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Identikit di una cattiva madre
La mia prima cattiva madre l’ho incrociata su un tram di San Francisco nella primavera del 1994. Era seduta sul bordo del sedile con la sua bambina in piedi tra le gambe. Teneva due fermagli tra le labbra e un elastico teso fra le dita di una mano, mentre con l’altra le pettinava i lunghi capelli scuri e cercava di raccogliere le ciocche ribelli in un’ordinata coda di cavallo. Niente da fare. Appena ci riusciva da una parte, ecco che perdeva la presa dall’altra, oppure sistemava i capelli davanti e quelli dietro sfuggivano liberi sulla nuca. Era un tragitto accidentato, il tram procedeva tra sobbalzi e frenate che facevano puntualmente perdere l’equilibrio alla bambina. A una curva un po’ più brusca, la piccola inciampò e quel movimento improvviso fece di nuovo allentare la presa della madre sulla coda. Con un verso di stizza, la donna le strattonò una manciata di capelli e la rimproverò con un secco: «Stai ferma!».
E fu allora che, indignata e convinta che il giorno in cui fosse toccato a me pettinare mia figlia non sarei mai stata così brutale, mi sporsi dal sedile, guardai la donna negli occhi e, alzando la voce di modo che tutti i passeggeri potessero sentirmi, intimai: «Guardi che la teniamo d’occhio, signora».
Il grande occhio è sempre vigile: la pattuglia Anti- Cattiva Madre è in stato di allarme permanente. A volte gli avatar dei demoni materni che vengono a ossessionarci sono orribili e spaventosi come quello di Andrea Yates, assolta per infermità mentale dopo aver annegato i cinque figli nella vasca da bagno. Altre volte un particolare accanimento contro una possibile esponente della nefanda categoria nasce solo dal razzismo, come accadde per il caso nazionale sollevato negli anni Ottanta contro la mitica regina dei sussidi che Reagan aveva definito la donna «con ottanta nomi, trenta indirizzi [e] dodici tessere sanitarie», o ancora l’attuale isteria collettiva ai danni delle clandestine accusate di fare figli per gettare l’ancora in un posto e scongiurare l’espulsione. In certi casi il crimine della cattiva madre è così folle da rasentare una sorta di raccapricciante magnificenza, come nel caso di Wendy Cook, una prostituta di Saratoga Springs che sniffava cocaina dalla pancia di suo figlio mentre lo allattava (e io che mi sono sempre vantata di riuscire a leggere e allattare contemporaneamente!).
Appena una cattiva madre esce di scena, ce n’è subito un’altra pronta a rimpiazzarla sul banco degli imputati. Di recente è toccato alla svampita popstar Britney Spears distinguersi come modello di scelleratezza. La sua fedina penale di cattiva madre è lunga e variegata: ricovero in clinica psichiatrica, revoca del diritto di visita per non essersi sottoposta al test antidroga stabilito dal giudice, guida pericolosa con il figlio in grembo e semi-investimento di un paparazzo e di un vicesceriffo donna. E, oltre ai guai con la legge, anche il suo stile di vita offre un lungo elenco di pessimi esempi: feste a go-go, spese esorbitanti (737.000 dollari al mese!) e il suo vezzo forse più famigerato, ovvero l’inspiegabile idiosincrasia per la biancheria intima. Siamo tutti d’accordo, immagino, sul fatto che Britney Spears, come madre, sia quanto meno inadeguata, per non dire negligente. È di gran lunga peggiore della mia Medea che sul tram aveva tirato i capelli alla figlioletta. Ma allora perché ho la sensazione che comunque siano stati troppo duri con lei?
Forse perché, in misura minore e restando ovviamente ai margini dei riflettori, anch’io sono stata messa alla gogna come cattiva madre. Ho avuto anch’io i miei quindici minuti di notorietà di cui parlava Andy Warhol: sono stata data in pasto ai talk-show del mattino e ai blog scandalistici, esibita al pubblico disprezzo e ludibrio come esempio di perfidia materna. Il mio crimine? L’aver confessato sulle pagine di moda e costume del «New York Times» di amare mio marito più dei miei figli.
