Alla ricerca del tempo perduto. La prigioniera - vol. 5
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Alla ricerca del tempo perduto. La prigioniera - vol. 5

  1. 300 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Alla ricerca del tempo perduto. La prigioniera - vol. 5

Informazioni su questo libro

La Prigioniera spiccaall'interno della Ricerca per una tonalità che le è propria, e che la distingue da ogni altro volume del ciclo. Alla semplicità della situazione di base corrisponde un'atmosfera di densità quasi onirica: siamo qui di fronte all'avverarsi di ossessioni e fantasmi infantili lungamente covati; ogni gesto, per quanto banale, ogni azione si carica allora di una tensione spasmodica, si arricchisce di echi impensabili. Giovanni Bogliolo

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
eBook ISBN
9788858610220
LA PRIGIONIERA
Fin dal mattino, la testa ancora girata verso il muro, e prima d’aver visto, al di sopra delle ampie tende della finestra, di che tonalità fosse la striscia luminosa del giorno, sapevo già che tempo faceva. Me lo avevano annunciato i primi rumori della strada, giungendomi smorzati e alterati dall’umidità oppure vibranti come frecce nell’aria risonante e vuota di un mattino spazioso, gelido e puro; e allo sferragliare del primo tram avevo intuito se era oppresso per la pioggia o in partenza per l’azzurro. E forse quei rumori erano stati preceduti anch’essi da qualche emanazione più rapida e penetrante che, scivolata attraverso il mio sonno, vi diffondeva una tristezza annunciatrice della neve o dava modo a un certo piccolo, intermittente personaggio di intonare una tal profusione di cantici in gloria del sole che essi finivano per recare a me — mentre, ancora addormentato, cominciavo a sorridere, e le mie palpebre chiuse si preparavano a restare abbagliate — un esta- siante risveglio in musica. Del resto, in quel periodo, fu soprattutto dalla mia camera che io percepii la vita esterna. So che Bloch raccontò che, quando veniva a trovarmi la sera, sentiva come il brusio di una conversazione; siccome mia madre era a Combray e lui non trovava mai nessuno in camera mia, concluse che parlavo da solo. Quando, molto più tardi, seppe che Albertine, in quel periodo, abitava con me, comprendendo che l’avevo nascosta a tutti, dichiarò che finalmente capiva la ragione per cui allora non volevo mai uscire, ma si ingannava. Era d’altronde più che scusabile perché la realtà, anche se necessaria, non è mai completamente prevedibile; coloro che vengono a sapere sulla vita di un altro qualche particolare esatto, ne traggono subito conseguenze che esatte non sono, e vedono nel fatto recentemente scoperto la spiegazione di cose che non hanno invece alcun rapporto con esso.
Quando penso adesso che, al nostro ritorno da Balbec, la mia amica era venuta ad abitare a Parigi sotto il mio stesso tetto, che aveva rinunciato all’idea di fare una crociera, che aveva la sua stanza a venti passi dalla mia, in fondo al corridoio, nello studio con gli arazzi di mio padre, e che, ogni sera, molto tardi, prima di lasciarmi, insinuava nella mia bocca la sua lingua come un pane quotidiano, come un alimento nutriente e dal carattere quasi sacro di ogni carne cui le sofferenze, che per causa sua abbiamo patito, hanno finito per conferire una sorta di dolcezza spirituale, il fatto che immediatamente vi associo non è la notte che il capitano de Borodino mi concesse di trascorrere in caserma, facendomi un favore che, tutto sommato, guariva soltanto un malessere passeggero, ma quella in cui mio padre mandò la mamma a dormire nel lettino accanto al mio. Così la vita, se deve affrancarci una volta di più, contro ogni previsione, da sofferenze che sembravano inevitabili, lo fa in condizioni tanto diverse, opposte a volte, che sembra quasi un sacrilegio constatare l’identità della grazia accordata!
