Il grande dandy
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Il grande dandy

Vita spericolata di Raimondo Lanza di Trabia, ultimo principe siciliano

  1. 216 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il grande dandy

Vita spericolata di Raimondo Lanza di Trabia, ultimo principe siciliano

Informazioni su questo libro

"Ha il cilindro per cappello, due diamanti per gemelli, un bastone di cristallo, la gardenia nell'occhiello, e sul candido gilet un papillon di seta blu": con queste parole in Vecchio frac, una delle sue canzoni più famose, Domenico Modugno nel 1955 ricorderà con commozione, un anno dopo la scomparsa, il leggendario principe siciliano Raimondo Lanza di Trabia. Misterioso tombeur de femmes, personaggio fascinoso e brillante, doppiogiochista imprevedibile, il principe e la sua fulminea vicenda si perdono sfuggenti tra le pieghe reali e fantastiche della storia del Novecento italiano, e non solo. Ma il suo alone mitico non accenna a dissolversi. È possibile che un uomo solo sia stato fi danzato di Susanna Agnelli, amante di Joan Crawford, amico forse più che intimo di Edda Ciano e Rita Hayworth, a lungo frequentatore di Gianni Agnelli, Ranieri di Monaco, Aristotele Onassis e dello scià Reza Pahlavi, ma anche presidente del Palermo Calcio e inventore del calciomercato, corridore automobilistico e protagonista del rilancio della Targa Florio, spia fascista durante la guerra civile spagnola e mediatore con i partigiani nella Roma "città aperta" del '43? Marcello Sorgi, con l'accuratezza e il gusto per la narrazione che lo contraddistinguono, ci restituisce il ritratto eccentrico dell'ultimo, grandioso Gattopardo, in bilico tra stravaganze dannunziane e debolezze brancatiane, le suggestioni della fine di una grande dinastia e di un castello che era la sua reggia, le imprese indimenticabili della "vita breve e avventurosa di un dandy, atteso all'incrocio di tutti i grandi eventi del suo tempo".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
Print ISBN
9788817048255
eBook ISBN
9788858616680
XVI
Il volo più lungo
Olga Villi non riusciva a star dietro a quell’indemoniato che non trovava mai pace, notte e giorno. Ma era completamente pazza di lui. Adorava tutto di Raimondo: il suo modo di arrivare a tarda sera all’uscita del teatro lasciando la Cisitalia scappottata al centro della strada, la voce tonante con cui la chiamava, incurante di tutti gli altri, le sue camicie di seta sempre candide, sempre appena stirate, i suoi corruschi, la sua insofferenza. Raimondo era come un temporale infinito, i lampi e i tuoni, il sole e le nubi, il caldo e il freddo, la solitudine e la compagnia sembravano dipendere solo da lui.
Mantovana di Suzzara, giovanissima attrice di successo accanto ai grandi nomi del suo tempo – Paolo Stoppa, Rina Morelli, Macario, Anna Magnani, Gino Cervi –, Olga Villi, salita sul palcoscenico da ragazza, era considerata bravissima. Era passata presto dal teatro di rivista al classico, ed era stata particolarmente apprezzata in un’Antigone di Jean Anouilh. Con Cervi e sotto la regia di Luigi Squarzina, prima di approdare al cinema, aveva recitato anche Shakespeare e Pirandello.
Tendenzialmente, quando poteva, preferiva stare con lui che non essere trascinata negli interminabili ambaradam in cui Raimondo amava cacciarsi. A volte usciva sfinita e affamata dal teatro e non sopportava neppure l’idea di cercare un ristorante: aveva solo voglia di casa. Il lavoro non le consentiva di seguirlo sempre nell’incessante serie di viaggi che ritmavano la sua esistenza: lo vedeva partire e arrivare, senza sapere per dove e da dove, si svegliava nel mezzo della notte quando lui la chiamava per dirle che non sarebbe tornato. Avrebbe avuto mille ragioni di essere gelosa di quest’uomo misterioso, sfuggente, esaltato, ma non lo era. Si sentiva molto amata e lo amava, anche senza comprenderlo fino in fondo.
Nella primavera del 1952 Raimondo le aveva proposto un viaggio in Persia. Era stato invitato dallo Scià Reza Pahlavi a una battuta di caccia alla tigre. Lo Scià e la moglie Soraya formavano allora una delle coppie più famose nell’esclusivo mondo cosmopolita che si dava appuntamento in Costa Azzurra. Dittatore e padrone del suo paese, lo Scià doveva le sue alterne fortune ai suoi rapporti con gli inglesi e la British Petroleum, presenti sul territorio persiano ricco di giacimenti petroliferi. Quando le cose andavano bene, faceva quel che voleva. Di tanto in tanto, però, gli toccava essere esiliato, per poi venire riammesso quando le sue relazioni con il Regno Unito miglioravano. Aveva così vissuto a lungo a Parigi e a Roma, con la moglie Soraya, bella e invidiata. E aveva stretto molte amicizie, tra cui quella con Raimondo.
Anche Soraya era molto legata all’Italia. Figlia di un capotribù persiano e di una donna tedesca, era dotata di una bellezza meticcia che la faceva assomigliare a Ingrid Bergman. Si comportava come una regina mediterranea, ma era sterile e dopo un po’ il non riuscire a dare un erede al marito le sarebbe costato il ripudio da parte dello Scià. S’era così trasferita a Roma tentando senza successo la carriera di attrice a Cinecittà.
Raimondo aveva spiegato a Olga che il viaggio a Teheran non sarebbe stato solo una vacanza. Il principe sognava di coinvolgere lo Scià nel suo progetto petrolifero siciliano. Non era chiaro cosa avrebbe dovuto convincere Reza Pahlavi, che di petrolio ne aveva in casa più di quel che gli serviva, a spostarsi in Sicilia. Ma Raimondo era così convinto dei suoi piani che non se ne curava.
