CAPITOLO 1
Wells
Nessuno voleva stare troppo vicino alla tomba. Sebbene quattro di loro fossero già stati seppelliti nel cimitero improvvisato, il resto dei cento non accettava ancora l’idea di mettere un corpo sottoterra. E nessuno voleva dare le spalle agli alberi. Dopo l’attacco, bastava lo schiocco di un rametto per far saltare i nervi ai sopravvissuti. I quasi cento che si erano radunati per dare l’estremo saluto ad Asher se ne stavano accalcati in semicerchio, gli occhi che guizzavano fra il cadavere sul terreno e le ombre della foresta.
Si sentiva la mancanza del crepitio confortante del falò. Avevano finito la legna da ardere quella notte, e nessuno si era offerto di andare a procurarne dell’altra. Di per sé Wells l’avrebbe anche fatto, ma era stato impegnato a scavare la fossa, un’altra incombenza che nessuno era stato disposto ad assumersi, tranne un arcadiano alto e taciturno di nome Eric.
«Siamo sicuri che sia davvero morto?» mormorò Molly, tenendosi a debita distanza dalla fossa come se temesse di farsi risucchiare. Aveva tredici anni, ma sembrava più piccola. O almeno così la ricordava Wells, quando l’aveva aiutata subito dopo lo schianto sulla Terra, con le guance paffute striate di cenere e lacrime. Adesso il suo volto era scavato, quasi spettrale, e sulla fronte aveva un brutto taglio che non doveva essere stato pulito a dovere.
Lo sguardo di Wells si posò involontariamente sul collo di Asher, sulla profonda ferita dove si era conficcata la freccia. Erano passati due giorni da quando era morto, due giorni da quando le figure misteriose si erano materializzate sulla collina, ribaltando tutto quello che era stato detto ai coloni, tutto quello che avevano sempre creduto di sapere.
I cento erano stati inviati sulla Terra come cavie da laboratorio; erano i primi a rimettere piede sul pianeta dopo trecento anni. Ma si erano sbagliati.
Alcune persone non se n’erano mai andate.
Era accaduto tutto troppo in fretta. Wells non si era reso conto che qualcosa non andava se non dopo che Asher si era accasciato al suolo, rantolando mentre cercava di strapparsi la freccia dalla gola. A quel punto Wells si era voltato di scatto e… le aveva viste. Sagome scure che si stagliavano contro il sole morente, stranieri dall’aspetto più demoniaco che umano. Wells aveva sbattuto le palpebre più volte, come se si aspettasse di veder svanire quelle figure, quasi che non fossero reali.
Ma le allucinazioni non scagliano frecce.
Dopo aver invano gridato aiuto, Wells aveva trasportato Asher nella tenda-infermeria, dov’erano custoditi i medicinali scampati all’incendio. Purtroppo non era servito. Mentre Wells cercava disperatamente le bende, Asher era spirato.
Com’era possibile che ci fosse qualcuno sulla Terra? Assurdo. Nessuno era sopravvissuto al Cataclisma. Per Wells era una certezza, quanto il fatto che l’acqua congeli a 0 gradi o che i pianeti orbitino intorno al Sole. Eppure li aveva visti con i suoi stessi occhi. Individui che di certo non erano arrivati con la navicella da trasporto della Colonia. Terrestri.
«È morto» confermò a Molly. Si rialzò a fatica e solo in quel momento si accorse che tutti lo fissavano. Fino a un paio di settimane prima le loro espressioni sarebbero state diffidenti, se non decisamente sprezzanti. Nessuno credeva che il figlio del Cancelliere fosse davvero stato spedito in Confinamento. Era stato fin troppo facile per Graham convincere gli altri che Wells fosse stato mandato da suo padre per spiarli. Invece adesso tutti lo guardavano pieni di aspettative.
Nel caos che si era scatenato dopo l’incendio, Wells aveva organizzato delle squadre per recuperare le scorte rimaste e per cominciare a costruire strutture permanenti. Il suo interesse per l’architettura terrestre, considerato un inutile capriccio dal padre oltremodo pragmatico, gli aveva permesso di progettare tre baracche di legno che adesso occupavano il centro della radura.