Quando Albertine sapeva da Françoise che, nel buio della mia camera dove le tende erano ancora chiuse, io non dormivo, non si sentiva in imbarazzo se le capitava, lavandosi nel suo bagno, di fare un po’ di rumore. Allora, spesso, invece di aspettare un’ora più tarda, andavo nella mia stanza da bagno che, assai gradevole, era contigua alla sua. In passato succedeva che un direttore di teatro spendesse centinaia di migliaia di franchi per costellare di autentici smeraldi il trono su cui la diva recitava la parte di un’imperatrice. I balletti russi ci hanno insegnato che semplici giochi di luce dispensano, se diretti nei punti giusti, gioielli altrettanto sontuosi e di più varia bellezza. Tale decorazione, già più immateriale, non è però così graziosa, tuttavia, come quella con cui, alle otto del mattino, il sole sostituisce l’altra che avevamo l’abitudine di contemplare quando non ci alzavamo che a mezzogiorno. Le finestre delle nostre due stanze da bagno, perché non venissimo visti da fuori, non erano lisce ma tutte increspate da una brina artificiale e passata di moda. Il sole, d’un tratto, imbiondiva quella mussolina di vetro, la indorava e, scoprendo lentamente in me un giovane più antico che l’abitudine aveva a lungo tenuto segreto, mi rendeva ebbro di ricordi, come se fossi stato in aperta campagna dinnanzi a fronde dorate dove non mancasse nemmeno la presenza di un uccello. Sentivo, infatti, Albertine fischiettare senza posa:
I dolori son pazzi
e chi li ascolta è ancora più pazzo!1
L’amavo troppo per non sorridere allegramente del suo cattivo gusto musicale. Quella canzone, del resto, aveva mandato in estasi, l’estate precedente, Madame Bon- temps, la quale sentì dire ben presto che era insulsa, di modo che invece di chiedere ad Albertine di cantarla quando aveva visite, la sostituì con:
Una canzone d’addio sgorga dalle sorgenti agitate,2
che divenne a sua volta « una vecchia manfrina di Masse- net con cui la piccola ci ossessiona ».
Una nube passava, eclissava il sole, io vedevo spegnersi, rientrare nel grigio quel pudico e frondoso schermo di vetro. Le pareti che separavano i nostri due bagni (quello di Albertine, del tutto simile al mio, era uno che la mamma, avendone un altro nella parte opposta dell’appartamento, non aveva mai utilizzato per non disturbarmi) erano così sottili che, pur lavandoci ognuno nel proprio, potevamo parlarci proseguendo una conversazione che soltanto il rumore dell’acqua interrompeva, con quell’intimità che, negli alberghi, è spesso concessa dall’esiguità dello spazio e dalla vicinanza delle camere, ma che, a Parigi, è così rara.
