A testa in su
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A testa in su

Investire in felicità per non essere sudditi

  1. 256 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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A testa in su

Investire in felicità per non essere sudditi

Informazioni su questo libro

"Oggi indignarsi non basta più. Occorre un'ondata di partecipazione alla vita politica, uno tsunami di interesse per tutto quel che è comune. Occorre cospirare. Non solo votare, ma partecipare." Alessandro Di Battista, uno dei più noti e attivi esponenti del Movimento 5 Stelle, ha le idee chiare quando si parla di partecipazione: bisogna mettersi in viaggio e andare a scoprire il Paese reale, piazza dopo piazza, come ha fatto nella lunga estate del 2016. Ma questa è stata solo l'ultima di molte partenze - verso l'America Latina, il Guatemala, il Congo - che Di Battista ha intrapreso nella sua vita, anche prima di entrare nel Movimento.A testa in su invita a riappropriarsi della propria vita sociale. È un appello a mettersi in gioco per sostituire il politico di professione con il cittadino responsabile.Attraverso molti incontri - con Gianroberto Casaleggio, Beppe Grillo e migliaia di persone - e altrettanti scontri - con i partiti e la stampa - Di Battista spiega le ragioni della sua scelta, le posizioni del Movimento e le regole che si è dato per non farsi travolgere dalla spirale del potere e agire nell'interesse della collettività.La Rete e la crisi della democrazia rappresentativa, l'ambiguità dei media e le lotte del Movimento sono raccontate senza filtri o ipocrisie. È una chiamata a mettersi in viaggio per scardinare le regole sporche del sistema, riprendendosi, da cittadini, la sovranità del Paese.Perché la battaglia del presente, e del futuro, non sarà tra destra e sinistra ma tra chi si china e chi cammina a testa in su.

