Con le mie mani
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Con le mie mani

Tutte le battaglie di un guerriero della vita

  1. 350 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Con le mie mani

Tutte le battaglie di un guerriero della vita

Informazioni su questo libro

A Giorgio Petrosyan la vita ha chiesto di combattere fin da subito. Nato nell'Armenia insanguinata dalla guerra con l'Azerbaijan, per sfuggire alle violenze nel 1999 parte alla volta dell'Italia con il padre Andrei e il fratello Stepan. È l'inizio di un'odissea, dieci giorni nascosti nel rimorchio di un camion tra il freddo e la paura. Nella sua fantasia di bambino, Giorgio sarebbe voluto andare a Milano perché era lì che giocava Ronaldo, mentre suo fratello impazziva per Del Piero e avrebbe preferito Torino. L'approdo finale, invece, dopo tante porte in faccia, altro freddo e altra paura, è Gorizia. Qui Giorgio cresce votandosi anima e corpo alla kickboxing: si tiene lontano da vizi e distrazioni, sceglie la disciplina, l'allenamento duro. Sceglie di diventare un campione. Inanellando una vittoria dopo l'altra rimane imbattuto per quasi sette anni, vince i più importanti titoli mondiali e diventa un'autentica leggenda vivente delle arti marziali. Ma gli avversari di Giorgio non sono soltanto sul ring: i più pericolosi sono i demoni che si affacciano nei momenti bui, sono gli infortuni, sono le frontiere. Sì, perché fino al 2014, quando riceve dal Presidente Napolitano la cittadinanza italiana per meriti sportivi, Giorgio è un rifugiato, un senza patria, ogni combattimento internazionale è una sfida nella sfida, ogni passaggio di confine una rocambolesca, a volte tragicomica avventura. Con le mie mani è la storia di un uomo che, partito dal niente, si è arrampicato fin sul tetto del mondo. Che a forza di sacrifici, prima nella vita e poi in palestra, ha fortissimamente voluto realizzare i suoi sogni, e questi sogni ora li sta vivendo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
Print ISBN
9788817091305
eBook ISBN
9788858686928

1

Il mio nome è Gevorg

Tutti mi conoscono come Giorgio, ma il mio nome è Gevorg. Sono nato il 10 dicembre 1985 a Yerevan, la capitale dell’Armenia. Oggi sono cittadino italiano, e questo a molte persone sembra scontato. Lo è semplicemente perché vivo in Italia da quando ho quattordici anni e, sin dall’inizio della mia carriera sportiva, ho sempre difeso il tricolore sui ring di tutto il mondo. Non tutti sanno però che per ottenere il passaporto ho dovuto combattere; e quando dico combattere non uso un eufemismo o una metafora.
Al mio primo appuntamento con la bilancia ho fatto fermare la lancetta sui 2,8 chili. Nella categoria di peso per neonati ero sotto la media. Considerato il fatto che la mia esistenza era cominciata con un mese d’anticipo rispetto alla data prevista dai medici, potevo comunque considerarmi un peso medio. Certo, ho avuto fretta di venire al mondo, ma se la vita è una sfida continua, allora il mio match d’esordio l’avevo vinto prima del limite.
Non ho molti ricordi di quando ero bambino. C’è chi da piccolo sogna di diventare astronauta, chi medico e chi poliziotto. Per quanto ne so, io ho sempre sognato di diventare campione del mondo di kickboxing, di essere il più forte di tutti. Nella mia testa c’è sempre stato spazio solo per questo. La strada è stata lunga e faticosa, costellata di sacrifici e combattimenti, dentro e fuori dal ring. Ma alla fine sono riuscito a raggiungere il mio obiettivo.
E questa è la mia storia.
