Piccolo mondo moderno
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Piccolo mondo moderno

  1. 316 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Piccolo mondo moderno

Informazioni su questo libro

Nella seconda metà dell'O ocento, mentre i patrioti del Lombardo-Veneto comba ono contro il dominio austriaco, prende corpo l'amore tra Franco, giovane di famiglia nobile ma di idee liberali, e la popolana Luisa. Dopo molte avversità, il loro amore sfocerà in un matrimonio segreto. Il capolavoro di Fogazzaro, ambientato sullo sfondo dell'Italia risorgimentale, con gli aspri contrasti fra liberali e "austriacanti", rappresenta il tentativo di realizzare una le eratura dalla forte vocazione popolare. Lo stile piano e la profondità psicologica ne fanno un esempio canonico di grande narrazione ottocentesca, mentre aspe i innovativi, come l'uso sapiente di lingua e diale o, costituiscono altrettanti momenti di ro ura con la tradizione del romanzo italiano.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817046336
eBook ISBN
9788858615645

CAPITOLO SECONDO

NEL MONASTERO

I

Un servo tagliato all’antica introdusse nella sala del biliardo il signore che aveva chiesto di don Giuseppe. «Il suo nome, di grazia?» diss’egli.
«Maironi.»
Quegli andò in cerca del padrone.
L’uscio a vetri, che dalla sala del biliardo mette per cinque scalini al giardino della villa Flores, era aperto. Un languido sole d’aprile moriva sulla coperta grigia del biliardo e sul chiaro impiantito di abete. Entrava con l’aria tepida un odor lieve della pioggerellina fine fine che si vedeva tremolar nel sole, annebbiar le campagne da lontano, sotto il cielo turchino. Il prato pendente in giro alla fronte dell’edificio alto e scoperto, i grandi alberi, che fanno ala quasi a un atteso corteo di principi, suggevano la pioggerellina dolce senza un bisbiglio. Così taceva la casa vuota. Lì nella sala le sedie addossate alle pareti, i pochi altri arredi simmetricamente disposti, il biliardo coperto, parevan tristi come cose morte che serbassero il ricordo della vita.
Il domestico non ritornava. Piero uscì sulla scalinata a guardar la pioggerellina muta, e un sentor debole di viole gli rese la visione voluttuosa del primo incontro con la persona che ora gli riempiva il cuore. La vide schiuder lentamente il mantello di pelliccia, mostrar il busto squisito, odorante di viola, il mazzolino degli scuri fiori alla cintura. Sentì lo sguardo intelligente, che gli aveva fatto allora dolere il petto, entrargli ancora e diffonderglisi con tanta dolcezza nella persona. «Non lo trovo, signore» disse il vecchio domestico alle sue spalle. «In camera non c’è, nella chiesetta neppure. Sarà sul monte, forse.» Soggiunse che sarebbe andato a rintracciarlo. Maironi non lo permise, prese egli stesso la via dell’umile poggio che sale dietro il cortile della villa, blando verso mezzogiorno e rigato per traverso di viti a filari, cui fende una sottile processione ascendente di cipressi; erto, boscoso verso occidente, allacciato da grandi maglie bizzarre di sentieri che ne legano il rotto cadere. Per uno di quei sentieri Piero scorse calar il vecchio prete che cercava, don Giuseppe Flores, l’ultimo della sua famiglia, il solo signore della villa deserta, del poggio, dei bassi prati dove nel gran silenzio del mezzogiorno gurgugliavan tacchini, schiamazzavano anitre e oche, delle folte macchie di alberi esotici e nostrali che lì salivano i valloncelli e i dorsi del poggio fino al ciglio degli alti vigneti.
Don Giuseppe scendeva passo passo, leggendo, non curando le rade, fini goccioline di pioggia. Quando alzò gli occhi dal libro, Maironi salutò accelerando il passo. Sulle prime il vecchio prete non lo riconobbe; poi mise un «oh!» lieto, scese con vivacità giovanile, a braccia aperte, il cappello in una mano e il libro nell’altra, tutto lucente in viso di sorpresa e di piacere. Era un nobile viso dove le linee maschie delle ossa inferiori e il grande arco del naso compievano degnamente, per così dire, l’alta parola della fronte ampia, solenne; e gli occhi scuri, vivi, dolci austeramente, pronti a colorarsi di ogni baleno, di ogni fiamma, di ogni ombra dello spirito, dicevano la calda purezza interna, la soavità recondita di quella parola così maestosa.