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Informazioni

1

Mettersi in viaggio

Avevo appena finito di mangiare un piatto di verdure grigliate alla mensa della nave quando si avvicinò un uomo sulla quarantina.
«Ma lei è lei?» domandò.
«Io sono io, lei è lei?» risposi sorridendo.
«Sì, anche io sono io.»
«Quindi ognuno è se stesso, molto bene» aggiunsi.
«Maronna, Di Battista, e che ci fa un onorevole su questo traghetto?»
«Sto andando a Siracusa, domani sera ho un comizio sulle ragioni del no alle riforme costituzionali. Mi sono imbarcato da Napoli perché sono in motorino.»
«Anch’io sono per il no. Posso offrirle un caffè?»
«Volentieri, grazie.»
Accettando quel caffè sapevo di aver accettato anche un quarto d’ora di conversazione. Il signore faceva il cameriere sulla nave e da cinque anni andava avanti e indietro da Napoli a Catania. Sul traghetto c’erano soprattutto camionisti e lui li conosceva tutti quanti, li chiamava per nome e sapeva esattamente come volevano il caffè, un po’ come i baristi nei bar di quartiere. Era particolarmente soddisfatto per il no alle Olimpiadi di Roma 2024 che la sindaca Raggi aveva ufficializzato il giorno prima.
«Maronna, che soddisfazione, questi volevano solo mangiare» disse prima di rivolgere lo sguardo a due colleghi. «Guardate chi c’è! È Di Battista, quello dei 5 Stelle.»
La voce si sparse per tutto il traghetto. Di lì a poco vennero a salutarmi Pippo e Anna, coniugi di Carlentini, una cittadina in provincia di Siracusa. Erano andati in vacanza a Fiuggi e stavano tornando a casa. Lei, con immancabile trasporto materno, mi parlò dei suoi figli. Ne aveva due, una giornalista precaria e l’altro ingegnere a Bruxelles. Quest’ultimo le aveva detto, per quanto riguarda il referendum costituzionale, di votare «controcorrente», solo che lei non aveva capito se «controcorrente» significasse votare sì o votare no. Le risposi che senz’altro significava votare no.
Pippo era agricoltore. Esordì dicendomi: «Datevi una mossa».
«Datevela pure voi» risposi, «le assicuro che io me la sono data.»
Poi mi parlò di arance. Mi confidò che l’introduzione delle arance marocchine gli aveva distrutto la vita, mi spiegò dei costi di produzione altissimi in Sicilia e dei prezzi ormai insostenibili dell’energia elettrica. La corrente era necessaria per pompare acqua dai pozzi artesiani. Era arrabbiatissimo mentre mi raccontava tutto questo, ma, quasi improvvisamente, la rabbia gli sparì dal volto quando iniziò a elencarmi tutte le differenti qualità di arance del suo territorio. Le descriveva con lo stesso trasporto con il quale sua moglie mi aveva parlato dei figli. «C’è il tarocco, l’arancia più diffusa. È anche la più dolce. Poi la sanguinella che si raccoglie fino ad aprile, e poi il moro di Lentini, l’arancia più scura e saporita che abbiamo.»
Mentre Pippo mi spiegava la differente pigmentazione degli agrumi siciliani mi si avvicinò un altro signore. Era alto e magro, portava un maglione blu scuro sopra una camicia a quadri e aveva capelli e baffi ordinatissimi.
«Permette una parola, onorevole?»
«Prego, si accomodi, tanto ormai stiamo facendo un’agorà pubblica.»
«In privato, se è possibile.»
Mi scusai con gli altri, mi alzai dal tavolo e andai con lui sul ponte della nave. In quel momento il traghetto stava navigando tra Capri e la penisola sorrentina. Angelo, si chiamava così, aveva settantaquattro anni e faceva il trasportatore. Il camion era suo e non dover dipendere da nessuno gli consentiva di campare dignitosamente e di dare una mano al figlio disoccupato.
Credetemi, da quando sono stato eletto in Parlamento avrò conosciuto migliaia di genitori con i figli disoccupati e da tutti loro ho sentito più o meno questa frase: «Fate qualcosa per i nostri figli, noi la nostra vita l’abbiamo vissuta. Fate qualcosa per loro».
È un dramma che abbiamo ben presente, e sta alla base della nostra proposta di un reddito di cittadinanza, un reddito minimo garantito dallo Stato a tutti i cittadini. Perché nell’attuale economia basata sulla crescita a tutti i costi, che non porta né posti di lavoro né qualità della vita, chi non ha reddito o viene emarginato o si autoemargina per senso di vergogna. Lo stesso senso di vergogna che si legge nitidamente negli occhi di quei genitori che mi parlano dei loro figli a spasso, come se si sentissero in colpa per aver fatto qualche investimento sbagliato in passato, per non aver supportato adeguatamente i loro ragazzi, per non averli consigliati al meglio, non aver lottato per dar loro un Paese più giusto. A volte, si sentono addirittura in colpa per avergli voluto troppo bene. Anche negli occhi di Angelo si leggeva disagio e imbarazzo.
Può capitare di incolpare gli altri quando i colpevoli siamo noi, ma spesso ce la prendiamo con noi stessi quando occorrerebbe avere la forza di prendere di petto i veri responsabili dei disastri nel nostro Paese e smetterla, una volta per tutte, di subire le loro angherie.