Wells alzò lo sguardo al cielo che si andava rabbuiando. Avrebbe dato qualsiasi cosa perché il Cancelliere vedesse quelle baracche. Non per dimostrargli di aver avuto ragione; dopo aver visto il padre accasciarsi sul ponte di lancio, ferito da un colpo di pistola, il rancore di Wells era sfumato prima del colore dalle guance del Cancelliere. Ora desiderava soltanto che il padre potesse un giorno chiamare la Terra “casa”. Il resto dei coloni avrebbe dovuto raggiungerli una volta che le condizioni sul pianeta fossero state giudicate sicure, ma erano passati ventuno giorni senza nessun cenno dal cielo.
Wells abbassò lo sguardo e la sua mente tornò all’ingrato compito che lo aspettava: dire addio al ragazzo che stavano per mandare in un luogo ancora più buio.
Una ragazza accanto a lui rabbrividì. «Possiamo sbrigarci?» disse. «Non voglio stare qui tutta la notte.»
«Modera i toni» la rimproverò un’altra ragazza di nome Kendall, e le sue labbra delicate si piegarono in una smorfia. Sulle prime Wells aveva creduto che venisse dalla Fenice, ma si era presto reso conto che lo sguardo altezzoso e la cadenza affettata erano solo un’imitazione delle ragazze con cui era cresciuto. Era una pratica abbastanza comune fra i giovani waldeniti e arcadiani, anche se Wells non aveva mai conosciuto nessuno bravo quanto Kendall.
Si girò a cercare Graham, l’unico ragazzo che provenisse dalla Fenice, oltre a lui e a Clarke. In genere non gli piaceva che Graham si mettesse a capo del gruppo, ma era stato amico di Asher ed era quindi più indicato di lui per pronunciare qualche parola al suo funerale. Tuttavia Graham non si vedeva tra la folla: era uno dei pochi assenti, come Clarke del resto. Clarke era partita subito dopo l’incendio insieme a Bellamy per cercare la sorella scomparsa di quest’ultimo, lasciando a Wells nient’altro che il ricordo della frase velenosa che gli aveva sputato addosso prima di allontanarsi: Tu distruggi tutto quello che tocchi.
Uno schiocco secco proveniente dal folto degli alberi fece trasalire i presenti. D’istinto, Wells spinse Molly dietro di sé con una mano, mentre con l’altra afferrava una vanga.
Un istante dopo Graham emerse nella radura, accompagnato da due ragazzi arcadiani, Azuma e Dmitri, e una ragazza waldenita di nome Lila. I tre erano carichi di legna, mentre Lila aveva una fascina di rametti infilata sotto il braccio.
«Ecco dov’erano finite le altre asce» commentò un waldenita di nome Antonio, adocchiando gli utensili sulle spalle di Azuma e Dmitri. «Ci avrebbero fatto comodo oggi pomeriggio.»
Graham inarcò un sopracciglio, studiando la baracca più recente. Finalmente ci stavano prendendo la mano; questa volta non c’erano fessure nel tetto, il che significava che la notte sarebbero stati più caldi e asciutti. Nessuna delle costruzioni aveva le finestre; ci voleva troppo tempo per intagliarle, e non avendo vetro o plastica in fin dei conti sarebbero stati soltanto dei buchi nelle pareti.
«Fidati, questo era più importante» rispose Graham, mostrando i rami che teneva fra le braccia.
«Legna per il fuoco?» chiese Molly, che trasalì davanti all’espressione feroce di Graham.
«No, lance. Quattro assi di legno messe in croce non ci terranno al sicuro. Dobbiamo difenderci. La prossima volta che quei bastardi si faranno vedere, troveranno pane per i loro denti.» Il suo sguardo si posò sul cadavere di Asher, e una strana espressione gli solcò il viso. La sua solita maschera di rabbia e arroganza si era incrinata, lasciando trapelare qualcosa di molto simile a sincero cordoglio.
