciò, sempre più irritata dal fatto che si era lasciata andare senza nessun fondamento, seguendo una pulsione tanto forte quanto irrazionale.
Scese dall’auto sentendosi inadeguata nei soliti jeans e maglietta, con la borsa che le galleggiava su un fianco e ai piedi un vecchio paio di scarpe da ginnastica.
Kevin le rivolse un sorriso di incoraggiamento, badando bene a soffermarsi solo sul suo viso, centrandole gli occhi con i suoi meravigliosi smeraldi.
Attese che lei lo raggiungesse al limite del portico.
«Ecco, questa è la mia reggia… In effetti è ancora della banca, ma sarà mia tra appena dodici anni» disse inquadrando la facciata e piegando la testa di lato.
Rose sorrise. La tensione tornava a smorzarsi, com’era sempre accaduto quando Kevin diceva qualcosa di tremendamente umano.
Lo imitò inclinando la testa.
Erano sotto il portico colonnato, che si arrampicava fino al secondo piano, seguendo le precise simmetrie che richiamavano l’architettura britannica dei primi anni del XVIII secolo.
Restò così per un po’, guardandosi intorno nel tentativo di respingere la sensazione di estraneità del posto, mentre da tutto intorno arrivano suoni di vita comune che riconosceva con qualche secondo di ritardo per una strana lentezza di riflessi.
Le sue energie erano convogliate altrove, ad arginare la mancanza di controllo, a limitare l’eccitazione. Quella, dunque, era l’eredità che le aveva lasciato Dean.
Scosse la testa. Cazzo, c’era stato solo un bacio!
Sei ridicola, Rose!, si rimproverò cercando di acquistare un minimo di lucidità .
Hai voglia di sesso e hai vicino uno che può levartela!, si disse cinica.
Deglutì un grumo di saliva amaro. Kevin era un’altra cosa, lo aveva sempre saputo. Il tocco leggero del suo sguardo le aveva sempre fatto sussultare il cuore, ma senza angoscia.
Cercò di concentrarsi sul presente. In effetti, era strano stare insieme a Kevin, ma lo era ancora di più che lei lo avesse seguito fino a quel punto.
Se non fossi stata così idiota con Dean poco fa non sarei riuscita a essere qui adesso. Probabile che alla fine avrei persino mandato a monte l’appuntamento con Kevin, si disse mentre lui apriva la porta e le faceva segno di entrare.
Rose obbedì. Si trovò in un luminoso piano terra quadrato, con una scala posta simmetricamente al centro. Mentre lei si guardava discretamente intorno, Kevin accompagnò l’ispezione in silenzio, poi poggiò portafogli e chiavi su una mensolina. Si tolse, infine, la giacca, che appese a un appendiabiti di noce.
«Ti piace il legno lavorato…» notò Rose, sinceramente ammirata, mentre osservava le modanature, i vani delle scale, la ringhiera e i pavimenti in stile nostalgico.
«Sì, ma gran parte dell’arredamento non è vintage, è solo vecchio.»
«L’hai ereditato dai tuoi genitori o dai tuoi nonni?» gli chiese passando davanti una pendola di un’altra epoca.
Kevin rispose con un sorriso, indicandole il divano appoggiato a una parete laterale del soggiorno, sacrificato rispetto alle dimensioni più ampie della cucina, contrariamente che a casa sua. Sulla sinistra, una vetrata dava sul parco, le tende aperte. Ai lati del sofà , due poltrone.
«Viene da vari mercatini. Ci ho messo un po’ per scegliere ogni pezzo. Ho cercato finché non ho trovato proprio quello che volevo. Quando l’ho trovato, l’ho comprato senza tirare sul prezzo. Non si può mercanteggiare per avere qualcosa che deve essere tuo» precisò arrotolando le maniche della camicia e cominciando ad armeggiare con le bottiglie e i bicchieri appoggiati su un carrellino accanto al salotto.
«Faccio così per tutto, senza eccezioni, quale che sia il contesto» riprese puntando gli occhi in quelli di Rose. «Cerco sempre qualcosa di ben definito nella mia mente. Voglio solo quello che ho immaginato con precisione. Non accetto surrogati e continuo finché non lo trovo. O quello o niente…»
Rose trovò quella definizione calzante con quanto Vera aveva sentito in giro sul suo conto: era senz’altro pretenzioso.
