Carmine Pascià che nacque buttero e morì beduino
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Carmine Pascià che nacque buttero e morì beduino

  1. 133 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Carmine Pascià che nacque buttero e morì beduino

Informazioni su questo libro

"Mentre aspettava la scarica, il soldato Iorio, cristiano e musulmano, disertore ed eroe, pensò che era la seconda volta che veniva messo a morte." "Un dromedario! Che ci faceva, lui, pancia in giù sulla groppa di un dromedario? Si mise a scalciare e si ritrovò per terra. indolenzito. Circondato da decine di tuniche bianche e caffelatte." Gian Antonio Stella racconta l'incredibile e avventurosa storia del soldato Carmine Iorio, un analfabeta della piana del Sele che, arruolato nel 1912 dal governo Giolitti e mandato a far la guerra nella Libia "Bel suol d'amore", a causa di una sbronza e un mal di testa colossale si ritrovò per sbaglio a essere disertore. e a dover scegliere: o la fucilazione dei commilitoni o la forca eretta dai beduini nella piazza di Agedabia. Un dilemma risolto con la conversione all'islam che passo dopo passo lo avrebbe portato, col nome di Yusuf el-Muslim, ad abbracciare la causa della resistenza anti-italiana di Omar el-Mukhtar. Finché, davanti al plotone d'esecuzione…

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2010
Print ISBN
9788817027335
eBook ISBN
9788858601839

Cap. IV
Dove si parla dell’Africa romana,
del sergente Rosina e di una sbronza sventurata

