Sommario
Parte prima
LA GRANDE TRANSIZIONE
1 Più intelligenti di quanto pensiamo
2 «Tesoro, i ragazzi mi hanno ristretto il cervello!»
3 Il territorio quasi inesplorato del cervello materno
Parte seconda
I CINQUE ATTRIBUTI DEL CERVELLO POTENZIATO DA UN BAMBINO
4 La percezione
Il regno dei sensi materni si espande
5 L’efficienza
Perché la necessità è la madre del multitasking
6 La capacità di recupero
Ridurre lo stress, potenziare l’intelligenza
7 La motivazione
La forza mentale dell’amore materno
8 L’intelligenza emotiva
Come la maternità insegna le capacità sociali
Parte terza
E ALLORA?
9 I Mister Mamma e altri altruisti
I vantaggi per i vice
10 Meglio della facoltà di economia
Il valore aggiunto delle madri al lavoro
11 Più intelligenti che mai
Perché oggi la maternità richiede cervello
Parte quarta
E ORA?
12 Riprogrammare l’itinerario professionale
Le idee di alcune viaggiatrici intelligenti
13 L’impegno politico
La magia delle madri motivate
14 I neuroscienziati ne sanno una più del diavolo
Dieci consigli per sfruttare appieno il cervello materno
Ringraziamenti
Note
Bibliografia
1
Più intelligenti di quanto pensiamo
Intelligente agg. 1 Che ha la capacità di intendere, pensare, giudicare; 2 Di persona dotata di particolari capacità intellettuali; 3 Fatto o detto con intelligenza; 4 Che manifesta o rivela intelligenza; 5 (arcaico) Di chi ha una conoscenza specifica di un’arte, di una scienza, di una tecnica e simili.
VOCABOLARIO DELLA LINGUA ITALIANA
DI NICOLA ZINGARELLI
Qualche settimana dopo la nascita del mio primo figlio ho fatto un sogno inquietante. Era il settembre del 1995 ed ero in congedo di maternità (all’epoca facevo la corrispondente dall’estero a Rio de Janeiro). Nell’incubo, gli alieni erano atterrati nella capitale, Brasilia, ma io restavo a casa, senza riuscire a decidere se valesse la pena seguire la storia. In seguito ho pensato che il sogno aveva rappresentato perfettamente la paura di aver ceduto il mio cervello in cambio del bambino.
Era stata proprio questa paura a impedire a me e a molte mie coetanee di avere figli fino al momento in cui avevamo quasi perso la possibilità di procreare. Il problema era che ero abituata a fare affidamento sul mio cervello per molte cose importanti, per esempio il sostentamento, l’autostima e la libertà di sposarmi per amore. Sapevo che diventare madre mi avrebbe esposta al brusco declino mentale comunemente associato alla gravidanza e alla maternità . È molto diffusa, infatti, l’immagine della gestante svampita che piange per gli spot delle salviettine umidificate, o della madre esausta che pensa solo a portare i bambini a scuola e a fare la spesa («Se i pastelli a cera in macchina hai lasciato / e il posto delle chiavi hai dimenticato / la spiegazione si trova senza fatica: / sei incinta, cara amica» dice la poesia scritta da una presunta vittima di questo fenomeno).
Insieme alle vene varicose e al girovita appesantito, la diminuzione delle capacità cerebrali sembrerebbe un rischio insito nel destino riproduttivo delle donne. Sicuramente è questa l’idea che molti nongenitori hanno delle gestanti e delle neomamme. Quando alcuni ricercatori mostrarono al pubblico i filmati di una donna in varie situazioni lavorative – la stessa persona, lo stesso lavoro, ma in alcune scene con l’aggiunta di un pancione finto –, la signora «incinta» fu giudicata meno competente e meno qualificata per una promozione. Anche noi mamme contribuiamo a perpetuare questo pregiudizio. «Da quando ho partorito non so più dove ho la testa!» è un alibi frequente per giustificare eventuali gaffe. «Una parte del nostro cervello lo espelliamo con la placenta!» mi disse un’amica.
Il coro pessimistico non è sempre stato così chiassoso. L’idea della sventatezza materna, nata in tempi relativamente recenti, comparve dopo lo storico ingresso delle donne nel mondo del lavoro, a partire dagli anni Sessanta. Questo cambiamento si tradusse in una nuova attenzione da parte del pubblico e in una nuova autocoscienza da parte delle madri. Oggi quasi tre quarti delle mamme con bambini da un anno insù lavorano fuori casa, spesso dedicandosi a mansioni per cui è richiesta una grande intelligenza, il che le rende più attente che mai alle fluttuazioni della propria agilità mentale. Non solo la professione che svolgono esige più acume, ma anche il fatto di dover crescere un figlio tra sovraccarichi di informazioni e furiosi dibattiti sull’educazione impone loro di essere al top della forma intellettiva.
Ebbene, pochissime madri negherebbero che i bambini mettono a dura prova le loro risorse mentali. Gli sbalzi ormonali, la mancanza di sonno, i capufficio prevenuti, gli incarichi insulsi e i bombardamenti mediatici fanno parte del prezzo da pagare. Poiché, nonostante i notevoli progressi degli ultimi tempi, gli uomini non condividono ancora equamente queste difficoltà : i figli continuano a essere un problema perlopiù femminile. A rendere tutto più difficile, tuttavia, è un residuo di femminismo. La stessa retorica feroce che diede alle donne il coraggio di sfidare un ostile mercato del lavoro ha infatti appiccicato la fastidiosa etichetta della «mamma sbadata» a tutte quelle madri che – come me – all’epoca erano quasi maggiorenni.
