Capitolo dodici
Issam sorrideva mentre osservava Ayman. Era scesa la sera. La finestra spalancata faceva entrare vampate di calore. L’unica luce era quella del computer che illuminava il viso di Ayman. Un viso così dolce, quasi liscio. Nessun difetto. Era il viso di un uomo di venticinque anni che non si faceva trascinare dai sentimenti. Issam vi scorgeva una somiglianza con Bin Laden in alcune vecchie fotografie, un miscuglio di determinazione e di mitezza. Anche la voce di Ayman somigliava a quella del Leone dell’Islam, una musica soave eppure decisa.
Senza Ayman, Issam sarebbe precipitato. Non aveva mai accettato quello che aveva fatto alla sorella. Quella sera, non aveva osato rincasare. Aveva camminato per tutta la notte. E poi, come una calamita, era arrivato davanti alla casa di Nourdine. Non era il posto dove avrebbe voluto trovarsi, perché ce l’aveva con l’amico. Ce l’aveva con lui senza capire il perché. Sapeva solo che era stato felice e che ora non lo era più. Certo, la sorella era una miscredente che aveva nel cuore solo la musica e Paul. Ma lui stesso che aveva fatto di diverso? Il pianeta Issam aveva girato attorno ai bastoncini di pastello. Nient’altro aveva contato. Ora che sapeva, Issam capiva fino a che punto Shaytan sapesse burlarsi degli uomini. Allora tentava di odiare Paul, ma non ne era capace. C’era una debolezza in lui, quella di non essere in grado di cancellare i momenti di felicità e di euforia che aveva conosciuto grazie al francese.
Il suo cuore era travolto da una tempesta di sentimenti contrastanti quando aveva bussato alla porta di Nourdine, dopo una notte trascorsa a vagare senza meta. Aveva spiegato tutto all’amico, ma lui, senza alcun tatto, gli aveva assestato il colpo fatale.
«Hai fatto bene. Tua sorella se lo è meritato.»
Chi era Nourdine per dire una cosa simile? Niente paragonato alla grazia di Ahlam. Agli occhi d’Issam, nulla aveva più valore della sorella. E quel vermiciattolo si permetteva di parlare così. Che altro aveva detto? Ah sì! Le donne devono essere picchiate quando non rispettano gli uomini. Gli venne voglia di suonargliele di santa ragione, ma non lo fece. Picchiando la sorella, aveva detestato esattamente quella violenza che si era impadronita di lui. Aveva permesso all’odio di sommergerlo e ciò non era degno di un buon musulmano. Ahlam non rispettava la sunna, sia pure! Ma lui aveva forse tentato di convincerla prima di colpirla? Nient’affatto.
Nourdine, tuttavia, gli aveva fatto il regalo più bello. Già l’indomani, lo aveva condotto da Ayman, a Sfax. E la vita d’Issam aveva ritrovato un senso.
Ayman era l’opposto di Nourdine. Provava a convincere. La dawa18, diceva, era più importante della jihad. Da parte sua, Nourdine parlava solo di jihad. Sognava le katiba, i kalashnikov e le battaglie. Ma Nourdine non era niente. Soltanto Ayman contava. Davanti a lui, Nourdine strisciava. Talvolta lo chiamava «sceicco», cosa che ad Ayman non andava a genio. Quando Issam gli aveva raccontato quello che aveva fatto alla sorella, Ayman, contrariamente a Nourdine, lo aveva disapprovato. La violenza inutile era peggiore dell’inazione. Certo, bisognava combattere «nel sentiero di Allah», ma era fondamentale essere efficienti. Allah non aveva bisogno d’idioti. Gli occorrevano mujahidin riflessivi e giusti. La cosa più importante era il risultato. Chi si sfogava credendo di servire la causa ne era in verità il peggiore nemico. Ayman aveva avuto un buon maestro. Vivendo a Londra, aveva frequentato Rachid Ghannouchi. Aveva imparato che la linea retta non è sempre la strada più breve. L’importante è conquistare i cuori… e reclutare i fratelli di valore. Quando Nourdine gli aveva presentato Issam, Ayman aveva capito di avere davanti a sé una recluta di prima qualità. Il ragazzo era smarrito. Non sapeva più dove andare. Aveva talento, bellezza, intelligenza. Era capace di riflettere sulle proprie azioni. Agli occhi di Ayman, valeva quanto dieci Nourdine. Infatti, Ayman aveva bisogno di luogotenenti. Di persone come Nourdine, ne aveva anche troppe.