«La Libia! La Libia!» urlò una voce. E furono tutti fuori, sul ponte, a puntare gli occhi sulla striscia gialla di terra che si vedeva a sud. Un gruppo di delfini cominciò a schizzare fuori dall’acqua, mostrando i dorsi dai riflessi lucenti, come se volessero giocare. Ma tutti i fanti a bordo avevano occhi solo per quella striscia di terra. I due canterini di Torre del Greco attaccarono la canzone resa famosa da Gea della Garisenda: «Sai dove s’annida più florido il suol? / Sai dove sorrida più magico il sol? / Sul mar che ci lega coll’Africa d’or, / La stella d’Italia ci addita un tesor. / Tripoli, bel suol d’amore…».
Il sottotenente Ellaro, un friulano tutto d’un pezzo che veniva da una famiglia di militari della Carnia, si tolse di bocca la monumentale pipa che aveva accesa tra i denti e protestò: «Bengasi! Non Tripoli: Bengasi!». Afferrò il binocolo che aveva a tracolla, sfilò i coperchietti che proteggevano le lenti, piantò i gomiti sul parapetto, diede un’occhiata e passò il cannocchiale a un sottufficiale che aveva accanto: «Si vede già il faro. E i minareti. Una selva di minareti».
Mentre si avvicinavano al porto, il tenente colonnello fece suonare l’adunata. Compattati tutti sul ponte, sotto un sole canicolare che faceva ruscellare il sudore sulle tempie dei fanti affogati nella divisa di panno pesante, prese un megafono e ci buttò dentro tutto il fiato che aveva: «Soldati del 79° reggimento fanteria Roma! Stiamo per sbarcare sul suolo della Cirenaica. Il suono di questo nome, Cirenaica, dolce e familiare ai nostri orecchi come il nome di una sposa, di una sorella, di una madre, è lì a testimoniare la sua storia. Una storia che fu romana. Una storia che fu italiana. Come tornammo a Venezia, sul Piave e nella Carnia, preparandoci a tornare a Trento, a Gradisca, a Trieste, oggi solcando il Mare Nostrum torniamo in Libia!». Scostò il megafono, diede un colpo di tosse, restò senza fiato e passò l’altoparlante a un sottoposto: «Continui lei…».
L’ufficiale si schiarì la voce, impugnò un foglio e lesse: «Proclama di Sua Eccellenza il generale Caneva alle truppe che (prime!) sbarcarono in Libia or sono quasi due anni: “Alla redenzione civile delle nuove genti provvedono l’umanità, la moderazione e la giustizia, che sono retaggi antichi e mai offuscati di nostra stirpe. Il rispetto assoluto dei sentimenti e delle pratiche dell’altrui religione, il rispetto deferente della donna e della famiglia, il rispetto tutelare della proprietà, l’amore e il culto della giustizia, siano guida costante a ciascuno nelle relazioni pubbliche e private con la popolazione indigena, e noi vedremo fiorire d’intorno il rispetto e la devozione”».
«Ma dove è necessario, si abbatta spietato l’italico pugno di acciaio!» tuonò il tenente colonnello riprendendosi il megafono. «Non dimenticate mai Sciara Sciat! Mai! Non dimenticate mai quel che raccontarono gli italiani che per primi arrivarono sul luogo dell’orrida carneficina! Mai!»
Non c’era bisogno di aggiungere altro. Per giorni e giorni, dopo l’eccidio di alcune centinaia di bersaglieri sorpresi e massacrati dai turchi e dai libici nell’oasi tripolina nell’ottobre 1911, i giornali italiani avevano pubblicato resoconti terribili. Enzo d’Armesano aveva scritto di aver trovato poveretti «crocefissi, impalati, squartati, decapitati, accecati, evirati, sconciamente tatuati e con le membra squarciate, tagliuzzate, strappate!». Uno dei pochi sopravvissuti, il bersagliere Felice Piccioli, aveva raccontato: «I nostri morti di Sciara Sciat giacciono insepolti ovunque. Molti sono inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti gli hanno cucito gli occhi con lo spago, molti sono stati messi sotto terra fino al collo, si vede solo la testa; moltissimi hanno avuto le parti genitali tagliate».
«Fatevi onore!» tuonò il tenente colonnello. E dopo aver augurato a tutti «buona fortuna e prospero avvenire», ricordò che «il campo di battaglia è il campo della gloria, poiché la guerra è il sogno caro a ogni soldato», e che tutti gli ufficiali rimasti a casa «invidiavano i partenti».
«Quanto crede che resteremo qui in Libia?» chiese sottovoce il sergente Valcasali, restituendo il binocolo al sottotenente Ellaro.
«Va’ a saperlo. Pochi mesi, forse. Un anno… Chissà…»
