I
Quel ramo del lago di Como
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, si restringe quasi all’improvviso, prendendo il corso e l’aspetto di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, discende da due monti affiancati, l’uno detto di san Martino, e l’altro, con voce lombarda, il Resegone, per via dei suoi molti cocuzzoli in fila, che ricordano i denti di una sega, o di un lupo. La roccia nuda e spietata delle vette, l’ombra cupa che, con l’avanzare dell’autunno verso l’inverno, esse gettano su borghi e campagne, la nebbia spettrale che salendo dal lago pare inghiottire boschi e vallate, e trasformare tronchi e rami in creature delle tenebre pronte a ghermire coi loro artigli chiunque si trovi a passare lì accanto: tutto, in quei luoghi, suggerisce l’idea di una natura selvaggia e crudele, in cui forze oscure e ostili abbiano infinite opportunità di tendere agguati agli abitanti. Per questo, davanti al camino, nelle sere d’inverno, i vecchi raccontavano, come cose viste coi loro occhi o tramandate dagli antenati, di fuochi fatui che tremolavano tra le croci dei cimiteri, di streghe intente a preparare filtri e unguenti magici nelle loro casupole nel cuore della foresta, di bambini rapiti in culla e scambiati con folletti, di uomini costretti, nelle notti di luna piena, a tramutarsi in lupi, di misteriosi non morti assetati di sangue.
Quei racconti affollavano la mente della giovane che, verso la sera del 7 novembre 1628, osservava dall’alto poggi e valloni, campi e vigne, il lago, il borgo di Lecco e il villaggio di ***, a cui doveva fare ritorno. La madre era indisposta, ed era toccato a lei, dopo la giornata di lavoro alla filanda, salire alla stalla dov’era ricoverata la vacca da mungere. E adesso, con una specie di mastello pieno di latte, fissato alla schiena con due bretelle, non le restava che prendere il sentiero attraverso il bosco per raggiungere casa sua; ma la giovane ricordava che, nelle storie dei vecchi, quel bosco era un luogo proibito; d’altra parte, la strada che lo aggirava, delimitata da due alti muri a secco, era molto più lunga, e se l’avesse scelta sarebbe stata di sicuro sorpresa dall’oscurità a meno di metà cammino; perciò, con un brivido, aggrappandosi alle bretelle del mastello, si addentrò fra gli alberi.
Si sforzava di non pensare alle pericolose creature nascoste nel bosco: i ceppi nodosi e contorti erano solo ceppi, non nani al servizio di una regina malvagia, gli arbusti non erano nidi di serpenti intrecciati fra loro, la nebbia sottile che all’improvviso invadeva il sottobosco non era il fiato malsano di un essere invincibile deciso ad avvelenare i campi, i villaggi, l’intera vallata occupata dalle acque del lago. I pericoli ben più reali, e sperimentati negli ultimi mesi, ormai aveva imparato a cancellarli dalla sua mente, per puro istinto di sopravvivenza. Ma mentre cercava di convincersi di essere sola e al sicuro nella foresta, un rumore di foglie secche calpestate la fece trasalire. Si fermò, si guardò intorno, si mise in ascolto.
Non era sola. Ma forse era un animale selvatico, un cervo o magari un cinghiale. E se fosse stato l’enorme lupo grigio che, in qualche notte di luna piena, contadini e pastori sostenevano di avvistare, immobile su un poggio o al riparo degli alberi, occhi gialli e canini affilati? Aumentò il passo, cercando di non versare il latte che arrivava quasi al bordo del mastello, chiuso a malapena da un coperchio. Le venne in mente che finché camminava non avrebbe potuto distinguere il rumore dei suoi passi da quelli degli animali nel bosco, ammesso che fossero animali; ebbe la tentazione di fermarsi, ma non osò.
All’improvviso, con la coda dell’occhio, tra gli alberi che le sfilano accanto mentre avanza quasi correndo sul sentiero, scorge un’ombra che la supera sulla destra. Non cammina a quattro zampe, non è un animale. Il sentiero si biforca e la giovane piega a sinistra, ma subito vede un’altra ombra che con pochi balzi va a sbarrarle il sentiero, una ventina di passi più avanti. È un uomo, anche se c’è ben poco di umano nel suo sguardo vuoto. Ha intorno alla testa una specie di reticella verde che, chiusa da un gran fiocco, cade sulla spalla sinistra, e dalla quale esce sulla fronte un enorme ciuffo; due lunghi baffi arricciati in punta; una cintura lucida di cuoio, da cui pendono due pistole; un piccolo corno pieno di polvere da sparo, che gli oscilla sul petto come una collana; e da una tasca dei calzoni ampi e gonfi spunta il manico di un coltellaccio.
Il bosco è un labirinto di sentieri intrecciati. La ragazza si infila a destra tra due cespugli, non pensa neppure per un istante di liberarsi del mastello che porta sulla schiena, come se tornare a casa con quel latte fosse l’unico scopo della sua giovane vita, gli zoccoli di legno scivolano sul muschio del sottobosco, il grembiule che le copre la gonna resta impigliato su un ramo spinoso di robinia e si strappa. Quando giunge a una piccola radura, vede alla sua destra che la prima ombra apparsa sul suo cammino è un uomo con lo stesso sguardo vuoto e lo stesso abbigliamento dell’altro.