Nel 1963, nella Mistica della femminilità , Betty Friedan paragonò le casalinghe a «cadaveri ambulanti». Queste donne, scrive, «sono diventate dipendenti, passive, infantili; hanno rinunciato agli ideali adulti per vivere al livello più basso del cibo e degli oggetti». Qualche anno dopo, gli appassionati di cinema e i lettori di romanzi avrebbero riconosciuto una vivida incarnazione della mamma rimbecillita in Tina, l’eroina nevrotica e farmacodipendente di un bestseller dal titolo azzeccato: Diario di una casalinga disperata.
Lungi dallo svanire alla fine del secolo scorso, questa visione apocalittica alimenta tuttora una convinzione privata e pubblica assai diffusa. «Chi dice che avere un figlio non ti rovina completamente e irrimediabilmente la vita mente senza ritegno» riflette Julie Applebaum, che – in Nursery Crimes, il romanzo pubblicato nel 2001 dall’ex avvocato Ayelet Waldman – rinuncia alla carriera legale per restare a casa con la figlia. «Cambia tutto. La relazione con tuo marito va a rotoli; ti senti così brutta da non riuscire più a guardarti allo specchio; non concludi più niente e diventi stupida, sciocca, ottusa. La gravidanza e l’allattamento ti rimbambiscono. È un fatto dimostrato scientificamente».
Come vedremo, è tutt’altro che «un fatto dimostrato scientificamente», ma frasi come queste sono una lettura sconfortante per le madri. Lo stesso dicasi per il seguente commento – un po’ troppo severo, a mio parere –, scritto nel 2004 da Anna Quindlen, una giornalista di «Newsweek»: «Era come se le ovaie avessero preso il sopravvento sul mio cervello. Dopo meno di un anno, un neonato aveva preso il sopravvento su ogni cosa. Il cervello non mi funzionava più come prima, ancora di più quando ho avuto un secondo bambino meno di due anni dopo, e un terzo poco più tardi».
A onor del vero, in quegli anni Quindlen vinse il Pulitzer per i suoi articoli comparsi sul «New York Times» e pubblicò diversi romanzi e manuali di successo. Niente male, per la madre di tre figli. Eppure, per qualche ragione, si sentì in dovere di assicurare i lettori che la maternità le aveva intorpidito l’intelletto.
Forse aveva solo seguito la corrente. I sondaggi degli ultimi decenni rivelano un netto aumento dell’insoddisfazione materna, una tendenza dovuta perlopiù al presunto prezzo da pagare per allevare un bambino. Lamentarsi di ciò che i figli hanno fatto alle nostre finanze, al nostro umore, ai nostri fianchi e al nostro cervello è diventato un passatempo diffuso in svariate occasioni, nonché l’argomento di molti libri. «La senilità è una cosa che erediti dai tuoi figli», diciamo scherzando. La nuova angoscia genitoriale è tuttavia profonda e, senza dubbio, spiega perché molte donne rimandino la maternità fino alle soglie della menopausa.
Io sono arrivata appena in tempo. Quando ho partorito, dopo che la mia ostetrica mi aveva educatamente definita una gestante «attempata», ormai avevo aspettato così a lungo che era difficile stabilire se la causa dei miei occasionali momenti di défaillance fosse il presunto peggioramento intellettivo dovuto alla gravidanza o alla senilità precoce. Joey è nato quando avevo trentotto anni, e Joshua tre anni dopo. Sapevo che, continuando a rinviare, avrei corso il rischio di non poter più avere figli, ma temevo che i danni cerebrali mi sarebbero costati il lavoro cui ambivo da quando ero piccola.
Sono cresciuta in periferia ed ero la minore di quattro figli; mio padre faceva il medico e mia madre – la reginetta della scuola che aveva mollato gli studi per sposarsi – la casalinga. Quando non la chiamavamo «la martire», la soprannominavamo «la geisha». Eravamo convinti che il suo destino, e il nostro, dipendessero dalla genialità di mio padre. Tuttavia, come avrei capito solo molto più tardi, l’esistenza stessa di quella convinzione non aveva fatto altro che dimostrare quanto la mamma fosse stata intelligente. Aveva lavorato in sordina per raggiungere i suoi obiettivi, socializzando a ritmo vertiginoso per inserire la famiglia nella comunità e spianare la strada ai suoi figli. Ha aspettato che io andassi all’università per laurearsi e, nei dieci anni successivi, ha fatto la maestra elementare per i bambini affetti da disturbi dell’apprendimento.
Benché il suo esempio insegnasse che la prima responsabilità di una donna era mettersi al servizio della famiglia, non era solo orgogliosa dei successi delle sue due figlie, ma incoraggiava anche le nostre aspirazioni professionali. Noi davamo tutto per scontato, pensando di essere troppo sveglie, rispetto a lei, per perdere tempo a cucinare e a pulire. Mia sorella e i miei due fratelli sono diventati medici, ma io ho lasciato l’ovile molto presto. A sedici anni sono partita per il Nicaragua, allora controllato da Anastasio Somoza, con i volontari degli Amigos de las Americas. Sono rimasta scioccata quando ho saputo che il mio governo sosteneva un dittatore che rubava gli aiuti umanitari e soffocava il dissenso. Se altri americani l’avessero scoperto, avevo pensato, la situazione sarebbe cambiata.
Sono tornata a casa decisa a diventare corrispondente dall’estero e, cinque anni dopo, sono stata assunta dal «San Jose Mercury News». Di lì a poco ho iniziato a lavorare come inviata nell’America Centrale, un incarico che ha avut...