*****
Tre anni dopo, il fante Carmine Iorio era ancora lì. A chiedersi quanto tempo ancora sarebbe passato prima che il regio esercito italiano, che non gli aveva mai dato una licenza («Mai, signor tenente!») per tornare da sua madre e da Lorenzina, lo liberasse finalmente dal giogo che lo teneva schiavo «come il bove è schiavo dell’aratro». A domandarsi che senso c’era a stare lì, dopo avere amaramente scoperto che la Libia era sabbia, sabbia, sabbia. E non era affatto «la terra promessa» con «mezzo milione di chilometri quadrati coltivabili» e «grano che matura tre o quattro volte l’anno».
Se lo ricordava bene, il giorno in cui a Verona il sergente Gagliasso, un acceso nazionalista cuneese, aveva tirato fuori di tasca un giornale ritagliato: «Sentite cosa scrive il grande Giuseppe Bevione. Sentite cosa scrive, della Libia: “Ho veduto gelsi grandi come faggi, ulivi più colossali che le querce. L’erba medica può essere tagliata dodici volte all’anno. Gli alberi da frutta prendono uno sviluppo spettacoloso. Il grano e la meliga danno, negli anni medi, tre o quattro volte il raccolto dei migliori terreni d’Europa coltivati razionalmente. L’orzo è il migliore che si conosca ed è accaparrato dall’Inghilterra per la sua birra. Il bestiame prospera, e anche nello spaventoso abbandono odierno, è esportato a centinaia di migliaia di capi per Malta e l’Egitto. La vigna dà grappoli di due o tre chili l’uno. I poponi crescono a grandezze incredibili, a venti e trenta chili per frutto. I datteri sono i più dolci e opimi che l’Africa produca!”. Oh, dico, lo scrive Bevione! Mica uno qualsiasi! Bevione! Della “Stampa” di Torino! Che penna! Che penna!».
Tutto facile pareva, allora. La «Domenica del Corriere», in una corrispondenza da Tripoli che per sfortunata coincidenza era uscita poche ore prima del massacro di Sciara Sciat, aveva esaltato l’occupazione italiana scrivendo che il governo in gran segreto «aveva pensato a tutto, dai francobolli con la scritta “Tripoli di Barberia” al manualetto pratico pei soldati, dai viveri per gli indigeni affamati ai ritratti dei sovrani da collocare subito nel palazzo dell’ex governatore turco». Più ancora, aveva assicurato che «lo sbarco fu accolto dagli arabi col più vivo compiacimento».
Carmine stava scozzonando un giovane puledro del barone nella sua tenuta di Persano, quel pomeriggio d’ottobre del 1911. Era una giornata spettacolare. E l’anziano soprastante appoggiato alla staccionata, che con un occhio guardava lui intento a addomesticare il cavallo e con l’altro leggeva il settimanale, si era patriotticamente infervorato: «Perbacco! Senti qua: “È credenza in tutti che la guerra propriamente detta possa dirsi finita”. Perbacco! Già finita! La Tripolitania è nostra!».
Pareva fosse passato un secolo, a Iorio, da quel giorno. Non solo cinque anni, scarsi. Era sotto naja quasi da quattro. Avrebbe dovuto essere congedato l’8 settembre 1914. L’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando e lo scoppio a fine luglio della Grande Guerra, con le prime avvisaglie che un giorno o l’altro ci sarebbe entrata anche l’Italia, avevano fatto saltare tutto.
Per qualche mese l’avevano trattenuto così, senza tante spiegazioni. Invocando una norma secondo la quale al milite analfabeta che non avesse imparato a leggere e scrivere almeno poche cose elementari poteva essere rinviato il congedo in attesa che passasse l’esamino finale. Poi era arrivata la circolare 642. Che ai sensi dell’articolo 1 del regio decreto del 18 dicembre 1914, aveva tagliato corto: dal primo gennaio del 1915 tutti quelli della leva 1892 venivano raffermati in servizio.
La notte del 12 luglio 1916, messo di sentinella su una torretta ai limiti dell’accampamento di Tocra, il fante Iorio si sentiva lo stomaco bloccato. Forse aveva bevuto troppo, pensò. Come sempre. Erano nove mesi che il primo battaglione si era attendato lì a Tocra. Erano partiti da Bengasi con muli, carretti, cavalli e cammelli, al comando del tenente colonnello Ongarato, verso la fine di ottobre, dopo un diluvio che aveva ridotto la Cirenaica intera a una pozzanghera. E la marcia, durata tre giorni, era stata faticosissima. Dopo il temporale, aveva fatto irruzione infatti un sole furibondo, insolito perfino per l’assolato autunno libico. E i fanti, sotto il pesante fardello degli zaini, avrebbero dato qualsiasi cosa per potersi togliere almeno qualcosa, della divisa.