A undici anni vivevo in un bell’appartamento al primo piano di una palazzina non molto alta con mio padre Andrei, mia madre Karine, mia sorella Lianna e i miei due fratelli, Stepan, il maggiore, e Armen, più piccolo di me di undici mesi soltanto. Anche lui era nato prematuro, con addirittura due mesi d’anticipo. Aveva fretta, più fretta di me, e alla nascita pesava soltanto 2,2 chili. A differenza di quanto possa sembrare, né lui né io abbiamo però bruciato le tappe. Abbiamo fatto tutto con i giusti tempi: un passo alla volta. Forzare le cose non porta a buoni risultati, e lo posso dire con certezza.
La nostra era una zona tutto sommato tranquilla di Yerevan. Per le strade potevi incontrare i boss della criminalità locale che giravano su grosse macchine tirate a lucido, ma non c’erano problemi. Il nostro quartiere, Komitas, non era troppo lontano dal centro e fuori dalla finestra di camera nostra cresceva una vite da cui raccoglievamo l’uva quando maturava. Gli acini allungati erano dolci e succosi. Stavamo bene dove eravamo. Il cibo era buono – la frutta in particolare – e la gente amichevole e ospitale. D’estate, quando finiva la scuola, andavamo un mese al lago Sevan e questo viaggio ci bastava. Per noi era il paradiso in Terra: una gigantesca distesa di acqua azzurra di cui era impossibile vedere la fine, con tutto attorno montagne a perdita d’occhio. Stavamo bene, non avevamo bisogno d’altro.
Dopo la disgregazione dell’Unione sovietica – quando io ero piccolo – passammo un periodo difficile. All’improvviso venne a mancare tutto. La distribuzione di energia elettrica era limitata a un’ora al giorno e anche i beni di prima necessità erano contingentati. Per prendere da mangiare si dovevano esibire delle tessere. All’epoca vivevamo tutti insieme da mia nonna, perché così era più facile resistere. Non ricordo quasi nulla di quel periodo, ma il freddo che pativamo d’inverno non riuscirò mai a levarmelo dalla mente. Mio zio spaccava la legna per la stufa e noi, con i muscoli indolenziti dal gelo, ci dovevamo alzare a turno nel cuore della notte. Andavamo a fare la fila per comprare un pezzo di pane o per prendere il gasolio con cui alimentare alla sera la lampada a olio attorno a cui noi bambini facevamo i compiti.
Fu un brutto periodo, ma, per fortuna, le cose cambiarono abbastanza in fretta e la nostra situazione economica migliorò. Nel 1996 in Armenia le campagne potevano anche essere povere, ma in città la vita scorreva ormai normalmente.
Secondo Armen già allora ero malato di arti marziali, e forse aveva ragione: amavo guardare i film di Jean-Claude van Damme e di Bruce Lee e poi fingevo di essere uno dei personaggi di quelle storie. Fu in quel periodo che la mia esistenza cambiò per sempre. Un giorno si presentò a scuola un signore che disse di volerci insegnare a combattere. Ovviamente, non ci mise molto a convincermi: quello stesso giorno, tornai a casa e annunciai a mio padre che mi sarei dedicato alle arti marziali. Non sapevo esattamente cosa avrei imparato, ma non importava molto.
All’inizio papà mi guardò perplesso e mi disse che, qualunque fosse stata la disciplina che volevo praticare, secondo lui ero troppo magro per combattere. Ero stato un bimbo cicciottello fino a quando avevo cambiato i denti da latte, poi ero dimagrito di colpo e a undici anni sembravo uno stuzzicadenti. A malapena raggiungevo i ventotto chili, ero tutto pelle e ossa, senza nemmeno un muscolo. Di me si notavano soprattutto gli occhi grandi e scuri. Io però non mi persi d’animo. Fui tanto insistente che alla fine mio padre lasciò aperto uno spiraglio. Non era convinto, ma non si oppose alla mia richiesta. Mi disse: «Vengo a conoscere il maestro. Poi vediamo». Era già qualcosa, dovevo sfruttare l’occasione.