Altre volte restavo a letto, fantasticando finché ne avevo voglia, in quanto avevo dato ordine che nessuno entrasse in camera mia prima che avessi suonato, cosa che, a causa della scomoda posizione della peretta del campanello al di sopra del mio letto, richiedeva un tempo così lungo che spesso, stanco di cercare di raggiungerla e contento di essere solo, restavo alcuni istanti quasi riassopito. Non che fossi indifferente alla presenza di Albertine in casa nostra. Saperla lontana dalle sue amiche voleva dire risparmiare al mio cuore nuove sofferenze, mantenerlo in uno stato di calma, in una quasi immobilità che l’avrebbero aiutato a guarire. Ma in fondo, la calma che mi procurava la mia amica era una remissione della sofferenza più che una gioia. Mi permetteva certo di gustarne parecchie, di cui il dolore troppo intenso mi aveva privato, ma quelle gioie, lungi dal doverle ad Albertine che, tra l’altro, non trovavo più neanche bella, con la quale mi annoiavo e che avevo la netta sensazione di non amare, io le assaporavo, al contrario, quando Albertine non era accanto a me. Così, per iniziare la mattinata, non la mandavo a chiamare subito, soprattutto se era bel tempo. Per alcuni istanti, sapendo che mi avrebbe reso più felice di quanto avrebbe fatto, io restavo a tu per tu con il piccolo personaggio interiore, colui che salutava il sole cantando e di cui ho già parlato. Tra tutti quelli che compongono la nostra personalità, non sono i più evidenti a essere i più essenziali. In me, quando la malattia avrà finito di abbatterli uno dopo l’altro, ne resteranno ancora due o tre la cui vita sarà più dura a morire, in particolare un certo filosofo che non è felice se non quando ha scoperto tra due opere, tra due sensazioni, un elemento comune. Ma mi sono a volte chiesto se l’ultimo di tutti, non sarà l’ometto molto simile a quello che l’ottico di Combray esponeva nella sua vetrina per indicare il tempo, che si toglieva il cappuccio non appena c’era il sole per rimetterselo se stava per piovere. L’egoismo di quell’ometto, io lo conosco assai bene: posso soffrire di una crisi d’affanno che la pioggia basterebbe a calmare ma lui non se ne cura affatto, e alle prime gocce tanto impazientemente attese, perdendo tutta la sua allegria, si ficca in testa imbronciato il suo cappuccio. In compenso, sono sicuro che quando sarò in agonia, quando tutti i miei altri « io » saranno morti, se brillerà un raggio di sole mentre io esalerò gli ultimi respiri, il piccolo personaggio barometrico si sentirà tutto allegro e togliendosi il cappuccio inizierà a cantare: « Ah! finalmente! ecco il sole!».
Suonavo per Françoise. Aprivo « le Figaro ». Vi cercavo, e constatavo che non c’era, un articolo, o presunto tale, che avevo mandato a quel quotidiano e che altro non era se non la pagina, di recente ritrovata, e un po’ arrangiata, scritta, un tempo, nella carrozza del dottor Percepied, guardando i campanili di Martinville. Poi leggevo la lettera della mamma. Lei trovava strano, sconveniente, che una ragazza abitasse sola con me. Il primo giorno, al momento di lasciare Balbec, quando mi aveva visto così infelice e il pensiero di lasciarmi solo l’aveva preoccupata, forse era stata contenta di sapere che Albertine sarebbe partita con noi e vedere che, insieme ai nostri bauli (quei bauli presso i quali, all’hotel di Balbec, avevo passato la notte piangendo), erano stati caricati sul trenino anche quelli di Albertine, stretti e neri, che mi erano sembrati simili a bare e che ignoravo se avrebbero portato in casa nostra la vita o la morte. Ma non me l’ero nemmeno chiesto, felice, in quel mattino radioso, dopo il terrore di dover restare a Balbec, di condurre con me Albertine. Ma, se