Issam gli aveva raccontato tutto: la barca di Farhat, la morte di Nora, Paul, la pittura e la musica che facevano all’unisono, l’affetto per la sorella e la rabbia contro la sua empietà.
«Dimmi, Issam, perché sei arrabbiato con tua sorella?»
«Perché non ascolta la parola di Dio.»
«Ma come potrebbe farlo? È una donna e, come tutte le donne, è debole e impura. Cosa vuoi che faccia in un mondo empio dove la tentazione è dappertutto? Spetta a noi costruire una società Islamica. Nel frattempo, non puoi chiederle di essere pulita in mezzo al fango. Non devi avercela con lei. Tra breve, potrà scegliere tra la via di Allah e quella dei miscredenti, sarà responsabile. E dovrà essere punita se si ostinerà. Per ora, è soltanto una ragazza perduta in una società dove regna l’incredulità. Noi lavoriamo proprio per lei. E per tutte le altre. Diffida dei tuoi scatti d’ira. La collera è una cattiva consigliera. Verrà il giorno in cui sarà benvenuta. Ma adesso abbiamo bisogno di prudenza e di pazienza.»
«Che devo fare? Non posso più tornare a casa.»
«Nourdine mi ha detto che volevi studiare informatica. È proprio quello che ci occorre.»
«Sì, ma non ho soldi.»
«Dio e i fratelli provvederanno.»
Ayman aveva detto la verità. Pochi giorni dopo il loro primo incontro, Issam entrò all’istituto superiore d’informatica e scienze multimediali di Sfax, che dipendeva dall’università. Con più di millecinquecento studenti, ne era il fiore all’occhiello. I ragazzi e le ragazze si vestivano all’occidentale, si stendevano sull’erba, discutevano di qualunque cosa tranne che di politica e si corteggiavano come in qualsiasi campus universitario. Non si vedevano né un kamis né un velo. Ayman mise in guardia Issam. Non accettava nessuna imprudenza nel suo gruppo, neppure la benché minima ostentazione. Nell’era Ben Ali, il minimo errore poteva essere fatale.
«Posso pregare però?» chiese Issam.
«Certo, siamo tutti musulmani. Anche le ragazze che si mettono il rossetto e si fanno toccare dopo le lezioni. Pregherai come gli altri il venerdì. Ma niente di più.»
Ayman decise di condividere con Issam la sua stanza all’università. Nourdine rivendicava quell’onore, ma Ayman seppe come prenderlo. Issam era ignorante in fatto di religione. Nourdine aveva un livello superiore e sarebbe stato molto utile per inquadrare Abdelmalik. Nourdine ne fu lusingato ed ebbe a cuore la sorveglianza di Abdelmalik.
Abdelmalik era giunto nel gruppo alcuni mesi prima d’Issam. Era sempre vissuto a Sfax, ma si era trovato in mezzo a una strada dopo l’arresto del padre, un militante di Ennahda19 un po’ troppo attivo agli occhi del regime. La polizia aveva fatto le cose in grande: il padre era stato arrestato, la casa incendiata, la sorella di Abdelmalik violentata e strangolata. Lui aveva solo diciotto anni. Appena appresa la notizia, aveva rubato un coltellaccio da macellaio con l’intenzione di sgozzare il primo poliziotto nel quale si fosse imbattuto. Per fortuna, Ayman era riuscito a trovare le parole giuste. Gli aveva promesso che, un giorno, avrebbe potuto sgozzare tutti i poliziotti che avesse voluto. Per il momento, non sarebbe servivo a niente. Da allora, Abdelmalik era agli ordini di Ayman. Aveva persino voluto prestare la baya.20 Ayman aveva rifiutato. Non era il suo emiro. Era il suo amico e seppur lusingato, si sentiva a disagio davanti al fervore mistico di Abdelmalik nei suoi riguardi. L’adorazione, a parte quella di Dio, era un grande peccato e Abdelmalik vi provava gusto. Il carattere esaltato del ragazzo trovava riscontro nel suo aspetto. Con i capelli arruffati, la sottile collana di barba, gli occhi tondi e stupiti, l’aria giovanile, somigliava a un gatto di grondaia un po’ matto. La magrezza accentuava la grazia effeminata del fisico. Certi giorni, era assalito da tic nervosi. Il più delle volte si trattava di un tremito deciso della testa e, quando era seduto, della gamba destra in continuo movimento.