Nell’articolo incriminato mi chiedevo come mai molte delle donne che conoscevo non facevano più sesso con i loro mariti mentre io sì, e la mia conclusione era che forse loro, al contrario di me, avevano trasferito la passione per il proprio marito o compagno sui figli. Avevo scritto: «In loro la libido di un tempo se n’è andata, lasciando il posto a un desiderio materno totalizzante». Per un po’ ho anche cercato di capire cosa ci fosse di sbagliato in me: perché non ero riuscita «nella transizione erotica che si conviene a ogni buona madre»? Avevo scritto che se per essere una brava madre bisogna amare i propri figli sopra ogni cosa, marito compreso, allora io ero una cattiva madre perché amavo mio marito più dei miei figli.
La pattuglia Anti-Cattiva Madre è subito accorsa sulla scena del delitto. Le più agguerrite fra le militanti hanno dato voce alle proprie invettive, sguazzando nel fango velenoso dei blog. Hanno detto che ero pazza, diabolica, pericolosa, che avrebbero dovuto togliermi i figli. Ho subìto un vero e proprio controinterrogatorio televisivo all’Oprah Winfrey Show e l’élite newyorchese dello squadrone speciale mi ha metaforicamente affondato gli incisivi, piccoli ma affilati, nelle caviglie.
Provare anche solo un po’ del dolore che deve aver sofferto Britney Spears è bastato a farmi chiedere da dove nasca la nostra attuale ossessione per queste multiformi e archetipe manifestazioni di perfidia materna. Le cattive madri hanno sempre suscitato sentimenti di paura e curiosità al tempo stesso, basti pensare alla Medea e all’Agave di Euripide, a Giocasta, o, per venire ai giorni nostri, alle ignominie materne di Joan Crawford, raccontate in un libro dalla figlia adottiva. Tuttavia non posso fare a meno di credere, forse perché io per prima, in forma mediatica, sono stata processata e condannata, che vi sia qualcosa di particolarmente caustico e isterico nel vetriolo che oggi viene gettato sulle azioni esecrande di queste cattive genitrici. Penso che la frequenza con cui vengono smascherate e il grande interesse che suscitano siano più che semplici sintomi del generalizzato declino di civiltà che caratterizza la nostra epoca. Se è vero che le micidiali raffiche di messaggi che vengono scambiati su siti per genitori come UrbanBaby.com non riflettono il pensiero della maggior parte della società americana, sembrano comunque distillare in un’ignobile essenza la dilagante preoccupazione nei confronti delle cattive madri.
Come mi ha spiegato la studiosa femminista Lynn Paltrow, fondatrice e direttrice della National Advocates for Pregnant Women, associazione che difende i diritti delle donne incinte, dietro a questa preoccupazione per le cattive madri si nasconde un’insidiosa logica sociopolitica. Secondo Lynn Paltrow spostare i riflettori sulle cattive madri rientrerebbe in un progetto politico più ampio che mira a distogliere la nostra attenzione dalla verità , ovvero che non sono le nostre madri ad averci deluso, bensì il nostro governo. Il sistema patriarcale e i suoi meccanismi politici, mediatici e speculativi ci spingono a demonizzare e denigrare una madre-orco dopo l’altra, per il semplice fatto che preoccuparci di madri palesemente fuori di testa come Wendy Cook – la cocainomane contorsionista – e Britney Spears ci distrae, per esempio, dal fatto che il presidente Bush abbia tranquillamente bocciato una legge che avrebbe garantito l’assistenza sanitaria a quattro milioni di bambini non coperti da assicurazione.
Per quanto trovi convincente la tesi di Lynn Paltrow, qualcosa dentro di me si ribella all’idea che la causa principale di questa ossessione sia il sistema patriarcale. Sono d’accordo con lei quando sostiene che il processo di accettazione dell’uguaglianza di genere è appena iniziato – è trascorsa, dichiarò la Paltrow, «solo una frazione di secondo nel corso della storia» –, eppure, il grido di condanna che soffoca ogni dibattito civile sul tema della maternità e dell’educazione non nasce su ordine di chissà quale grande inquisitore maschio, ma in buona parte dalle donne stesse. E se nel corso della storia le donne sono sempre state le garanti di una condotta sociale accettabile, anche quando questo andava a loro discapito (valga per tutte l’esempio di Abigail Williams, la principale accusatrice ai processi contro le streghe di Salem), basta navigare un paio d’ore nella marea di blog creati da mamme per trovare conferma che, perlomeno in questo ambito, siamo noi donne le prime responsabili del nostro asservimento. Gli interventi più decisi della pattuglia Anti-Cattiva Madre sono stati messi a segno da implacabili agenti donne.
