Se uno nasce quadrato non muore tondo
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Se uno nasce quadrato non muore tondo

  1. 148 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Se uno nasce quadrato non muore tondo

Informazioni su questo libro

Gli scozzesi lo chiamavano Raino, i salernitani pitbull, i giornalisti Braveheart, Carlo Ancelotti "un'impepata di cozze". Ma il soprannome che meglio descrive il suo carattere è Ringhio.Provateci voi a fare gol sulla spiaggia di Schiavonea, ad andare in giro per l'Umbria su una Vespa scassata, a vivere da terrone a Glasgow guardando tutte le notti solo Marzullo in tv, a sopportare gli scherzi idioti di Gascoigne, che vi fa la cacca dentro i calzettoni, e dopo gli allenamenti si lava i denti con il vostro spazzolino. Provateci voi a togliervi la cravatta senza mai sciogliere il nodo, perché non siete capaci di rifarlo, e non serve a niente chiamare il papà quando siete a tremila chilometri da casa perché non può sentirvi.In questo libro, Gennaro Ivan Gattuso, centrocampista campione del mondo, racconta come è diventato Ringhio, scalando tutte le tappe della gavetta, dagli esordi nel Perugia al successo nei Glasgow Rangers, al trionfo nella squadra del cuore, il Milan, fi no ai magici giorni della vittoria della Nazionale a Berlino nell'estate del 2006.Con la stessa grinta che mette in ogni partita, Rino ricorda tutti i momenti più importanti della sua vita di bambino, di calciatore, di uomo. Ma soprattutto ci consegna una summa del Gattuso-pensiero: pillole di buon senso e un po' di trovate che gli hanno consentito di diventare un campione di saggezza, in campo e fuori. Scoprirete così che in Calabria quando un calciatore cade tutti urlano "Si scorciau" e se uno fa cilecca proprio davanti al portiere "Su mangiau un gol", e guai se capita una "malaoccasione", perché "nella vita nessuno ti regala nulla. Bisogna farsi un mazzo tanto". E se si è nati quadrati… inutile sperare di diventare tondi.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
Print ISBN
9788817015844
eBook ISBN
9788858607824