Il quinto membro del gruppo era un enigma. Tutto in lui sembrava inafferrabile. Il corpo allampanato aveva la secchezza dei deserti pietrosi. La pelle sciupata del viso ricordava la muta di un serpente. Aveva occhi azzurri che, anziché dare calore al viso, lo rendevano ancora più freddo e inaccessibile. Non parlava mai, non fissava lo sguardo su nessuno.
Issam aveva tentato di attaccare bottone, ma Khaled rimaneva zitto. Inoltre, essendo chiaro che Ayman non s’interessava a lui, presero l’abitudine d’ignorarlo. Un giorno, tuttavia, Khaled finì sul banco degli accusati. Issam non aveva mai visto Ayman fuori di sé. Khaled era andato a trovare la famiglia a Susa per una quindicina di giorni. Al ritorno, portava la barba. Il gruppo era riunito nella camera di Ayman, che gli lanciò uno sguardo torvo. Poi prese un coltello. Issam pensò che avrebbe sgozzato Khaled. Invece Ayman lo immobilizzò sul pavimento e cominciò a raderlo. Lo fece senza schiuma, senza sapone, senza acqua. Dapprima Khaled si dibatteva, ma Ayman lo tratteneva con una tale forza che all’altro non restò che lasciarlo fare.
All’inizio del novembre 2010, Issam aprì il suo cuore.
«Ayman, ti sono molto riconoscente per tutto quello che fai per me, ma ho una domanda.»
«Me lo aspettavo. Forza, falla pure. Altrimenti posso farla io stesso.»
«Che cosa ti aspetti da me? Mi offri alloggio, mi paghi gli studi. E io non servo a niente.»
«Abbi pazienza. Verrà il giorno.»
«No, non posso più attendere.»
«Sai, è normale che io osservi per bene prima di concedere la mia fiducia. I nostri nemici sono ovunque.»
«Lo so, però tu ora mi conosci.»
«E tu mi conosci?»
«Credo di sì.»
«Credi di sì? Fino a che punto?»
«Mi fido.»
«E ti fidi di Khaled?»
«Khaled è un’altra cosa.»
«Sì, è un’altra cosa. Khaled è un po’ strambo. È partito per la jihad e qualcosa in lui si è rotto. L’ho accolto perché me lo ha chiesto un amico. E ne sono pentito. Non avrei dovuto. È troppo imprevedibile.»
«Che possiamo fare?»
«Non chiedermi quello che possiamo fare, ma quello che tu puoi fare.»
«Cioè?»
«Vuoi che io abbia davvero fiducia in te?»
«Sì! Voglio servire la causa.»
«In tal caso, toglimi dai piedi Khaled. È diventato troppo pericoloso per il gruppo.»
Issam non rispose. Era stata una mazzata per lui. Se Ayman gli avesse chiesto di mitragliare un commissariato, lo avrebbe fatto. Ma questo! Uccidere un fratello! Uccidere un fratello che nemmeno conosceva. Era un colpo troppo duro. Era una richiesta eccessiva. Uccidere un musulmano era haram. Issam vagò per il campus dell’università.
Quando tornò, Ayman dormiva profondamente. Era bello. Aveva i lineamenti così delicati e sereni. Era stato così buono con lui. E se avesse avuto ragione? Khaled era una minaccia per il gruppo, e dunque per la causa. Ayman non si sbagliava. Bisognava compiere quel sacrificio. Issam prese il coltello e lo fissò. Era un coltello da caccia con una lama dentellata. Continuò a guardarlo facendolo ruotare nella mano destra. Dio, quanto gli sembrava pesante quel coltello! Era una prova per meritare la fiducia di Ayman. Avrebbe agito l’indomani.
Al mattino, Ayman gli domandò se avesse trascorso una buona notte. Issam gli rispose che aveva riflettuto e che accettava di uccidere Khaled. Con aria distaccata, Ayman gli disse che sarebbe andato immediatamente a cercarlo. Issam era sotto shock. Pensava di avere più tempo. Ayman ritornò con Khaled alcuni minuti dopo. Khaled sembrava sorpreso.