La palestra dove si svolgevano gli allenamenti era la stessa della mia scuola. Da casa distava appena una decina di minuti a piedi. All’interno non c’era nessun sacco e non c’era neppure un ring. Non c’era niente. C’era soltanto Hovo, il nostro maestro. Era un adulto un po’ strano che guidava una trentina di ragazzini sgangherati facendoli correre in cerchio e facendo fare loro piegamenti sulle braccia, un’infinità di piegamenti sulle braccia. Veniva in palestra con ai piedi delle scarpe a punta con la suola di cuoio e con indosso dei jeans attillati. Non so che cosa disse a mio padre, so soltanto che alla fine lo convinse, e questo è quel che conta. A partire dal giorno dopo iniziai a frequentare il suo corso.
Come prima cosa Hovo ci insegnò un saluto che avremmo dovuto ripetere all’inizio di ogni allenamento. Ci spiegò poi i movimenti base delle arti marziali. Io ascoltavo attentamente. Anche se spesso era faticoso, facevo tutto quello che ci diceva. Credo che si debbano sempre seguire le indicazioni degli adulti o, comunque, delle persone con maggiore esperienza di noi. Ci sono dei momenti, soprattutto quando si è giovani, in cui non si è abbastanza maturi per distinguere con certezza quello che è giusto fare da quello che non lo è: in quei momenti bisogna affidarsi a chi ne sa di più, altrimenti il rischio di perdere la strada e smarrirsi è molto alto. Già allora, notai che la maggior parte dei miei compagni non era della stessa idea. Se per caso Hovo si girava e smetteva di guardarci, invece di dieci piegamenti, ne facevano tre: i primi due e il decimo. Io ero sempre l’ultimo a finire gli esercizi e a lasciare la palestra, e questa costanza non dipendeva dal fatto che mio padre seguiva ogni singolo allenamento. Lo facevo perché mi piaceva e perché sono da sempre stato convinto che, quando si fa una cosa, la si debba fare bene. Altrimenti è meglio lasciar stare.
In realtà, per me gli esercizi non finivano mai. Continuavano anche a casa. «Papà, se prima di andare a letto faccio dieci piegamenti, domani sarò più forte?»
Lui rispondeva con noncuranza: «Se ne farai venti, sarai ancora più forte».
Sapeva che li avrei fatti. Non aveva bisogno di controllare e infatti ogni volta accoglievo i suoi suggerimenti. Mattina dopo mattina mi sentivo meglio, mi guardavo i muscoli e li vedevo più grossi. Ovviamente non era cambiato nulla nel mio aspetto, ma io credevo in me stesso e sentivo di essere migliore. Ero determinato.
Non è che gli allenamenti fossero molto divertenti. Correvamo e lavoravamo a corpo libero. Di attrezzi non se ne vedeva nemmeno l’ombra. Non era esattamente quello che mostravano nei film, dove, per prepararsi agli incontri, i personaggi colpivano dei sacchi per ore e ore e si sottoponevano a prove durissime. Mi resi conto di avere anch’io bisogno dei guantoni e di uno di quegli affari che penzolavano dal soffitto. Fu così che andai in un negozio non lontano da casa: lì dentro, in mezzo a oggetti di qualsiasi tipo, si poteva trovare anche un discreto campionario di articoli sportivi. Come dicevo, la situazione economica della nostra famiglia era migliorata, quindi mio padre mi aveva dato il permesso di comprare un sacco.
Era piccolo, e anche se non era in pelle ero comunque felice: finalmente avrei imitato i miei idoli della televisione.
Tenevo il sacco sotto il letto, ma alla mattina, prima di andare a scuola, lo tiravo fuori e lo appendevo alla tettoia che copriva una parte del nostro cortile. Lì lo colpivo con tutta la forza che avevo nelle braccia. Ricordo che era rosso scuro, quasi marrone, e penzolava come uno dei quarti di bue con cui Rocky Balboa si allenava nel mattatoio.