Angelo, a settant’anni suonati, guida per diverse ore al giorno un bestione da dieci tonnellate. Mi ricorda mio padre che continua a mettere l’anima nella sua piccola azienda, non solo perché gli piace e lo fa sentir vivo, ma perché sente la responsabilità di chi ci lavora e delle loro famiglie. Ho conosciuto imprenditori che si taglierebbero un braccio pur di non licenziare qualcuno. Angelo mi disse pure che da giovane militava nel MSI ma che oggi sta dalla nostra parte. Anche questo lo accomuna a mio padre.
Una volta rotto il ghiaccio iniziò un vero e proprio comizio. Partì dai guai della Salerno-Reggio Calabria fino ad arrivare allo scandalo del monopolio della Caronte S.p.A., la ditta che da cinquant’anni gestisce il trasporto marittimo nello stretto di Messina. Citò a memoria l’articolo 16 della Costituzione lamentandosi che non fosse rispettato: si riferiva alla continuità territoriale, il diritto di spostarsi nel territorio nazionale che dovrebbe essere garantito a tutti i cittadini italiani ma che invece, complici, a parer suo, gli interessi dei monopolisti dei trasporti, non era mai stato assicurato. Ascoltavo quell’uomo rivendicare i diritti costituzionali su un traghetto zeppo di autotreni e pensavo al fatto che in Parlamento si tengono pochissime discussioni simili.
Mi colpì molto un’altra storia che mi raccontò un ragazzo calabrese. Prima di trovare lavoro sulla nave aveva fatto il pescatore di pesce spada nella sua regione. Odiava passare tutte quelle ore nella stiva puzzolente a occuparsi del parcheggio dei tir. Odiava ancor di più l’Unione Europea, durissima, a suo dire, nei confronti dei pescatori calabresi ma estremamente indulgente con quelli spagnoli a cui veniva permesso di prendere pesci spada come e quando volevano. Mi ero imbarcato da poco più di un’ora e avevo già conosciuto un gran numero di persone: se avessi spedito la moto con un corriere espresso e avessi preso un aereo per Catania non avrei incontrato tutta quella gente. Inoltre, più ascoltavo i discorsi più mi dimenticavo di essere un deputato della Repubblica italiana. Curioso, no? Mi scordavo di essere «onorevole» proprio nel momento in cui mi stavo comportando come tale. Per un parlamentare l’ascolto dei cittadini è un dovere: credo che dovrebbe essere inserito nella Costituzione. «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed è obbligato ad ascoltare i cittadini perlomeno sette ore a settimana.» Un’ora al giorno, si può fare.
Alla Camera, durante la fase di scrittura di una legge nelle commissioni predisposte, si organizzano le audizioni. I partiti politici chiamano alcuni esperti della materia in questione che rispondono alle domande dei parlamentari. In teoria, dalle loro risposte il legislatore dovrebbe trarre suggerimenti per migliorare il progetto di legge, ma oggi non è proprio così. I parlamentari non cambiano mai idea dopo un’audizione e ciò è un grande limite. O meglio: magari cambiano pure idea, ma poi votano quel che dice il partito. Il vizio oscuro dei palazzi del potere è proprio questo. Considerato che i politici non dipendono più dal popolo (che, di fatto, nemmeno più li elegge), ma dal partito che li nomina, a chi risponderanno? Ovviamente al partito, a quell’organizzazione esperta in intermediazione che garantisce loro un posto di lavoro in cambio della massima fedeltà nel voto. Fino a che non si spezzerà questo legame in Parlamento potranno anche arrivare personaggi dal curriculum invidiabile, ma le leggi saranno sempre scritte dai funzionari di partito: sostanzialmente da impiegati che pensano a chi li ha assunti e non agli interessi della collettività. Non me la sento di colpevolizzarli: credo sia umano difendere con le unghie e con i denti il proprio impiego, soprattutto di questi tempi. Me la prendo molto di più con coloro che, per scarsa voglia di informarsi, per abitudine, per indolenza o per ignavia votano da trent’anni gli stessi partiti pensando, e questo è il paradosso, non al proprio posto di lavoro ma a quello dei professionisti della politica.
Tornando a me, mi trovavo su un traghetto eppure sembrava che stessi facendo una maxi audizione parlamentare. Niente formalità o convenzioni, niente saluti di rito o richiami al regolamento. Nessun «chiede la parola Tizio» e nessun «Caio ha facoltà di intervenire». Solo vita, vera, vissuta, reale, odore di smog nella stiva e buoni pasto per i camionisti. E giovani che viaggiavano sul ponte e si riscaldavano abbracciandosi. E anziani che avrebbero voluto vedere i loro figli sistemati. E poi voglia di raccontarsi, di condividere, di sentirsi parte di qualcosa, di non farsi scappare quell’opportunità di parlare a un deputato.