«Ayman ha detto che volevi parlarmi.»
Issam si accorse di non avere con sé il coltello. Stava di fronte a Khaled e non sapeva cosa dirgli. Poi gli venne l’ispirazione.
«Ti prego, siediti. Devo parlarti. Vado a preparare il tè. Lo vuoi? E tu, Ayman, lo vuoi?»
Issam andò in cucina a preparare il tè. Il coltello era nel cassetto dove lo aveva lasciato la sera precedente. Lo prese e lo infilò nei jeans, dietro la schiena. Preparò il tè. Stranamente, le mani non gli tremavano. Era sorpreso di essere così calmo.
Quando tornò nella stanza, Khaled e Ayman erano seduti a gambe incrociate. Aspettavano il tè. Issam evitò lo sguardo di Ayman. Non voleva che l’altro gli leggesse negli occhi la minima esitazione. Si avvicinò a Khaled, gli servì il tè, gli passò dietro le spalle per andare a servire Ayman e, in quel momento preciso, estrasse il coltello.
«Stop!» gridò Ayman. «Adesso mi fido.»
Issam non capiva. La risata di Khaled gli aprì la mente.
«Coraggio, riprenditi dalle tue emozioni. E scusa lo stratagemma, però te l’ho già detto, anzitutto la prudenza. È l’unico modo per resistere e servire la causa.»
Issam esitò. Ayman proruppe in una risata.
«Falla, la tua domanda. Capisci, so quale domanda hai sulla punta della lingua.»
«E se…»
«E se tu non avessi estratto il coltello?»
Khaled tirò fuori una lunga lama luccicante.
«Se tu non avessi estratto il coltello» disse Ayman, «lo avrebbe fatto Khaled. Benvenuto in Al Qaida!»
Issam aveva superato la prova, come Nourdine e Abdelmalik prima di lui. Non domandò se qualcuno avesse fallito, perché allora avrebbe dovuto chiedere anche cosa gli avessero fatto. L’atmosfera era così gioviale e distesa che Issam scacciò i pensieri che avrebbero potuto minare quel momento ideale. Per un breve istante, prima che Ayman lo stringesse al petto, pensò a quello che stava per fare: diventare un assassino, uccidere un musulmano solo perché Ayman glielo aveva chiesto. Ma in sostanza non significava proprio questo far parte di un gruppo e, più oltre, della umma?
Khaled si dimostrò piuttosto simpatico, ora che non interpretava più una parte. Discorreva, raccontava. A ventitré anni, aveva già visto tante cose. Aveva fatto la jihad in Iraq e anche nello Yemen, sotto il naso delle autorità tunisine. Prima di ritornare nel Paese, si era accertato, attraverso un amico poliziotto, di non essere ricercato. E proprio nello Yemen aveva conosciuto Saber. Issam era sorpreso. Nourdine non gli aveva mai detto che il fratello avesse raggiunto Al Qaida nella penisola arabica. Ma anche Nourdine lo aveva saputo solo al ritorno di Khaled. Quando Khaled parlava di Saber, gli occhi gli brillavano come stelle. Avevano la stessa intensità degli occhi di Abdelmalik quando pronunciava il nome di Ayman. Nourdine aveva sentito una dozzina di volte le storie raccontate da Khaled. Quella sera, tuttavia, quando cominciò a parlare di Saber, Nourdine se ne stava a bocca aperta come la prima volta. Khaled parlava per Issam, ma lo divertiva l’ammirazione che Nourdine nutriva per il fratello.
«Nourdine, non ti scoccia se racconto di nuovo la storia dell’uadi prosciugato? La conosci a memoria.»
«No, è sempre una felicità ascoltarla. È come un versetto del Corano. Non ci si può stancare.»
«Piano, Nourdine» lo redarguì Ayman ridendo, «sei al limite della bestemmia. Ammiriamo tutti Saber, però le sue prodezze non possono essere paragonate a quelle del profeta.»
I cinque uomini erano seduti a gambe incrociate, ognuno con la sua tazza di tè. Khaled si alzò per spegnere una luce. Rimaneva solo un lume, il cui alone pallido consentiva a malapena di non rovesciare le tazze. Khaled tornò a sedersi. Quando il silenzio fu profondo, iniziò.
«È stato lo s...