«Questo però è il massimo che potrò offrirti come barman» concluse porgendole un analcolico. Si accomodò su una poltrona dandole un fianco e si servì da solo.
«Ottimo!» commentò Rose dopo il primo sorso.
«Puoi venire a lavorare al Cake Café!»
«Grazie lo terrò in mente nel caso il mio capo dovesse stancarsi di me.»
«Ai fornelli, invece?» chiese Rose, che a quel punto avrebbe preferito spostarsi insieme a lui in cucina, con il sollievo di sapere entrambi indaffarati.
«Ti imbarazza starmi accanto?» chiese allora Kevin con una smorfia di finta delusione.
Rose fu tentata di smentirlo, ma poi decise di essere sincera.
«Effettivamente, sì…»
«Hai paura che possa avvicinarmi così…» riprese inclinando il busto in avanti, fino a portare il viso a una decina di centimetri a quello di Rose, che scaricò la tensione stringendo con forza il bicchiere.
Fece cenno di no, ma Kevin abbassò la testa e fissò le dita dell’altra mano di Rose, ora arricciate su uno dei lembi del cuscino su cui sedeva. Le puntò con l’indice.
«Non si direbbe» disse inducendola a mollare la presa e a scrollare la testa imbarazzata.
«Voglio essere chiaro, non sono alla ricerca di una possibilità . Io voglio te» disse.
«Mi vuoi come hai voluto quello?» chiese lei osservando il tavolinetto di rovere accanto a loro. «O quella?» continuò ruotando il braccio verso una vetrinetta.
Kevin seguì con attenzione le indicazioni, finse di meditare, poi scosse la testa a sua volta.
«Direi piuttosto come ho voluto quello!» dichiarò, indicando con il mento un portapenne d’avorio sistemato su una mensola piena di libri.
«Oddio… Scarsetto…» commentò Rose, traendo immediato sollievo dal tono scherzoso che la conversazione aveva preso.
«Non credo…» precisò Kevin alzandosi in piedi per dirigersi verso la mensola.
Il suo sontuoso fondoschiena era a poca distanza da lei e le fu impossibile non tornare con la mente al ragazzo atletico che correva sul tappetino accanto all’ingresso del centro.
Kevin prese l’oggetto e lo sistemò sul tavolinetto.
«Sapevo che esisteva da qualche parte. Non ho mai smesso di crederci. Vedi la stilografica al centro accanto alle bic?» Rose fece segno di sì.
La voce di Kevin era calda come quella luce del tardo pomeriggio che filtrava senza ostacoli dai vetri, inondando l’ambiente, quasi fosse parte naturale dell’arredamento.
«Era di mio padre, la teneva sulla scrivania dentro un vasetto identico. A sedici anni mi era rimasta solo quella di lui e avevo bisogno proprio di questo contenitore per sistemarla. Mi è costato mesi e mesi di ricerche.»
«Come mai?» chiese Rose mentre Kevin passava un polpastrello sul bordo cilindrico del portapenne.
Kevin le prese una mano con una mossa fulminea. Restando a fissare le penne, la strinse, poi incrociò le dita tra le sue.
«Perse in borsa. Un infarto lo portò via, mentre tutto veniva pignorato. Tutto tranne la stilografica che mi misi in tasca prima di uscire in giardino quando arrivarono con il camion.»
Kevin trasse Rose a sé, con delicatezza, senza imporle il suo volere. Lei deglutì, ma si lasciò trasportare. Fu colpita da come Kevin si fosse esposto e reso vulnerabile.
A un tratto le loro bocche erano sigillate e le mani di Rose ancorate alle spalle di Kevin. Si alzarono in piedi simultaneamente, con i corpi che aderivano perfettamente.
L’eccitazione di lui premeva contro il suo ventre. Con una mano Kevin scese lungo la sua schiena, fermandosi in corrispondenza di una natica.
Rose sentì il calore di quel palmo irradiarsi per tutto il corpo, acuendo il desiderio es...