all’inizio la mamma non era stata ostile a quel progetto (e si rivolgeva con gentilezza alla mia amica come una madre il cui figlio sia stato gravemente ferito e che è riconoscente alla giovane amante che lo cura devotamente) lo era poi diventata vedendo che esso si era troppo compiutamente realizzato, e che il soggiorno della ragazza in casa nostra si prolungava, per di più in assenza dei miei genitori. Devo dire però che questa ostilità mia madre non me la manifestò mai. Come un tempo, quando aveva smesso di rimproverarmi il mio nervosismo, la mia pigrizia, ora temeva — timore che sul momento non ho forse del tutto intuito, o non ho voluto intuire — di rischiare, facendo qualche riserva sulla ragazza con la quale le avevo detto mi sarei fidanzato, di rattristare la mia vita, di rendermi in seguito meno affezionato a mia moglie, di gettare in me, per quando lei non ci fosse più stata, il seme del rimorso per averle recato un dolore sposando Albertine. La mamma preferiva far credere di approvare una scelta dalla quale, aveva la sensazione, le sarebbe stato impossibile farmi recedere. Ma tutti coloro che ebbero modo di vederla a quell’epoca mi dissero che, oltre al dolore per avere perso sua madre, c’era sul suo viso un’espressione di costante preoccupazione. Questa tensione spirituale, questo conflitto interiore davano alla mamma un grande calore alle tempie, e continuamente apriva le finestre per aver refrigerio. Ma decisioni non riusciva a prenderne per paura di « influenzarmi » in modo sbagliato e rovinare quella che credeva la mia felicità. Non poteva nemmeno risolversi a impedirmi di tenere provvisoriamente Albertine in casa nostra. Non voleva mostrarsi più severa di Madame Bontemps, molto più direttamente interessata alla cosa senza, per altro, ritenerla sconveniente, fatto che stupiva molto mia madre. In ogni caso, si rammaricava di esser stata costretta a lasciarci soli, dovendo partire proprio allora per Combray, dove era possibile dovesse restare (e infatti restò) parecchi mesi, durante i quali la mia prozia ebbe continuamente, giorno e notte, bisogno di lei. Tutto, laggiù, le fu reso più facile dalla bontà e dalla devozione di Legrandin che, senza conoscere in particolar modo la zia, ma semplicemente perché era stata amica di sua madre, non recedendo dinnanzi a nessuna difficoltà, rimandò di settimana in settimana il suo rientro a Parigi, avendo capito inoltre che l’ammalata, ormai condannata, gradiva le sue cure e non poteva fare a meno di lui. Lo snobismo è una grave malattia dell’anima ma localizzata, e non la guasta completamente. Io, nel frattempo, al contrario della mamma, ero felicissimo della sua permanenza a Combray; temevo che potesse scoprire l’amicizia della mia amica per Mademoiselle Vinteuil (non potendo dire ad Albertine di tenerla nascosta). Questa rivelazione sarebbe stata per mia madre un ostacolo insormontabile, non soltanto al matrimonio, di cui per altro mi aveva pregato di non parlare ancora ad Albertine in maniera definitiva, e la cui idea mi era sempre più intollerabile, ma anche al fatto che la mia amica si fermasse qualche tempo in casa nostra. Salvo per una ragione tanto grave, che però ignorava, la mamma per il duplice effetto, vuoi dell’imitazione edificante e liberatoria della nonna, grande ammiratrice di George Sand e che faceva consistere la virtù nella nobiltà dell’animo, vuoi del mio influsso corruttore era, adesso, molto indulgente nei confronti di certe donne la cui condotta, un tempo, e anche oggi, avrebbe giudicato molto severamente se fossero state le sue amiche borghesi di Parigi o di Combray, ma di cui io le vantavo l’animo nobile e alle quali perdonava parecchio perché mi volevano bene.