Un pomeriggio, durante una delle mie sedute di allenamento casalingo, mi si avvicinò un signore anziano. Era uno di quei personaggi che se ne stanno tutto il giorno seduti a un tavolino con gli amici a giocare a backgammon o a guardare quello che fanno gli altri per poi commentare qualsiasi cosa capiti loro sotto gli occhi. In quel caso, sotto il suo giudizio ci finii io. Mi fissava e mi osservava. Dopo un po’ si fece sotto: «Ragazzo, non si fa così. Devi essere più rilassato. Devi dare colpi più precisi. Il sacco non serve per sfogarsi, serve per migliorare la tecnica».
A differenza di altre volte, il tipo sembrava sapere quello che diceva. Dopotutto, in Armenia gli sport da combattimento sono molto comuni e praticati, fanno parte della cultura del nostro popolo, e quell’anziano probabilmente aveva una buona esperienza. Parlava di tecnica… Già, era da quella che dovevo partire. Senza dire nulla pensai, però, che non ne avevo una da cui iniziare. Lo guardai e tenni la constatazione per me. Mi limitai ad ascoltare il primo suggerimento: rilassarmi. Non era difficile, potevo farcela.
Continuai ad allenarmi con costanza tutti i giorni – alla mattina, al pomeriggio e alla sera – e, dopo soli tre mesi, Hovo decise che ero pronto per affrontare il mio primo avversario. Ancora non lo sapevo, ma il mio esordio sarebbe stato in un torneo. L’ultimo scoglio da superare era mio padre. Quando in casa mi azzuffavo con i miei fratelli in una delle tipiche liti tra ragazzini e uno dei nostri genitori ci sorprendeva, per evitare di essere sgridato mi mettevo a piangere: in questo modo quelli che venivano rimproverati erano i miei fratelli. Evidentemente in tutti quegli anni avevo recitato bene la mia parte, perché quando Hovo annunciò ai miei che avrei combattuto, mio padre non ne fu affatto convinto. Obiettò che era troppo presto, che non ero in grado di affrontare un avversario vero.
«È pronto» assicurò il maestro, risoluto.
Non c’era molto da discutere. Venni iscritto al torneo e non se ne parlò più. Da lì a qualche giorno mi ritrovai di fronte a un ragazzino della mia stessa età. Vinsi contro di lui e con tutti quelli che vennero dopo. Arrivai in finale e conquistai la prima medaglia della mia carriera.
La cosa curiosa è che di quegli avversari non conservo nemmeno un vago ricordo. Non ne ho memoria. So che li ho affrontati, ma solo perché me lo hanno raccontato. La verità è che non saprei neppure dire con esattezza quale fosse la disciplina del combattimento e quanti incontri abbia disputato. Forse non c’era nemmeno il ring, forse eravamo solo su un tatami. Poteva essere stato un torneo di karate o, più probabilmente, di taekwondo. Non giurerei né sull’una né sull’altra disciplina. Hovo un giorno ci faceva fare una cosa e quello dopo ce ne faceva fare un’altra. L’unica costante era che tutto veniva eseguito rigorosamente a corpo libero: niente di strano se uno poi fa un po’ di confusione. Per quanto ne so, poteva anche essere jujitsu o un qualsiasi altro tipo d’arte marziale. Che differenza c’era?
Di allora è sopravvissuta soltanto qualche vecchia fotografia. Una è stata scattata nel soggiorno di casa: sto in guardia e indosso un kimono bianco con ricamata una scritta rossa sul risvolto della giacca. A regalarmelo era stato mio zio Hakob.
Qualche giorno dopo, stavo seguendo in classe la lezione di armeno. A un certo punto l’insegnante, la signora Hralumyan, disse: «Qui tra voi c’è un ragazzo di cui sentirete parlare quando sarete adulti».