Viaggiavo e ascoltavo, sentivo crescere in me il senso di appartenenza alla mia specie: quella umana. E insieme al senso di appartenenza cresceva l’empatia. Come potrà misurarsi il livello di empatia di ciascuno di noi? Non ne ho idea, ma so che l’empatia dovrebbe essere la caratteristica principale di un deputato. Insieme all’onestà e alla competenza nel proprio ambito. Ma l’empatia è la base sulla quale lavorare. L’empatia è la capacità di capire i problemi o gli slanci altrui e farli propri. Un parlamentare rappresenta la Nazione: come puoi farlo se non conosci gli individui che ne fanno parte, se non conosci le loro pulsioni, i loro dolori, le loro priorità? E come puoi aggredire quei problemi per cercare di risolverli con le leggi se non li senti dentro anche tu, se non senti intimamente che riguardano anche te?
L’empatia c’è chi ce l’ha per natura e chi capisce che per ottenerla deve uscire da sé. Viaggiare è uscire da se stessi. Vuoi comprendere il mondo? Mettiti in cammino! Io fin da ragazzo ho sempre sentito un’inquietudine dentro. Un’inquietudine sana che aiuta a tirarsi su dal divano e a spazzare via la polvere che l’abitudine fa depositare sulle gambe.
Ricordo, a proposito di traghetti, le vacanze estive trascorse in Grecia con la famiglia. Sulla nave mi sentivo un piccolo esploratore. Dovevo aprire tutte le porte, dovevo arrivare nei luoghi proibiti, nella sala macchine, nella cucina del ristorante. Perlustravo ogni ponte, uscivo, rientravo, guardavo le persone in viaggio e provavo invidia, io che ero in cuccetta con i miei, per i ragazzi che stavano all’aria aperta con i sacchi a pelo.
Erano i primi segnali della vita che avrei scelto di vivere. L’inquietudine, come un gong dei quiz televisivi, è arrivata tante volte. Ormai riconosco immediatamente ogni sua caratteristica: inizio a guardare l’atlante con bramosia, vengo travolto da uno stato di nervosismo misto a trepidazione e i piedi cominciano a scottare.
È successo dopo l’università, quando scelsi di far domanda per un progetto della Caritas Italiana e andai a vivere un anno in Guatemala.
È successo dopo aver lavorato quattro anni in AMKA onlus, un’associazione che portava avanti progetti di sviluppo in Congo. Stavo bene a Roma, guadagnavo decorosamente e facevo un lavoro gratificante, ma il gong quando arriva arriva.
Quella volta mi licenziai e acquistai un biglietto di sola andata per Buenos Aires. Per quasi due anni viaggiai in autostop per l’America Latina tra la gente come una persona qualunque, alla ricerca di «spremute di umanità». E ogni volta che ne assaporavo il gusto aumentava in me l’empatia e con essa la capacità di capire come gira il mondo. In Sud America mi spostai con lentezza, e la lentezza fu la mia migliore amica. Mi diede i giusti consigli, mi suggerì di fidarmi del prossimo, mi permise di muovermi in economia e mi spinse a lavorare. Accettavo qualsiasi proposta mi arrivasse.
A Buenos Aires vendevo artigianato in strada e con quel che guadagnavo mi pagavo l’ostello, una dose quotidiana di empanadas e, quando andava molto bene, una bottiglia di vino cileno. Sul fiume Paraná barattai mezza giornata di carico e scarico di sacchi di cemento in cambio di un passaggio fino alle missioni gesuite del Paraguay. Non conoscevo la tecnica giusta per caricare quei sacchi pesantissimi, ma trattenevo i lamenti per non fare la figura dello straniero tutto chiacchiere e borghesia. A Puerto Eden, una cittadina dell’isola di Wellington dove vivono gli ultimi superstiti dei kaweshkar, una tribù nativa del Sud America, aiutai l’unica professoressa della scuola in cambio di un materasso e di generose porzioni di zuppa di polenta e frutti di mare del Pacifico.
Lavorare era il modo migliore per entrare in contatto con tutte quelle persone così diverse e allo stesso tempo così simili a me. Perché anche loro lottavano per i loro diritti, anche loro si sentivano schiacciati dalla modernità: e anche loro si sentivano soli. In America Latina sono diventato adulto e ho capito di avere delle responsabilità, tra cui dover fare ritorno a casa. Da lontano vedevo il mio Paese sprofondare in una crisi principalmente di valori e mi sentivo uno schifo a stare dall’altra parte dell’Atlantico. A volte anche tornare a casa significa mettersi in viaggio, soprattutto dopo aver incontrato centinaia di persone, ognuna delle quali mi ha permesso di scoprire nuovi pezzettini di me.
Viaggiare è stata sempre la risposta a domande che avevo difficoltà o addirittura paura a formulare. Viaggiare è un investimento in felicità, è l’antidoto che più di ogni altro funziona contro il veleno della xenofobia. Viaggiare, oltretutto, mi ha sempre aiutato a riprendere la giusta direzione o comunque ha ridotto le possibilità di perdermi in futuro.