Malgrado tutto, e anche a prescindere dalle convenienze, credo che Albertine sarebbe stata insopportabile alla mamma, che aveva serbato abitudini di ordine che le venivano da Combray, da zia Léonie e da tutte le sue parenti, e di cui la mia amica non aveva la benché minima nozione. Ad Albertine non sarebbe mai venuto in mente di chiudere una porta, né, d’altra parte, si sarebbe fatta scrupolo a entrare, trovandone una aperta, più di quanto non farebbe un cane o un gatto. Il suo fascino, un po’ indiscreto, era appunto quello di abitare in casa nostra non tanto come una ragazza quanto come un animale domestico che entra ed esce da una stanza, che si trova dove meno lo si aspetta, pronto a venire ad accucciarsi — e per me era un riposo profondo — sul mio letto, accanto a me, scavandosi un posticino dal quale non si muoveva più, senza dare alcun fastidio, come invece avrebbe fatto una persona. Tuttavia, finì coll’adattarsi alle mie ore di sonno, e ad astenersi non soltanto dall’entrare nella mia stanza ma dal far rumore prima che io avessi suonato. Fu Françoise a imporle queste regole. Françoise era una di quelle domestiche di Combray che conoscono il valore del loro padrone, e il meno che possono fare è quello di far rispettare ciò che ritengono gli sia dovuto. Quando un visitatore non abituale le dava una mancia da dividere con la sguattera, non faceva a tempo a consegnargliela che già Françoise con rapidità, discrezione e altrettanta energia aveva indottrinato la ragazza, la quale veniva a ringraziare il donatore, non a mezze parole, ma espressamente, a voce alta, come Françoise le aveva detto che bisognava fare. Il curato di Combray non era un genio, ma anche lui sapeva il fatto suo. Sotto la sua guida la figlia di certi cugini protestanti di Madame Sazerat si era convertita al cattolicesimo e la famiglia si era comportata con lui in maniera ineccepibile. Per la ragazza si.parlò, poi, di matrimonio con un nobile di Méséglise. I genitori del giovane, per avere informazioni, scrissero una lettura piuttosto altezzosa dove venivano considerate con disprezzo le origini protestanti della ragazza. Il curato di Combray rispose in termini tali che il nobile di Méséglise, sottomesso e umiliato, scrisse una seconda lettera di tono ben diverso, dove sollecitava come il più prezioso dei favori, l’unione con la fanciulla.
Françoise non ebbe merito a far rispettare ad Albertine il mio sonno. Era imbevuta di tradizione. Da un suo silenzio, o da una sua risposta perentoria alla richiesta di entrare in camera mia o di chiedermi qualcosa, che Albertina doveva aver formulato innocentemente, quest’ultima capì con stupore di trovarsi in un mondo strano, dalle usanze sconosciute, regolato da leggi di vita che era impossibile pensare di infrangere. Albertine ne aveva già avuto un primo sentore a Balbec, ma a Parigi non tentò nemmeno di resistervi e attese pazientemente, ogni mattina, lo squillo del mio campanello per arrischiarsi a fare rumore.
L’educazione che le impartì Françoise, d’altronde, fu salutare anche alla nostra vecchia domestica riuscendo a poco a poco a calmarne i lamenti cui, dal ritorno da Balbec, non cessava di dar sfogo. Infatti, al momento di salire sul treno, Françoise si era accorta di aver dimenticato di salutare la «governante» dell’albergo, una donna baffuta addetta alla sorveglianza dei piani, di cui non era particolarmente amica, ma che si era mostrata abbastanza gentile con lei. Françoise voleva assolutamente tornare indietro, scendere dal treno, raggiungere l’albergo, salutare la governante e ripartire soltanto l’indomani. La saggezza, ma soprattutto il mio improvviso orrore per Balbec, mi impedirono di concederle questa grazia, ma lei ne aveva riportato un malumore morboso e febbrile che nemmeno il cambiamento d’aria era valso a far sparire e perdurava anche a Parigi. Infatti, secondo il codice di Françoise, così come è anche illustrato hei bassorilievi di Saint-André- des-Champs, desiderare la morte di un nemico, magari anche infliggergliela, non è proibito, ma è orribile non fare ciò che si deve, non ricambiare una cortesia, non prendere commiato, come una vera cafona, da una cameriera del piano prima di partire. Lungo tutto il tragitto, il ricordo, continuamente rinnovato, di non aver preso congedo da quella donna aveva fatto salire alle guance di Françoise un rossore da far spavento. E se rifiutò, fino a Parigi, di bere e di mangiare, più che per punirci fu forse perché quel ricordo le metteva un « peso » reale « sullo stomaco » (ogni classe sociale ha la sua patologia).