Ora scintillavano veramente, perché don Giuseppe aveva conosciuto in Valsolda, prima del 1859, standovi ospite di certi suoi parenti, Franco e Luisa Maironi, i genitori di Piero; e godeva sempre di veder Piero che gli ricordava quelle elette creature, quel poetico lago romito e i giorni suoi più sereni. S’incontravano di rado. Prossimo ai settanta, solo, lontano dalla città nove mesi l’anno, don Giuseppe, che aveva un tempo frequentato casa Scremin ed era stato confessore della marchesa Nene, non ci andava quasi più. S’incontrava qualche volta con Piero l’inverno al gabinetto di lettura o fuori porta, sulle vie solitarie della collina.
«Caro signor sindaco, caro signor sindaco!» esclamò tutto ridente, posando le mani affettuose alle braccia del giovane che gli stava davanti pur sorridente ma in atto di riverenza. «Che miracolo! Come mai?»
«Lei è sempre stato così buono con me, mi ha detto tante volte di venire, e oggi me ne sono rammentato, ho avuto una ragione di rammentarmene.»
«Bene bene bene» fece don Giuseppe e gli venne in mente che al Municipio volessero qualche cosa da lui, forse imporgli la soma di un ufficio pubblico. Si avviò con l’ospite verso la villa senza parlare, pensando a levarsi d’impaccio e preparando difese, vecchio e infiacchito come si sentiva. Anche Maironi camminava preoccupato e taciturno. Don Giuseppe fu il primo a sentir la molestia di quel silenzio, chiese notizia degli Scremin. Poi si fermò e guardò Piero sorridendo con certa innocente malizia.
«È vero» diss’egli, «quello che mi hanno detto del marchese?»
«Cosa?»
«Che presto sarà fatto senatore?»
Piero si strinse nelle spalle.
«Può darsi» rispose. «Non lo so. Non ne stupirei. Ma dica: io Le reco incomodo? Ella sarebbe rimasto fuori, ora?»
Don Giuseppe protestò e si confermò nell’idea che il sindaco fosse venuto per uno scopo determinato. Presso il cancello del cortile convenne ai due di arrestarsi per una torma di buoi che andavano all’abbeveratoio.
«Sudditi suoi?» fece Maironi. «Cento volte migliori di certi sudditi miei, gliel’assicuro.»
L’accento fu così amaro che don Giuseppe, stupito, esclamò:
«Dispiaceri? Ha dispiaceri al Municipio?»
«No, no, no» s’affrettò a rispondere Maironi. «Questo non importa affatto. Dicevo per dire.»
V’era dunque un’altra cosa che importava. Don Giuseppe introdusse l’ospite nella sala del biliardo e lo invitò a sedere.
«Scusi» disse Maironi, restando in piedi. «Se mi permette, Le vorrei parlare.» E poiché don Giuseppe, con un cenno di assenso, insisteva per farlo sedere lì, lo guardò un poco senza rispondere. Il vecchio prete capì. «Come vuole, come vuole» diss’egli, e accostatagli una mano al braccio, lo avviò verso l’uscio che metteva in un suo freddo e umido studiolo.
«Scusi, sa» fece Maironi sottovoce.
No, non potevano essere affari del Municipio, quella non era la solita voce di Piero Maironi.
«Qui non entra nessuno?» diss’egli.
Don Giuseppe chiuse l’uscio a chiave e rispose:
«Ecco.»
Dubitava, per certe voci, che gli Scremin fossero un po’ squilibrati nelle finanze.
Una confidenza circa questo punto? O circa la infelice reclusa? Mentre fantasticava così, Piero Maironi, seduto accanto a lui sul vecchio logoro canapè rosso, stava silenzioso a capo chino. «Don Giuseppe» cominciò finalmente, e stese una mano al prete senza guardarlo, senza volgere il viso, «io sono venuto da Lei come un figlio.»
Don Giuseppe gli prese la mano, gliela strinse commosso, con un tacito moto delle labbra, con un lampo affettuoso del viso.
«Io ho per Lei la riverenza che hanno tutti; sì, sì, me lo lasci dire! Ma poi ci ho anche un’affezione particolare e Lei ne sa il perché. Ho un bisogno immenso di Lei, adesso.»
Il viso del candido, umile prete si colorò di meraviglia.
«Bisogno di me?»
«Sì. Bisogno di Lei. Son venuto da Lei come da un padre, ma da un padre ch’è sacerdote.»
Don Giuseppe gli riprese la mano, gliela strinse ancora, senza parole.
«Non si meravigli di nulla, sa! Pensi ch’io sia il penitente e Lei il confessore. Prima di tutto Le domando questo: secondo le leggi della Chiesa, è mai possibile, in nessun caso, che un uomo coniugato, il quale ha la moglie viva ma demente da più anni, proprio affatto e senza speranza, ottenga il permesso di entrare in una corporazione religiosa?»
«Eh, no.»
Maironi tacque.
«Può ritirarsi dal mondo» s’affrettò a dire don Giuseppe, «può vivere con Dio nella solitudine, comporsi lui una regola, santificarsi.»
La fronte solenne, gli occhi gravi, la voce dolce e bassa spiravano ossequio al gran dolore, alla gran fede che apparivano congiunti nel desiderio del giovane.