«Vuoi unirti a noi un momento?» gli domandò Wells conciliante. «Ho pensato che sarebbe giusto dire qualche parola per Asher. Tu lo conoscevi bene, perciò forse ti andrebbe di…»
«A quanto pare hai tutto sotto controllo» lo interruppe Graham, distogliendo lo sguardo dal cadavere per fissare Wells. «Fai pure tu, Cancelliere.»
Mentre gli ultimi raggi di sole lambivano l’orizzonte, Wells ed Eric stavano gettando le ultime palate di terra sulla nuova fossa; Priya posò una ghirlanda di fiori intorno alla lapide di legno. Il resto del gruppo si era disperso, chi per evitare di assistere al seppellimento vero e proprio, chi per accaparrarsi un buon posto in una delle nuove baracche. Ciascuna poteva ospitare comodamente una ventina di persone, o anche trenta, se gli occupanti erano troppo stanchi o infreddoliti per lamentarsi di qualche gamba che finiva sul proprio mucchio di coperte bruciacchiate o di qualche gomitata involontaria.
Wells rimase deluso, sebbene non sorpreso, nello scoprire che ancora una volta Lila aveva occupato una baracca per Graham e i suoi amici, lasciando i ragazzi più piccoli fuori a tremare di freddo e di paura, con gli occhi spalancati che scrutavano le ombre della radura. Pur essendoci dei volontari a montare la guardia, nessuno di quelli rimasti fuori avrebbe passato una notte tranquilla.
«Ehi» disse Wells a Graham che stava attraversando il campo con una lancia quasi finita. «Visto che tu e Dmitri farete il secondo turno di guardia, perché non dormite fuori? Così mi sarà più facile trovarvi quando avrò finito il mio turno.»
Prima che Graham avesse il tempo di rispondere, Lila arrivò di corsa e lo prese sottobraccio. «Mi hai promesso che saresti rimasto con me stanotte, ricordi? Ho tanta paura di dormire da sola» disse, ostentando una vocina sdolcinata lontana anni luce dal suo solito tono tagliente.
«Scusa» disse Graham a Wells con un’alzata di spalle. A Wells non sfuggì la punta di soddisfazione nella sua voce. «Detesto rimangiarmi la parola.» Graham tirò la sua lancia a Wells che l’afferrò al volo con una mano. «Farò la guardia domani notte… se per allora non saremo già tutti morti.»
Lila simulò un brivido esagerato. «Graham!» esclamò. «Non devi dire queste cose!»
«Non temere, ti proteggerò io» disse Graham, e le cinse i fianchi con un braccio. «Oppure farò in modo che la tua ultima notte sulla Terra sia la migliore della vita.» Lila ridacchiò, mentre Wells frenò l’impulso di alzare gli occhi al cielo.
«Magari potreste dormire fuori tutti e due» suggerì Eric, emergendo dalle ombre. «Almeno noialtri potremo riposare in santa pace.»
Graham s’inalberò. «Guarda che stamattina ho visto Felix sgusciare via dal tuo sacco a pelo, Eric. Se c’è una cosa che non sopporto sono gli ipocriti.»
Un fugace sorriso balenò sulle labbra di Eric. «È vero, ma non ci hai sentiti.»
«Uffa!» disse Lila e cominciò a tirare Graham per un braccio. «Andiamo prima che Tamsin dia via il nostro letto.»
«Vuoi che faccia questo turno con te?» domandò Eric a Wells.
Il ragazzo scosse la testa. «No, è tutto a posto. Priya sta già controllando il perimetro.»
«Pensi che torneranno?» disse Eric abbassando la voce.
Wells si guardò intorno per assicurarsi che nessuno origliasse la loro conversazione, poi annuì. «È stato più di un avvertimento. È stata una dimostrazione di forza. Chiunque sia quella gente, vogliono farci capire che non gradiscono affatto la nostra presenza.»
«Già. Non siamo graditi» mormorò Eric, voltandosi a guardare il tumulo dov’era sepolto Asher. Poi, con un sospiro, augurò la buonanotte a Wells e si diresse verso i giacigli improvvisati che Felix e qualche altro avevano radunato intorno al falò spento come d’abitudine.
Wells si mise la lancia in spalla e andò a cercare Priya. Aveva fatto appena qualche passo quando urtò qualcosa e uno strillo echeggiò nelle tenebre.