Tra i motivi che inducevano la mamma a mandarmi ogni giorno una lettera, e una lettera da cui non era mai assente qualche citazione di Madame de Sévigné, c’era il ricordo della nonna. La mamma mi scriveva: «Madame Sazerat ha dato per noi una di quelle colazioni di cui lei possiede il segreto e che, come avrebbe detto la tua povera nonna citando Madame de Sévigné, ci sottraggono alla solitudine senza darci il conforto della compagnia». In una delle mie prime risposte ebbi la dabbenaggine di scriverle: «Da queste citazioni tua madre ti riconoscerebbe immediatamente», il che mi valse, tre giorni dopo, la seguente battuta: «Mio povero ragazzo, se volevi parlarmi di mia madre, invochi proprio a sproposito Madame de Sévigné. Essa ti avrebbe risposto come rispose a Madame de Grignan: “Non era dunque niente per voi? Vi credevo parenti” ».
Nel frattempo sentivo i passi della mia amica che usciva dalla sua camera o vi rientrava. Suonavo, perché era l’ora in cui Andrée sarebbe venuta con l’autista, amico di Morel e prestato dai Verdurin, a prenderla. Avevo accennato ad Albertine alla lontana possibilità di sposarci, senza dirglielo però in maniera formale; lei stessa, per discrezione, quando avevo detto: « Non so, forse sarebbe possibile», aveva scosso la testa con un sorriso malinconico, dicendo: « Ma no, non lo sarebbe », il che significava: « sono troppo povera ». E allora, pur aggiungendo ogni volta che si parlava di progetti futuri: «Niente è sicuro», adesso facevo di tutto per distrarla e renderle la vita piacevole, cercando forse anche, inconsciamente, di indurla così a desiderare di sposarmi. Lei stessa rideva di tutto quel lusso. «Chissà che faccia farebbe la mamma di Andrée al vedermi diventata una signora ricca come lei, quella che lei dice una signora che ha “cavalli, carrozze e quadri!” Come, non vi ho mai raccontato che diceva così? Oh! è un tipo! Quello che mi stupisce è che innalzi i quadri alla dignità dei cavalli e delle carrozze. »
Vedremo più avanti che, malgrado le fossero rimaste certe abitudini di esprimersi in maniera sciocca, Albertine si era sorprendentemente evoluta. Il che mi era del tutto indifferente, in quanto le doti intellettuali di una donna mi avevano sempre interessato assai poco. Forse solo il bizzarro genio di Céleste3 mi avrebbe sedotto. Non potevo fare a meno di sorridere, mio malgrado, quando, per esempio, sapendo che Albertine non era in casa, Céleste ne approfittava per apostrofarmi in questo modo: « Divinità del cielo posata su un letto! » Io le dicevo: « Ma, andiamo, Céleste, perché “divinità del cielo”? » « Oh! se credete di assomigliare a coloro che viaggiano sulla nostra vile terra, vi sbagliate di grosso! » « Ma perché “posato su un letto?” Non vedete che sono coricato?» «Voi non siete mai coricato. Si è mai visto qualcuno coricato così? Voi siete venuto a posarvi lì. Con questo vostro pigiama tutto bianco e quei movimenti che fate con il collo in questo momento sembrate una colomba. »
Albertine ora, anche quando parlava di cose futili, si esprimeva in maniera ben diversa dalla ragazzina che era, solo qualche anno fa, a Balbec. Arrivava persino a dichiarare, a proposito di un avvenimento politico che disapprovava: « Lo trovo terribile! », e non so se fu circa in quel periodo che imparò a dire, per indicare che un libro era mal scritto: « È interessante, ma è scritto coi piedi ».
La proibizione di entrare in camera mia prima che avessi suonato la divertiva molto. Siccome aveva assimilato la nostra abitudine familiare alle citazioni, e utilizzava da parte sua quelle dei drammi che aveva recitato in collegio e che le avevo detto che mi piacevano, mi paragonava sempre ad Assuero:
E la morte è il prezzo di ogni audace
Che, senza esser chiamato, si presenta ai suoi occhi.
Nulla mette al riparo da quest’ordin...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Premessa La prigioniera
  5. Bibliografia
  6. La prigioniera
  7. Note
  8. Sommario