Anche per questo, nell’estate del 2016, scelsi di percorrere oltre cinquemila chilometri in motorino e spiegare nelle piazze d’Italia quanto la riforma costituzionale di Renzi, Boschi e Verdini fosse un pericolo per la sovranità popolare. L’idea di attraversare il Paese a difesa della Costituzione mi venne quando vidi che Matteo Renzi, per vincere a tutti i costi il referendum costituzionale, stava occupando la RAI piazzando i suoi uomini, di fatto eliminando tutti coloro che non gli erano abbastanza fedeli. Me la girai tutta, l’Italia, da costa a costa, per questo chiamai il tour «Costituzione coast to coast», felice di unire il dovere al piacere: percorrere tutto il Paese in motorino, un sogno che cullavo da anni e che mi ero imposto di realizzare, e difendere la sovranità popolare nelle piazze, nelle stazioni di servizio, sulle strade, nelle case degli sconosciuti. Case di sconosciuti, proprio così: decine di persone mai viste prima mi hanno aperto la porta della loro abitazione, mi hanno dato asciugamani puliti e mi hanno spiegato come funzionava la caldaia. Mi hanno cucinato prelibatezze uniche, mi hanno fatto assaggiare piatti regionali, verdure delle quali ignoravo l’esistenza, formaggi che parlavano le mille lingue del mondo. Mi hanno fatto sentire a casa. Le mattine mi godevo le meraviglie del Paese più bello del mondo, mentre nel pomeriggio davo un appuntamento per strada a tutti coloro che avevano voglia di «scortarmi» fino alla città del comizio serale. Pensavo di avere qualcosa da dire ai cittadini, ma, come spesso capita, erano i cittadini ad avere molte più cose da dire a me. Così, ogni loro tormentata confessione diurna diventava parte dei comizi che tenevo la sera in piazza. In America Latina mi piaceva dire che era l’alba a fare il mio programma, in quel viaggio sono stati i cittadini a scrivere parte dei miei discorsi, io facevo solo da megafono e provavo ad aggregare più persone possibile. Ogni volta arrivavano centinaia di centauri, in sella alle loro moto, oppure su scooter o scintillanti Vespe anni Sessanta. Ho rivisto addirittura i Ciao della Piaggio: ma soprattutto ho rivisto un popolo. Diversi motociclisti sfrecciavano con il tricolore svolazzante legato al loro mezzo di trasporto: non il simbolo di una forza politica, ma la bandiera italiana mostrata con orgoglio e con un senso di appartenenza troppo spesso dimenticato.
Il viaggio non è un vero viaggio se alla fine del percorso non cancella alcuni dei pregiudizi che ognuno possiede. Ho sempre pensato, e in parte lo penso ancora, che noi italiani abbiamo molti limiti. Siamo un popolo abituato oltre misura a soffrire e a cercare nell’aldilà quella felicità per la quale dovremmo combattere nell’aldiquà. È come se ci avessero ammaestrato ad attendere il salvatore della Patria e a negare a noi stessi, anche quando abbiamo tutti gli elementi per prenderne atto, che il salvatore della Patria non esiste. Siamo stati terra di conquista dei barbari, dei franchi, degli arabi, dei normanni, dei francesi, degli spagnoli e da settant’anni degli americani. Non abbiamo mai vissuto una rivoluzione popolare com’è accaduto in altri Paesi: ciò per certi versi si è rivelato un bene, ma ci ha impedito di portare nei nostri cromosomi una vitalità iconoclasta necessaria per attuare grandi cambiamenti.
Siamo così abituati a vivere nel fango che chi ha la forza di alzare la testa, di tirarla fuori dal letame e di respirare aria pura è capace poi di spostare le montagne. Pensate a eroi come Falcone e Borsellino: li hanno fatti saltare in aria, ma le loro battaglie camminano ancora oggi su gambe altrui.
In viaggio incontrai decine di eroi. Perché chi fa l’imprenditore in Italia è un eroe, chi denuncia il pizzo è un eroe, chi fa l’agricoltore è un eroe, chi decide di spegnere la TV e di scendere in piazza è un eroe. Sono eroi i vigili del fuoco, i poliziotti, i carabinieri, gli insegnanti precari, i giornalisti che non si piegano agli ordini degli editori.
Credevo di dover indicare una via ai cittadini quando in realtà erano loro a indicarla a me. Credevo di dover parlare loro del concetto di sovranità quando le loro vite me ne mostravano la realizzazione plastica. Credevo di dover spiegare io le soluzioni politiche di cui il Paese ha bisogno quando erano loro, con i loro racconti e le loro denunce, a spiegare a me quel che c’è da fare.
Ero uscito da un palazzo, la Camera dei deputati, che negli ultimi mesi si era occupato delle soglie di sbarramento, dei premi di maggioranza, delle modifiche alla legge elettorale, doppio turno alla francese o modello spagnolo. Ero uscito da un palazzo che si dedica quasi esclusivamente alle regole della politica e che parla della politica che parla della politica che parla della politica. Ero uscito da un mucchio di convenzioni, dal politicamente corretto, dall’idea che si ha di un parlamentare della Repubblica. Ero uscito dagli schemi, mi ero alzato da quei divanetti del Transatlantico, il salone dal quale si accede all’aula della Camera, sui quali si consumano le...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. A testa in su
  4. 1. Mettersi in viaggio
  5. 2. La scuola del Guatemala
  6. 3. La fiducia si conquista
  7. 4. Rivoluzione in fabbrica
  8. 5. Avere un nome
  9. 6. Agli esempi si crede sempre
  10. 7. Cospirare per non farsi distrarre
  11. 8. Una mosca nel Transatlantico
  12. 9. Tornare a essere sovrani
  13. 10. I palloncini di Gianroberto
  14. 11. Basta poco per cambiare
  15. 12. Piedini che scottano
  16. 13. Avanti un altro
  17. Indice