Tutti noi ci guardammo intorno chiedendoci di chi stesse parlando. Poi, con orgoglio, mi chiese di alzarmi in piedi. Obbedii timidamente e vidi, con la coda dell’occhio, tutti i miei compagni iniziare a fissarmi. Che ne sapeva lei dei miei sogni di ragazzino?
Ero ancora confuso, quando aggiunse: «Avete fatto i complimenti al vostro compagno?».
Tutti si domandarono il motivo per cui avrebbero dovuto e – a essere sincero – anch’io me lo stavo domandando. Non capivo. Poi la signora Hralumyan raccontò che avevo vinto il torneo di arti marziali. Evidentemente quella competizione doveva essere stata a suo modo importante, perché il risultato era stato pubblicato sul giornale e l’insegnante, per qualche motivo, ne era rimasta colpita. Sembrava sinceramente orgogliosa e, a quel punto, anch’io cominciai a esserlo. Stare in piedi di fronte ai miei coetanei però mi imbarazzava.
Come facevo durante le ore di inglese e di russo, avrei voluto nascondermi sotto il banco insieme a Kamo, un ragazzo a posto che praticava la boxe e con cui ogni tanto la mattina, prima della scuola, andavo a correre.
La parte anteriore dei nostri banchi era chiusa e così, quando ci “immergevamo”, nessuno ci poteva vedere. Fingevamo di essere assenti per non dover seguire le lezioni. Non importava quale insegnante ci fosse stato prima o quale ci sarebbe stato dopo: ognuno faceva il suo appello. Quando non ci interessava la lezione, noi ci nascondevamo e passavamo il tempo rosicchiando i semi di girasole salati comprati prima di entrare a scuola. Li pescavamo da un bicchierino, ne succhiavamo il cuore e sputavamo la buccia per terra. Una volta finiti, rimettevamo gli avanzi nel bicchiere e, al termine dell’ora, riemergevamo come se nulla fosse successo, pronti per la lezione successiva.
In quel momento, mentre la signora Hralumyan raccontava le mie gesta a tutta la classe, per quanto lusingato, avrei voluto starmene con Kamo rannicchiato sotto il banco. Oppure scappare da quell’aula per correre a perdifiato. Ovunque, piuttosto che rimanere lì. Di certo non mi andava di stare in piedi in classe con tutti i miei compagni che mi fissavano come un extraterrestre. Perché sembravo proprio quello: un extraterrestre.
A distanza di anni, ho capito che quello fu il mio primo pubblico e la signora Hralumyan la mia prima fan. Forse fu anche la prima a credere davvero in me e a pensare che sarei diventato campione del mondo. Si comportò in quel modo perché mi voleva bene, me ne rendo conto, ma in quel momento io proprio non sapevo cosa dire. Come sanno bene i giornalisti con cui negli anni ho avuto a che fare, non sono mai stato un grande chiacchierone. Preferisco far parlare i fatti. Abbozzai un sorriso e tornai a sedermi, ringraziando dell’attestato di stima.
Alla mia classe importava davvero qualcosa della mia medaglia?
Di fronte al mio entusiasmo per le arti marziali Armen si incuriosì. La palestra però non lo appassionava. Per i suoi gusti si correva troppo, e a lui correre non era mai piaciuto. Non apprezzava neppure i metodi di Hovo. Gli allenamenti erano piuttosto noiosi e il maestro si comportava in modo duro. Alle volte ci divaricava le gambe con la forza. Diceva che era per renderci più elastici. Io, che ero sciolto, non avevo problemi a fare la spaccata, ma ad Armen quello sforzo provocava indicibili sofferenze. Si allenò per un po’, poi se ne andò e non tornò più. Sarebbero passati anni e ci sarebbe voluto un nuovo Paese per convincerlo a tornare in palestra.