La ragazza si blocca. Ha la sensazione di aver già vissuto un’esperienza simile; poi si rende conto all’improvviso che non è il ricordo di un fatto accaduto, ma il sogno che l’ha visitata, sempre uguale, nelle ultime notti: il bosco, le creature minacciose, la fuga... I sogni si avverano? E i suoi, come andavano a finire? Dapprima riesce a ricordare solo qualcosa di rosso e indistinto, forse due tizzoni ardenti; poi le tornano in mente una fitta acuta al collo, e un gelo che si diffonde nelle vene, come se fosse stata morsa da una vipera, e un torpore agitato, quasi un sogno nel sogno; e la mattina, al vero risveglio, una sensazione di stanchezza e debolezza estreme...
I due inseguitori sono uno sulla destra e uno sulla sinistra della radura. La giovane si getta in avanti, per imboccare il sentiero che prosegue nel bosco, ma si accorge che dagli alberi le vengono incontro altri due uomini. Si sente in trappola, un animale circondato dai battitori, anzi quegli uomini, ammesso che siano uomini, sono piuttosto i cani che braccano la preda in attesa del cacciatore, e non osano addentarla perché sanno che la soddisfazione della cattura, il gusto del sangue, spetta solo al padrone.
Il cacciatore deve ancora arrivare, pensa la giovane, e in quel momento sente uno sguardo che le brucia la nuca. Ha paura, non vorrebbe voltarsi, ma è più forte di lei. Alle sue spalle, senza che l’abbia sentito avvicinarsi, quasi fosse un fantasma, c’è un grande cavallo nero. Porta in groppa una creatura avvolta in una cappa verde scuro, da cui spuntano due occhi da belva, rossi come tizzoni ardenti. Il rosso del sogno.
La ragazza non riesce nemmeno a gridare. Ha solo la forza di staccare lo sguardo da quegli occhi. Vede i battitori che le chiudono ogni via di fuga verso il sentiero e il bosco. Davanti a sé ha una barriera di rovi, oltre i quali precipita una scarpata. Non ha altra scelta che gettarsi tra le spine, cadendo, miracolosamente in piedi, lungo il pendio. Si graffia le mani e le braccia, e mentre corre a perdifiato cercando di mantenere l’equilibrio si lascia dietro una traccia non di briciole di pane ma di gocce di sangue stillate dai polpastrelli e schizzi di latte traboccato dal mastello. Confida che la belva a cavallo e i battitori non riusciranno a seguirla, tra cespugli e rami bassi, e saranno costretti a percorrere il sentiero che si allarga costeggiando il bosco. Forse la scarpata conduce direttamente alla strada bordata di muri a secco che esce dal paese. Forse passerà qualcuno che potrà aiutarla. Forse non tutto è perduto.
La giovane sbuca in una nuova radura ed eccola, là sotto, la strada. Scorge una figura tozza, vestita di scuro, con un cappello a tesa larga, che avanza con un libro in mano. Le basterebbe raggiungerla per essere al sicuro. La salvezza è a duecento, trecento passi.
Una lingua di nebbia esce dal bosco e invade la radura. Alla ragazza sembra di affondare i piedi nel fango, ma non può essere la nebbia a impedirle di correre, di coprire il breve tragitto fino alla strada. È di nuovo quello sguardo. Da dove sono saltati fuori il cacciatore e la sua cavalcatura?
Per un istante tutto resta perfettamente immobile e silenzioso. Dalle narici del cavallo esce un vapore azzurrino, che sale nell’aria fredda del crepuscolo autunnale. Poi il cavaliere spicca un balzo, piomba su di lei, la butta a terra, la morde alla gola. Cade il coperchio del mastello, si rovescia il latte, forma piccole pozze raccogliendosi nel cavo delle foglie secche. Uno zampillo tinge di scarlatto il bianco. L’aria viene lacerata da un inumano grido di trionfo.
II
Questo matrimonio non s’ha da fare
Mentre tornava dalla passeggiata serale leggendo tranquillamente il suo breviario, don Abbondio, curato del villaggio di ***, si fermò in mezzo al viottolo e alzò lo sguardo: era stato percorso da un brivido, come se fosse stato investito da una ventata gelida, o come se un grido a malapena udito, forse di un animale, di certo non umano, fosse penetrato in profondità nel suo cuore, liberando una paura tenuta faticosamente a freno.
Don Abbondio chiuse il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e messa questa nell’altra, dietro la schiena, riprese il cammino, guardandosi intorno preoccupato. Vide una poiana, un falco di quelle montagne, volteggiare sopra il bosco. Si sforzò di credere che fosse suo il grido che l’aveva turbato, ma poi si accorse, con stupore, che il volo della poiana procedeva a scarti e deviazioni repentine: non di un uccello si trattava ma di un pipistrello, grosso come mai don Abbondio avrebbe immaginato fossero i pipistrelli, una sagoma nera e vibrante stagliata contro le cime e il cielo che si oscurava. Ma osservando lo specchio del lago, che rifletteva capovolti i monti che lo contornano, e i paesetti posti sulle rive, e la strada bordata di muri a secco che lo conduceva a casa, il curato volle convincersi che, nonostante l’enorme pipistrello, in quel paesaggio familiare ben difficilmente poteva nascondersi una minaccia, e il cuore riprese il suo battito regolare...