E perché? Perché le Andrea Yates e le Susan Smith, le squillo cocainomani e le donne single che crescono i figli raggranellando sussidi ci rendono un enorme favore personale: mettendoci davanti agli occhi il tipo di madre che non siamo, ci fanno digerire più facilmente quello che invece siamo.
Quando ho interpellato un campione, in realtà poco scientifico, di amiche e parenti, nessuna di loro ha avuto difficoltà a definire che cosa significhi essere un buon padre. Un buon padre si riconosce semplicemente dal fatto di esserci. Lui c’è. In sala parto, a cena (quando può), alle recite e alle partite (sempre nei limiti del possibile). Non fa mancare niente alla famiglia e non si tira indietro, che si tratti di cambiare un pannolino o di indossare un marsupio. È una buona spalla su cui piangere, ma è anche bravo ad affrontare le difficoltà . Questa definizione sembra conciliare senza contraddizioni sia la vecchia e sdolcinata versione del padre americano modello anni Cinquanta, sia le nostre teorie post-abbattimento delle divisioni sessiste.
Tuttavia il mio campione statistico si è trovato in difficoltà quando ha dovuto definire una buona madre senza ricorrere a qualche iperbole, il che lascia intuire una vena di rabbiosa autoflagellazione.
«Una Mary Poppins che condivide con te un legame biologico e che non se ne va alla fine del film.»
«Vive solo nel presente ed è votata ai propri figli.»
«Ha una pazienza infinita.»
«Non dimentica mai di mettere in tavola la frutta a colazione, è sempre sorridente, non urla mai, riesce a non proiettare le sue nevrosi e inadeguatezze sui figli, è una volontaria attiva e benvoluta nella comunità ; si ricorda di organizzare pomeriggi con altri bambini, i suoi figli sono sempre ben vestiti, stimola la loro vena creativa e partecipa con gioia ai loro giochi. E non è mai troppo stanca per fare sesso.»
«È tutto quello che io non sono.»
I risultati di questo sondaggio potrebbero essere viziati dal fatto che il campione preso in esame, nonostante una piccola gamma di varianti razziali, religiose e socioeconomiche, era composto da donne comprese più o meno nella stessa fascia di età (tra i trentacinque e i quarantacinque anni) e con lo stesso livello di istruzione (che può essere brevemente riassunto in «più alto di quello che usano»). Tuttavia gli elementi comuni delle loro risposte la dicono lunga sia sulla forza persistente di un modello di madre all’antica sia sulla nostra totale incapacità di incarnarlo.
La caratteristica principale insita nello stereotipo di buona madre è l’abnegazione. I bisogni dei suoi figli vengono al primo posto, le sue priorità sono la loro salute e la loro felicità . I figli occupano tutti i suoi pensieri, la sua giornata è costruita intorno a loro e tutto quello che fa è per il loro bene. I suoi bisogni, le sue ambizioni, i suoi desideri contano solo se rapportati ai loro. Se una buona madre pensa un po’ a se stessa, lo fa solo nella misura in cui questo non danneggia i figli. Come mi ha fatto notare uno dei soggetti interpellati: «Riesce a trovare tempo per se stessa senza che questo incida negativamente sull’autostima dei suoi figli». Una buona madre lavora solo se questo non nuoce ai bambini o se il suo mancato guadagno rischia di pregiudicare il tenore di vita della famiglia. Ma l’aspetto più importante è che persino l’atto stesso di dedicarsi ai propri bisogni e desideri è finalizzato a rendere i suoi figli delle persone migliori. «La brava madre è in forma perfetta e ha un lavoro fuori casa, così può assurgere a modello da imitare» ha affermato una delle donne che ha risposto alle mie domande.