Niente da fare. «Il regolamento non si discute: si rispetta!» strillava isterico il sergente Rosina. Lo odiavano, Rosina. Bastava girasse l’angolo e una voce alle sue spalle attaccava l’aria rossiniana del Barbiere di Siviglia: «Di Lindoro il vago oggetto / siete voi, bella Rosina». E subito partiva un coro: «Sieeete voi, beeella Rosina!». E lui, per vendicarsi di una statura da nano, di un colorito roseo da bambola di porcellana e di quel cognome effeminato quanto le ciglia che aveva lunghe e pettinate, era disposto a tutto per farsi odiare. Che gli importava, del caldo? Mica lo sentiva, lui, il caldo. L’odio, quello sentiva: l’odio.
E dunque, niente eccezioni al regolamento: canottiera di lana con le maniche lunghe, camicia di tela giallognola, panciotto di lana, sciarpa da collo arrotolata per non sfregare il colletto rigido, giubba di panno grigioverde rigorosamente abbottonata, zaino modello 1907/09 stracarico, bandoliera di cuoio a tracolla con le pallottole del moschetto e una fondina per la pistola, moschetto, borraccia da due litri. Unica concessione alle soffocanti canicole africane, il casco coloniale costruito incollando sottili strati di sughero coperti da una tela color cachi. Era stata un incubo, quella marcia. Sabbia negli scarponi, sabbia nelle orecchie, sabbia tra i denti…
«Tocra! L’antica Teuchira!» aveva declamato entusiasta il tenente Pertosse alla vista del borgo sulla costa tra Bengasi e Tolmetta, un povero cespuglio di casupole bianche dominate da un castello turco e da grandi mura antiche diroccate. Un attimo prima di essere richiamato alle armi aveva vinto una cattedra di storia in una scuola di Grosseto e ci teneva a mostrarsi preparato: «Nelle antiche e colossali mura che vi si parano davanti, ivi è la prova delle tradizioni imperiali e romane del sito. Diocleziano! Come non riconoscere in queste mura possenti l’impronta di Gaio Aurelio Valerio Diocleziano e poi ancora del grande Giustiniano? Come non sentirci di nuovo sul suolo patrio, in questa Africa romana?».
Fu interminabile, per Carmine, quella notte sulla torretta. Bastonato da un sonno e da una gastroenterite che l’ufficiale medico si rifiutava di riconoscere nonostante il vomito e la diarrea, maledisse l’esercito che lo teneva inchiodato lì da anni. Maledisse le pulci che la notte prima, a dispetto della reciproca toeletta col fante Ciriò, non gli avevano fatto chiudere occhio un istante. Maledisse i ratti che assediavano le dispense e divoravano tutto quello che trovavano ed entravano anche nelle «tende Bucciantini» per rovistare negli zaini e fin dentro i pagliericci umidi coperti da un telo sui quali i soldati dormivano. Maledisse la pasta scotta condita con la pummarola e la sabbia, la carne in scatola con la data di scadenza scalpellata via e il maresciallo del vettovagliamento, che tutti scommettevano facesse il furbo sulle provviste.
Ogni tanto, il leggero tonfo d’un dattero che cadeva da una palma lo faceva sobbalzare. Imprecò al soprastante del barone, alla «Domenica del Corriere» e alla tesi che la guerra propriamente detta poteva dirsi finita. Ce n’erano addirittura due, adesso, di guerre. Certi compagni, rientrati in Italia per una licenza o per malattia, erano stati dirottati sull’Isonzo. E la conquista della Libia, che pareva facile facile, si era rivelata un azzardo. I porti principali della costa, certo, erano in mani italiane....

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Carmine Pascià
  3. Frontespizio
  4. Citazione
  5. Cap. I - Dove si narra d’una fucilazione, di galline sante e triccabballacche
  6. Cap. II - Dove Carmine Immacolato cresce mangiando fasuli e odiando i baroni
  7. Cap. III - Dove Carmine piglia moglie e alla leva estrae sfortunato il 213
  8. Cap. IV - Dove si parla dell’Africa romana, del sergente Rosina e di una sbronza sventurata
  9. Cap. V - Dove Carmine si sveglia su un dromedario prigioniero dei beduini e del Gran Senusso
  10. Cap. VI - Dove Carmine salva la vita sua togliendo due pensieri a Sayed er-Redà
  11. Cap. VII - Dove Husam parla del confino alle Tremiti e Carmine racconta i suoi dieci anni beduini
  12. Cap. VIII - Dove Carmine ricorda la sera che al pozzo restò incantato dagli occhi neri di Teber
  13. Cap. IX - Dove Carmine per amore di Teber cade nella trappola degli italiani
  14. Cap. X - Dove Carmine affronta i fucilieri con un gesto che riscatta tutta la sua vita
  15. Appendice
  16. Indici