Non saprei per quale motivo, ma a quei tempi mio fratello, più che uno sportivo, avrebbe voluto diventare un mafioso di professione. Probabilmente, ad attrarlo erano quei boss del nostro quartiere che indossavano sempre vestiti eleganti. Tutti li rispettavano, e loro se ne andavano in giro a testa alta, senza temere niente e nessuno. Le risse erano all’ordine del giorno e non era raro che volassero bottiglie. I coltelli, poi, saltavano fuori senza troppi problemi. Imparavi quello che vedevi e quello che vedevi ti sembrava tanto normale quanto giusto. È brutto da dire, ma questa era la situazione e tra i ragazzini di Komitas i mafiosi erano considerati dei miti. Penso fosse soprattutto una questione di carisma. Per strada la violenza era quotidiana anche tra noi ragazzi. Valeva la legge del più forte e Armen trovava sempre qualcuno da sottomettere: si trattava di piccole cose, come farsi portare i libri, ma erano comunque atti di prevaricazione.
Un giorno, decise che un nostro compagno di scuola doveva essere ridimensionato. Si chiamava Arkadik e passava le giornate a vantarsi di quanto fosse forte e bravo nelle arti marziali. Nessuno, però, lo aveva mai visto in azione. Era il classico tipo che parlava troppo, e a noi non piaceva chi parlava troppo. Ispirato dai combattimenti clandestini dei film, Armen propose a quella lingualunga una sfida contro di me. Dopo quello che andava a dire in giro, sapevamo che non si sarebbe potuto tirare indietro. Infatti accettò.
«Scopriremo chi è davvero il più forte: nessuna palestra, nessun giudice: lotta da strada all’ultimo sangue.» Armen si era calato perfettamente nella parte dell’aspirante criminale.
Il nostro campo di battaglia sarebbe stata una piattaforma di cemento situata in mezzo al parco. Da qualche parte posizionammo anche una telecamera per riprendere l’incontro. Nessuna regola. Vinceva chi rimaneva in piedi. Mentre sistemavamo delle protezioni alle gambe e ci dirigevamo al centro della pedana, gli amici che ci avevano seguito iniziarono a incitarci. C’erano gruppi che tifavano per me, altri che sostenevano Arkadik.
Al via di mio fratello, cominciammo a colpirci. Il clima era caldo e i passanti, attirati dalle grida del “pubblico”, di tanto in tanto si fermavano a guardare quello che accadeva. Le protezioni alle gamb...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Con le mie mani
  4. Prefazione di Emis Killa
  5. Prologo
  6. 1. Il mio nome è Gevorg
  7. 2. Yerevan-Gorizia solo andata
  8. 3. Che problemi ci sono in Armenia?
  9. 4. Alfio, il mio maestro
  10. 5. La soluzione a tutti i problemi
  11. 6. L’esordio
  12. 7. I primi passi verso un sogno
  13. 8. Il chirurgo del ring
  14. 9. Leggenda vs Signor Nessuno
  15. 10. On the road
  16. 11. Thailandia, la patria della muay-thai
  17. 12. Come pescare un pescecane
  18. 13. Faccia a faccia con Armen
  19. 14. Non andremo in Giappone come comparse
  20. 15. Nessuno tocchi mia mamma
  21. 16. Il sogno dei sogni
  22. 17. La mia mano destra
  23. 18. Da dove venite? Dove andate?
  24. 19. L’occhio di Dio
  25. 20. Nel buco del cesso
  26. 21. Esorcizzare i fantasmi
  27. 22. Sofferenza e gloria
  28. 23. La battaglia di Daniela
  29. 24. Combattenti nella vita
  30. 25. I fantasmi tornano all’assalto
  31. 26. La pagina più nera
  32. 27. Rialzarsi
  33. 28. L’ultima volta
  34. 29. Giorgio Petrosyan, cittadino italiano
  35. Epilogo
  36. Postfazione di Carlo Di Blasi
  37. Indice