Essere un buon padre è un obiettivo ragionevole, raggiungibile, basta essere presenti e collaborare. Essere una buona madre come la intendono le stesse mamme è impossibile. Quando ho chiesto alle mie intervistate di farmi un esempio di buona madre, mi sono sentita rispondere June Cleaver, mamma di un vecchio telefilm degli anni Cinquanta intitolato Leave It to Beaver e Marmee di Piccole donne. Entrambe sono necessariamente personaggi fittizi, e non è una coincidenza. La buona madre non esiste e non è mai esistita, nemmeno in quei bei tempi andati che gli arbitri della condotta materna non si stancano mai di tirare in ballo. Se i produttori di Leave It to Beaver avessero davvero voluto darci uno spaccato fedele della tipica madre fine anni Cinquanta-primi anni Sessanta, la protagonista di quella serie tivù – June Cleaver – avrebbe tenuto in bocca una sigaretta con l’impronta di rossetto sul filtro, un gin tonic in mano e una copia di I peccati di Peyton Place sul comodino. Eppure le mamme che ho preso a campione si rapportano a questo personaggio immaginario e, non reggendo il confronto, finiscono per sentirsi delle cattive madri.
È come se la nuotatrice Tracy Caulkins, che vanta tre ori olimpici e cinque primati mondiali al suo attivo, facesse mea culpa perché è più lenta della Sirenetta.
Tutte le madri che conosco, senza eccezioni, sentono di non essere state all’altezza. Come ha scritto in modo così eloquente Judith Warner nel suo libro Perfect Madness: Motherhood in the Age of Anxiety: «Questo diffuso e soffocante cocktail di senso di colpa, ansia, risentimento e rimorso… sta avvelenando la maternità ».
Ho riflettuto sulle ragioni di quest’ansia materna da quando mi sono ritrovata a soffrirne per la prima volta. Ero seduta al parco con una borsa per il cambio dei pannolino al posto della ventiquattrore, tutta concentrata su di me e sulla mia bambina, mentre la mia ambizione si coagulava in qualcosa che credevo fosse rabbia ma in realtà , me ne rendo conto solo adesso, rasentava la disperazione. Sono sempre stata stacanovista e ambiziosa, ho sempre pensato solo ed esclusivamente alla carriera. Facevo gli straordinari e dopo un’intera giornata passata a occuparmi di poveri disgraziati che si rivolgevano a me per evitare di passare anni, decenni, se non tutta la vita in prigione, non mi restavano più energie per la mia bambina. Ero invidiosa di Michael, del suo lavoro di scrittore che svolge da casa e che gli permetteva di passare lunghe e languide ore con nostra figlia, vestirla e scarrozzarla dalla ludoteca di Mommy&Me alla biblioteca. Così, un bel giorno, ho sgombrato la scrivania dell’ufficio, ho buttato in soffitta i diplomi incorniciati e sono diventata una mamma a tempo pieno.
Si è rivelato esattamente come me l’ero immaginato. Mommy&Me, l’ora del racconto in biblioteca, il programma interattivo genitori-figli Gymboree e lunghi giri con il passeggino in compagnia delle mie colleghe mamme full-time. E il giorno dopo di nuovo Mommy&Me, Gymboree e lunghe passeggiate con il passeggino in compagnia delle mie colleghe mamme a tempo pieno. E così il giorno dopo e quello dopo ancora.
Una sola settimana ed ero già esaurita.
Essere la persona più importante nella vita quotidiana di mia figlia mi procurava una certa soddisfazione, eppure mi sentivo anche triste e annoiata, e quello stato d’animo mi terrorizzava. Una buona madre non è mai annoiata, giusto? Non è mai triste. A una buona madre non dà fastidio alzare gli occhi dal libro che sta leggendo per ammirare il disegno di sua figlia; a lezione di musica non fissa l’orologio sperando che il tempo passi in fretta allo stesso modo in cui uno scolaro di quarta elementare agogna la ricreazione. Una buona madre non nasconde i colori a dita perché non vuole che si sporchi la casa. Una buona madre non solo mette i bisogni e gli interessi dei suoi figli al primo posto, ma è anche contenta di farlo. E se io non ero contenta, allora voleva dire che non ero una buona madre. Anzi, che ero una cattiva madre.