Ringhio doc

11

Il Ringhio pensiero

Una vita da mediano

Nel calcio, come nella vita, uno dei requisiti fondamentali è essere genuini. È una cosa che non si può imparare, te la porti dentro dalla nascita. E io che sono nato quadrato e settimino, di certo non morirò tondo: perché recitare, fingere di essere quello che non sono, non fa parte del mio sangue, io sono quello che la gente vede, senza filtri né maschere. Perché lo so bene che nella vita, come nel calcio, i palloni gonfiati fanno poca strada. Bisogna accettarsi per quello che si è, sfruttare al massimo le doti che ci ha regalato Madre Natura e cercare di migliorarsi giorno dopo giorno, col lavoro, con il sacrificio. Solo così si possono raggiungere traguardi, anche se la vita spesso ci mette davanti ostacoli che sembrano insormontabili. Ma non bisogna mollare, mai. È un insegnamento che vorrei trasmettere soprattutto ai ragazzi giovani che iniziano a giocare a calcio. Per prima cosa, mi preme sottolineare che lo sport deve essere innanzitutto un divertimento, in particolar modo quando si è bambini. Mi riferisco soprattutto ai genitori che credono di avere un nuovo Pelé in casa: lasciamoli giocare ’sti ragazzi, non stressiamoli, facciamo che almeno durante l’infanzia il calcio sia ancora il posto delle favole. Non azzoppiamo mai i loro sogni, non esaltiamoli e non demoliamoli, ma cerchiamo soprattutto di educarli, di far capire loro che — se il calcio è il loro scopo — ce la possono fare, ma solo con la forza di volontà. Prendete me: non ho i piedi di Maradona, fino a tredici anni ho giocato solo sulla spiaggia, non so tirare le punizioni e non so come si fa un assist, eppure gioco nel Milan e ho vinto un Mondiale. Ciò significa che i sogni, anche quelli più bizzarri, si possono realizzare, ma ci vuole pazienza e tanto, tanto sacrificio. Nel calcio, come nella vita, nessuno regala mai nulla, bisogna sempre conquistarsi tutto col sudore, facendosi un gran mazzo. E soprattutto non bisogna mai fingere di essere ciò che non si è, perché si rischia di bruciarsi, e anche in fretta. Ognuno deve essere conscio dei propri mezzi, e farsi valere per quello che sa fare, senza mai credersi superiore e senza mai dare nulla per scontato, perché le brutte figure sono sempre dietro l’angolo. Pure a me è capitato: le poche volte che ho peccato di vanagloria l’ho pagata cara, anzi carissima.
Ricordo soprattutto un episodio emblematico in tal senso, quando giocavo nei Rangers. C’era in programma una partita con l’Aberdeen, e il mio avversario di turno era un «vecchietto» di trentasette anni, giocatore di grande esperienza ma ormai al capolinea. Da giovinastro incosciente e un po’ spaccone qual ero, pensavo che per me sarebbe stato un pomeriggio di assoluta tranquillità: «Il vecchietto me lo mangio» pensai, e così scesi in campo senza la giusta concentrazione. La mia spocchia mi costò un dazio salatissimo: passai un pomeriggio d’inferno, perché il mio avversario trentasettenne in pratica non mi fece vedere il pallone. La prima regola del calcio è non credersi mai superiori a nessuno, e soprattutto non credersi mai più forti di quello che si è in realtà. Per formare una squadra di calcio vincente è necessario che ognuno rispetti la sua parte: io non potrò mai fare Kakà, né Kakà potrà mai fare Gattuso. Bisogna capire qual è il proprio ruolo all’interno del gruppo: il mio è quello di rubare i palloni, di sbattermi per gli altri, di inseguire gli avversari e di mettere i miei compagni nella condizione migliore per costruire l’azione. Ma ciò non significa che io sia una semplice comparsa, perché Rivera senza Lodetti, Maradona senza Bagni o Platini senza Bonini, probabilmente non avrebbero reso così tanto. Ci chiamano gregari, ma siamo fondamentali nell’economia di una squadra, perché diamo l’anima fino all’ultimo, sputiamo fuoco e fiamme, dobbiamo sempre lavorare sui polmoni, come cantava Ligabue (grande cantante anche se interista) in Una vita da mediano. E poi io mi gaso di più quando posso rubare un pallone piuttosto che per una giocata leziosa ma fine a se stessa. Tanti mi dicono che in campo sono generoso: è vero, ma so che quello è il mio compito. Altrimenti che giocherei a fare? Ho sempre corso volentieri per tutti i fenomeni con cui ho giocato, perché so che chi mi sta davanti possiede mezzi tecnici di gran lunga superiori ai miei, e che quindi il mio dovere è quello di dar loro la possibilità di giocare la palla. Per me è stato un onore aspirare palloni per gente come Gascoigne, Rui Costa, Rivaldo, Kakà, Totti.
Ricordo che quando Rivaldo arrivò al Milan inizialmente si trovò un po’ a disagio con i nostri allenamenti, molto più duri rispetto a quelli cui era abituato in Spagna. Un giorno era al limite della sopportazione per quegli esercizi faticosissimi, e così gli dissi: «Non ti preoccupare, se vuoi li faccio io al posto tuo, l’importante è che poi ci fai vincere». Già, perché Rivaldo anche senza allenarsi poteva risolvere una partita, io no. E lo dico senza modestia ma con assoluta franchezza. Io contribuisco con la mia grinta e il mio dinamismo, ma non ho il colpo risolutore, l’invenzione geniale che può scardinare le difese. Se una squadra schierasse undici Gattuso in campo (come talvolta vorrebbe qualcuno), tutte le gare finirebbero 0-0. Il carattere, la grinta, la voglia che mostro in campo però non sempre si riflettono fuori dal rettangolo di gioco. È vero che il calcio è una delle più belle metafore della vita, ma per quanto mi riguarda a volte sono proprio l’opposto del giocatore ringhioso ormai entrato nell’immaginario collettivo. Può sembrare strano, ma anche io ho le mie timidezze: soprattutto con chi non conosco non riesco a essere molto espansivo, me ne sto sulle mie, temporeggio anziché entrare subito in tackle. In campo invece svanisce ogni timore, mi trasformo, non ho paura di niente e di nessuno. Però, soprattutto negli ultimi anni, ho imparato a mettere freno alla mia carica agonistica, e se mi capita di fare un fallo duro (quasi un dogma per il ruolo in cui gioco) porgo sempre la mano all’avversario, una cosa che mi piace molto del mio carattere. Duro ma corretto, insomma, come dovrebbe essere sempre un giocatore di calcio.
Per me la partita è adrenalina pura, novanta minuti senza fiato e senza distrazioni. Per questo prima di un incontro sono sempre molto teso, tirato come una corda di violino. L’unico modo di sfogarmi è mangiarmi le unghie, un maledettissimo vizio che mi porto dietro da un sacco di anni e del quale non sono ancora riuscito a sbarazzarmi. Gli allenatori che ho avuto durante la mia carriera, conoscendomi, non mi hanno mai caricato prima di una partita. Anzi, è sempre successo il contrario, potessero mi darebbero pure un calmante… Però finché «sentirò» la partita, fino a quando il mio corpo, per la tensione, mi costringerà ad andare in bagno venti volte prima di entrare in campo, vorrà dire che sarò ancora un calciatore. Quando non proverò più queste sensazioni sarà il momento di appendere le scarpe al fatidico chiodo e di lasciare perdere tutto. Il calcio deve essere emozione, passione, genuinità: se mancano questi ingredienti allora tanto vale smettere e dedicarsi a qualcos’altro.