«Tutto bene?» chiese Wells allungando una mano per aiutare la persona a riprendere l’equilibrio.
«Tutto bene» rispose la voce tremante di una ragazza. Era Molly.
«Dove dormi stanotte? Ti aiuto a trovare il tuo letto.»
«Fuori. Non c’era più posto nelle baracche.» Aveva una vocina sottile.
Wells si sentì travolgere dalla voglia di prendere Graham e Lila e scaraventarli nel torrente. «Hai freddo?» domandò a Molly. «Posso procurarti una coperta.» L’avrebbe strappata di dosso a Graham se necessario.
«Sto bene. Fa piuttosto caldo stanotte, non ti pare?»
Wells la guardò sconcertato. La temperatura si era abbassata parecchio da quando il sole era tramontato. Appoggiò il dorso della mano sulla fronte di Molly. La sua pelle era calda. «Sicura di sentirti bene?»
«Mi gira un po’ la testa» ammise lei. Wells serrò la mascella. Avevano perso gran parte dei viveri nell’incendio, il che significava che le razioni avevano subito una drastica diminuzione. «Tieni» disse, prendendo dalla tasca la confezione di proteine che non aveva avuto il tempo di finire. «Mangia.»
Lei fece di no con la testa. «Sto bene. Non ho fame» rispose con un filo di voce.
Dopo averle fatto promettere di avvertirlo se l’indomani non si fosse sentita bene, Wells si allontanò in cerca di Priya. Avevano messo in salvo la maggior parte dei medicinali, ma a cosa servivano se l’unica persona in grado di usarli non c’era? Wells si domandò quanto lontano si fossero spinti Clarke e Bellamy e se avessero trovato tracce di Octavia. Un brivido di terrore lo riscosse dalla stanchezza al pensiero dei pericoli che avrebbe potuto incontrare Clarke nella foresta. Lei e Bellamy se n’erano andati prima dell’attacco. Non avevano idea che ci fossero delle persone là in giro, terrestri che comunicavano con frecce letali.
Sospirò e alzò la testa verso il cielo, mormorando una preghiera silenziosa per la ragazza che tante volte aveva protetto a costo di rischiare la vita. La ragazza i cui occhi avevano lampeggiato di puro odio quando gli aveva detto di non volerlo vedere mai più.
CAPITOLO 2
Clarke
Erano due giorni che camminavano, facendo soltanto qualche sosta di un’ora o due per riprendere fiato. Clarke aveva male ai polpacci, ma Bellamy non dava segno di volersi fermare. Tutto sommato non le importava… anzi, per certi versi la sensazione era piacevole. Più si concentrava sul dolore ai polpacci, meno tempo aveva di pensare al dolore che le attanagliava il petto, e all’amica che non era riuscita a salvare.
Trasse un respiro profondo. Perfino bendata, avrebbe potuto dire che il sole era tramontato. L’aria era satura del profumo di quei fiori bianchi che si schiudevano solo di notte, dando l’impressione che gli alberi si fossero vestiti a festa. Clarke avrebbe voluto sapere quale genere di vantaggio evolutivo fornissero quegli strani fiori. Forse attiravano un particolare tipo di insetti notturni? Il loro profumo singolare era fin troppo carico laddove gli alberi crescevano ravvicinati, ma Clarke li preferiva ai filari ordinati di meli che lei e Bellamy avevano scorto poco prima. Le venne la pelle d’oca nel ricordare i tronchi a distanza regolare, come soldati schierati in formazione.
Bellamy camminava un paio di metri avanti. Era taciturno, come sempre gli capitava quando andava a caccia; questa volta però non stava seguendo le tracce di un coniglio o di un cervo. Cercava sua sorella.
Era passata quasi una giornata da quando avevano scorto le ultime impronte, e la tacita verità trasformò quel silenzio in un macigno che opprimeva il cuore di Clarke.
Avevano perso le tracce di Octavia.
Bellamy si fermò in cima a una collina. Clarke lo raggiunse e si mise al suo fianco. Si trovavano sull’orlo di un ripido pendio che scendeva verso uno specchio d’acqua sci...