Quell’intensa angoscia da cattiva madre che io e tante mie conoscenti abbiamo provato è esattamente la stessa che la giornalista Peggy Orenstein, autrice di Flux: Women on Sex, Work, Love, Kids and Life in a Half-Changed World, attribuisce alla necessità di «fare scelte pre-femministe in un universo post-femminista». Quando eravamo bambine, noi figlie degli ultimi anni Sessanta e Settanta, non volevano fare la moglie o la madre da grandi. Nessuna di noi ambiva a presiedere il consiglio dei genitori dell’asilo nido, sfornare torte perfette o passare le giornate a scarrozzare i figli avanti e indietro tra partite di hockey e lezioni di musica. Tutte noi avevamo ambizioni che andavano oltre le mura domestiche. Volevamo lavorare, fare carriera, crearci una professione. Ma la realtà concreta del lavoro e della vita familiare ha finito per annullare o quanto meno cambiare drasticamente le aspettative di molte di noi. Quando per avere una promozione devi lavorare sessanta o settanta ore a settimana, quando il conto della baby-sitter si avvicina o supera la tua busta paga o semplicemente quando per sbarcare il lunario c’è bisogno di un secondo lavoro, giostrarsi fra casa e famiglia non è più un’impresa ardua, quanto una missione impossibile. Succede dunque che, la maggior parte delle volte, uno dei due genitori rinuncia alla carriera e, in un mondo dove lo stipendio di una donna continua a essere inferiore a quello di un uomo (settanta centesimi circa contro un dollaro) e dove l’identità maschile è ancora quasi esclusivamente definita dal lavoro che fa, si tratta quasi sempre della madre.
Quindi eccoci, relegate in casa o costrette a scendere a grossi compromessi professionali pur di passare più tempo con i nostri figli, oppure a sentirci delle madri orrende perché non abbiamo ancora compiuto la fatidica scelta. Ci saranno senz’altro delle madri che, senza alcun rimpianto, hanno convogliato tutte le loro ambizioni ed energie nella realizzazione della pasta di sale, nella raccolta fondi per l’asilo nido o nel presiedere il comitato genitori di quinta elementare, ma io non ne ho mai incontrata una. La maggior parte delle donne che conosco prova un latente, distruttivo senso di delusione e di ansia. Le donne che conosco, chi più chi meno, non si sentono realizzate e passano buona parte del tempo a cercare di non chiedersi se «sacrificarsi» valeva davvero la pena.
È proprio quel non interrogarsi, quel non sentirsi realizzate, a farci sentire peggio. È questo che scatena la nostra ansia più grande. Sentirci insoddisfatte, annoiate e infelici è brutto, certo, ma ciò che ci spaventa di più è per l’appunto quella nostra scontentezza, noia o infelicità , perché una madre insoddisfatta, una madre che anela a qualcosa di più che passare le giornate con i figli, una madre che ha anche altre aspirazioni, è una madre egoista. E proprio come la buona madre viene definita dal suo spirito di abnegazione, il tratto più distintivo ed eloquente della cattiva madre è l’egoismo.
Pur comprendendo la depressione post-partum di Andrea Yates, assassina di cinque figli, pur avendone sofferto anche noi, pur ammettendo che tirare su una prole così numerosa in un camper convertito in scuolabus basterebbe probabilmente a spingere chiunque verso l’omicidio, noi la condanniamo per aver ceduto alla disperazione. La sua infelicità era più importante della vita dei suoi figli. E non assolviamo le cattive madri nemmeno quando sono loro stesse le prime vittime della tragedia, come per esempio Carol Anne Gotbaum, newyorchese dell’Upper West Side, madre di tre figli. È morta sotto la custodia della polizia dopo essere stata arrestata per una lite all’aeroporto di Phoenix da dove era in partenza per un centro di riabilitazione per alcolisti. «Ma certo, sarà stata di sicuro la madre dell’anno, con la sua storia di alcolismo, tentativi di suicidio e linguaggio violento» ha commentato una madre dello spietato squadrone di UrbanBaby dopo che qualcuno aveva postato un commento di solidarietà per Carol Anne Gotbaum.
Un’altra ha stigmatizzato l’intera vicenda come un esempio di «compiaciuta assurdità ».
Quando Susan Smith buttò l’auto con dentro i suoi due figli in un lago, uno degli aspetti più clamorosi del caso e più ricalcati dalla stampa fu la motivazione del gesto: a quanto pare al fidanzato che aveva in quel momento non piacevano i bambini. La ragazza era chiaramente disturbata, ma dal racconto dei mas...