Frasario per mandare in estasi
la stampa







Tante persone mi considerano un guru, uno che quando apre bocca dice la verità assoluta sul calcio senza girarci tanto intorno, manco fossi l’oracolo di Delfi. Sarà che il mio stile colorito e la mia schiettezza fanno sempre «tendenza», e per questo i giornalisti danno sempre grande risalto alle mie parole e alle mie interviste. E dire che, soprattutto qualche anno fa, solamente a sentire nominare la parola «sala stampa» mi venivano i brividi dal terrore, per me era come presentarmi a un’esecuzione. Poi col tempo ho capito come gestire meglio le mie emozioni e le mie parole, fino a diventare quasi un «aficionado» dei microfoni.
Soprattutto durante l’ultimo Mondiale si è creato un bellissimo «feeling» con alcuni giornalisti, che considero parte integrante del nostro trionfo. Certo, a volte invece è stata molto dura riuscire a sottrarsi alle fauci della stampa, perché soprattutto quando le cose non girano per il verso giusto bisogna stare molto attenti a non fare il passo più lungo della gamba. E tante volte poi ti viene da pensare: «Cazzo! Questo non dovevo proprio dirlo!», perché poi ogni sillaba pronunciata da un calciatore viene vivisezionata, analizzata e strumentalizzata a piacimento. Facendo parte di una squadra, e rappresentando nel momento dell’intervista anche i miei compagni, c’è la necessità di rispettare le elementari regole di convivenza, di non andare mai sopra le righe per non mettere nessuno in difficoltà. Altrimenti poi sono casini: per questo, spesso, i calciatori si nascondono dietro a frasi fatte e luoghi comuni, semplicemente perché c’è sempre il timore che poi ogni parola venga amplificata e possa destabilizzare l’ambiente. Poi esistono giornalisti e giornalisti: ci sono quelli che hanno il potere di scrivere l’articolo e il titolo da soli, mentre altri si devono attenere alle regole dei redattori, che magari leggono il pezzo e poi ci piantano sopra un titolo che non c’entra un fico secco con l’intervista. Ormai conosco tutti i meccanismi che regolano il «quarto potere», potrei pure farmi assumere dalla «Gazzetta dello Sport» come inviato speciale da Milanello!
Certo che con me i giornalisti spesso vanno a nozze. Soprattutto quando tiro fuori quelle parole che non so manco io da dove arrivino: è che anche quando faccio un’intervista agisco con spontaneità e istintività, e a volte tiro fuori certe chicche per cui la stampa impazzisce. Ho stilato una breve hit parade delle mie «perle» d’autore, che ho voluto commentare in modo ironico.

Segno di spunta.
Pensavo che gli italiani erano i primi rosiconi del mondo, poi ho conosciuto i francesi.
Lo dissi dopo la finale contro la Francia, perché davvero non ce la facevo più a sopportare le polemiche dopo il fattaccio Zidane-Materazzi. Ho capito che tutto il mondo è Paese: quando perdi è sempre colpa di qualcun altro.
Segno di spunta.
Il cartellino me lo mangio.
Tutti si preoccupavano per una mia eventuale ammonizione contro la Germania che mi avrebbe impedito di giocare la finale con la Francia. Mi è uscita così, spontanea: e chissà, magari con un contorno di gamberi è pure buono il cartellino…
Segno di spunta.
Non possiamo retrocedere per un trapianto di capelli.
Dichiarazione che seguiva il casino di Calciopoli, quando fu tirato in ballo il trapianto di capelli dell’arbitro Rodomonti promesso dall’addetto agli arbitri del Milan Leonardo Meani. Se qualche regista mi chiede i diritti per inserire la battuta in un film sono pronto a venderglieli.
Segno di spunta.
Da qui non mi muovo se non mi cacciano a calci nel sedere.
La Juve in quel periodo, era il 2004, mi stava corteggiando. Mai però sarei passato in bianconero, anche perché i miei parenti milanisti mi avrebbero linciato prima.
Segno di spunta.
Il mio doping è il peperoncino e il fatto che mi spacco il culo durante la settimana.
Scusate l’espressione poco fine, ma quando ce vo’, ce vo’.
Segno di spunta.
Non sono un picchiatore, mi piace correre per gli altri: avrei voluto portare la borraccia a Rivera.
Ecco, smentiamo un po’ i luoghi comuni su noi mediani: abbiamo un cuore anche noi (e che cuore!).
Segno di spunta.
Dicono: Gattuso non sa stoppare. Dico io: ma se vado a duemila all’ora mi permetterete di sbagliare qualche appoggio?
Già, perché vi immaginate se avessi avuto davvero i...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. L’uomo discende da Gattuso
  4. Farsi i piedi
  5. 13 chilometri a partita
  6. Ringhio doc
  7. Indice