Maironi rispose sottovoce: «Questo non è possibile».
Nel silenzio che seguì lampeggiò in mente a don Giuseppe una parola dimenticata di donna Luisa Maironi Rigey, la madre di Piero. Salivano insieme, i Maironi, i Pasotti e lui a piedi, il signor Giacomo Puttini sull’asino del mugnaio, al Boglia per la via di Castello. Presso Muzzaglio don Franco Maironi era uscito a dire: «Bel posto, eh, per un monastero!». E donna Luisa aveva mormorato: «Troppo bello per gente inutile». N’era venuta poi una gran discussione. Adesso dopo tanti anni, cose umane! il figlio di Luisa, non ancor nato in quel tempo, sentiva il fascino del monastero.
«Ella non comprenderà» riprese Maironi, «perché non mi sia possibile ritirarmi dal mondo senza un abito religioso, senza un voto. Questo dipende dallo stato dell’anima mia. Vede, io son venuto veramente per parlarle dell’anima mia. Immaginavo che circa l’altra cosa Ella mi avrebbe risposto come mi ha risposto. E parlarle dell’anima mia mi è tanto difficile! Non riesco a comprendere bene me stesso. Se penso una cosa di me mi vien subito in mente qualche ragione di pensarne l’opposta. Bisogna che Lei mi aiuti, don Giuseppe. Soffro, sa; e Lei ha voluto bene, non è vero, al povero papà e alla povera mamma?...»
Dicendo queste parole sorrise un poco di un sorriso tanto triste che passò il cuore a don Giuseppe. «Sì, sì» diss’egli, «tanto!» E tacque, esitando ancora a cercar consiglio e conforto per una ultima resistenza dell’umiltà sua nativa.
«Mi dica» incominciò finalmente sottovoce con un albore in volto di letizia santa: «questa idea della professione religiosa, intendo che Le è venuta dal dolore, ma quando? Come ha principiato in Lei?»
«Oh, don Giuseppe, non mi è mica venuta dal dolore.»
«No?»
Il viso di Maironi, giunto dalla tempesta interna, si scompose. La voce obbediva ancora al freno, ma tremava.
«No, don Giuseppe, sono un vile, non sento più nessun dolore per lo stato di mia moglie.»
Don Giuseppe lo guardò, sgomentato più ancora dal disordine di quel volto che dalle parole. L’altro ripeté, a stento, con soffocata voce:
«Nessuno.»
Don Giuseppe aperse le braccia.
«E allora?» diss’egli quasi severamente. Maironi scattò in piedi, andò alla finestra, vi stette un minuto voltando al prete le spalle che sussultavano. Quando ritornò al canapè il viso era ricomposto e la voce ferma.
«Bisogna che Le spieghi tutto» diss’egli. «Avrà pazienza, don Giuseppe?» Alla protesta muta del vecchio, continuò:
«Ella sa come sono entrato in casa Scremin. Sa che restai senza padre appena nato, si può dire; perché mio padre morì a Oria delle conseguenze della sua ferita nel 1860 e io nacqui nel ‘59. Sa che mia madre morì, pure a Oria, due anni dopo, che mia bisnonna Maironi non volle tenermi in casa e mi affidò ai suoi parenti Scremin. Il marchese è figlio di un fratello della bisnonna. Morì presto anche lei, lasciò erede me e nominò mio tutore il marchese. Credo che sin da quel giorno gli Scremin abbiano pensato a me per la povera Elisa. Sono diventato uomo in casa loro, studiando con don Paolo, com’Ella sa, senza libertà di scegliermi degli amici, frequentando sempre la stessa gente, impregnata delle stesse idee. Io voglio ancora bene a quell’eccellente don Paolo, ma da ragazzo, poi, l’ho adorato. Quanto ho pensato allora di farmi religioso anch’io! Il solo odore d’incenso che don Paolo serbava nella tonaca quando veniva a pigliarmi, dopo le funzioni, per il passeggio, mi metteva una riverenza! E pensavo allo stato religioso come ad uno stato quasi divino. Durante le funzioni, al suono dell’organo, la mia delizia era di sognare la Tebaide o il Libano o anche spesso un monastero fantastico perduto in mezzo al mare del Nord. In pari tempo...»
Qui Piero s’interruppe.
«Mi ascolti come nel sacramento» diss’egli sottovoce. E ripigliò:
«Dunque, io che sognavo monasteri e vita religiosa, è incredibile come dai primi anni della fanciullezza, prima di possedere il senso morale, fossi soggetto ad accessi strani di sensualità; di una sensualità che la mia ignoranza, fortunatamente durata moltissimo, rendeva cieca e particolarmente tormentosa. Quando il mio senso morale si risvegliò, siccome poi religiosissimo ero già da p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. Cronologia
  5. Capitolo primo
  6. Capitolo secondo
  7. Capitolo terzo
  8. Capitolo quarto
  9. Capitolo cinque
  10. Capitolo sei
  11. Capitolo sette
  12. Capitolo otto
  13. Sommario