Con Olga, in Persia, erano state giornate memorabili. Ricevuti nel palazzo dello Scià amichevolmente, ma con lo straordinario cerimoniale riservato alle visite dei reali, si erano ritrovati avvolti in un’atmosfera orientale che a Raimondo risultava familiare. Olga si era divertita a notare quanto lui stesse attento a studiare abitudini e formalità della reggia, e quanto approfonditamente avesse discusso in inglese con lo Scià sull’islam e sugli ayatollah che presto si sarebbero impadroniti del paese.
Il principe ebbe modo di farsi notare anche durante la battuta di caccia alla tigre organizzata in suo onore. Viaggiava su una jeep, accompagnato da due esperti cacciatori. A un certo punto l’auto si fermò, i cacciatori mirarono e spararono a due belve enormi, una delle quali, colpita alla testa, si accasciò, mentre l’altra pareva in agonia. Raimondo imbracciò il fucile e senza chiedere il permesso ai suoi accompagnatori scese dalla macchina, si avvicinò alla tigre e invece di finirla cominciò a contemplarla, finché l’animale, con un sussulto vitale, si rialzò. I due spaventati sudditi dello Scià non sapevano cosa fare. Non potevano sparare, perché il principe si trovava nella traiettoria tra la jeep e la tigre che si preparava all’assalto. Non volevano urlare, per paura di provocarla. Assistettero così a una scena che sembrava tratta da un film western. Con calma studiata Raimondo premette il grilletto e piazzò una pallottola proprio in mezzo agli occhi dell’animale. Poi lestamente risalì in macchina. La jeep nel frattempo era stata circondata da un branco che fu abbattuto dai cacciatori persiani con una rapida sequenza di colpi, di modo che alla fine le tigri rimaste per terra furono sei. Al ritorno il principe raccontò allo Scià di non essersi mai divertito tanto. Le trattative sul petrolio siciliano passarono in secondo piano.
Olga non era riuscita a capire perché Raimondo, che sembrava così impegnato con il calcio, fosse uscito da quel mondo improvvisamente, poco dopo il suo rientro in Sicilia dalla Persia. Alla fine di giugno 1952, dopo due sole stagioni e due campionati, il principe aveva annunciato di voler lasciare la presidenza del Palermo. Decisione inattesa e irrevocabile, presa d’impeto, al punto che Raimondo restava proprietario di un calciatore, Martegani, che aveva comperato pagandolo di tasca sua, e non aveva fatto in tempo a rivendere.
Ai vertici della squadra il dispiacere era forte. Con l’uscita del principe, cadevano le speranze di giocare nell’Olimpo dei grandi club che si contendevano i titoli, e si riapriva per il Palermo un orizzonte di mediocrità. La stessa scelta del successore di Raimondo si presentava controversa. Si era proposto il barone Arcangelo Alù, un aristocratico di seconda fila, conosciuto per il suo cattivo carattere e inadeguato al ruolo. Raimondo aveva organizzato le cose in modo che il consiglio di amministrazione del Palermo si riunisse prima che Alù potesse avanzare la sua candidatura. La mattina del consiglio, nella sede della società, Alù era presente e pronto a farsi avanti, quando un usciere gli si avvicinò per avvertirlo che lo cercavano da un ospedale perché suo figlio aveva avuto un incidente. Il barone corse via in preda all’ansia e dopo una serie di peripezie trovò il ragazzo a casa, tranquillo e in compagnia di amici. Realizzando di essere stato preso in giro, tornò indietro furioso nella sede del Palermo, ma trovò i giochi fatti. Raimondo non aveva previsto una reazione così dura del barone. Ma Alù non volle sentire scuse e lo sfidò a duello. Anche se gli amici gli consigliavano di sorvolare e rifiutare, tanto tutto si sarebbe aggiustato, il principe era stato subito attratto dall’idea di battersi e aveva accettato.
Erano anni e anni che non si teneva una sfida del genere a Palermo. Fu necessario trovare i padrini e un arbitro, anzi un «direttore del duello», come si chiamava nell’Ottocento. I due gentiluomini dovevano battersi con la spada «al primo sangue»: non si sarebbe trattato di una sfida mortale, ma di lavare l’offesa. E per lasciare ai due la possibilità di ripensarci, l’appuntamento era stato fissato dopo due settimane.
Nei giorni che lo separavano dal duello, Raimondo si era rinchiuso nel castello, convocando un maestro di scherma e dando disposizioni a Zizzo di assisterlo, di curare la sua alimentazione ed evitare nel modo più assoluto di farlo bere. Inutile dire che queste stesse disposizioni, la prima sera al castello, già venivano contraddette. Ma Zizzo, preoccupato dell’incoscienza del principe, era stato fermissimo, lasciando che i suoi insulti si perdessero nell’aria, e facendo sparire in un magazzino lontano l’immancabile scorta di whisky del castello.
Ai primi di settembre Raimondo era arrivato così all’appuntamento sul campo in perfette condizioni fisiche e atletiche. Combatté a torso nudo e mise a segno ben trentatré assalti, fino a che, graffiato su una spalla, il barone Alù fu dichiarato sconfitto e la lite ricomposta con una ricca cena al ristorante. La notizia del duello intanto aveva fatto il giro d’Italia: la «Domenica del Corriere», il più diffuso settimanale popolare, vi dedicò un’intera copertina a colori disegnata da Walter Molino, il re degli illustratori.
Superata la sfida, Raimondo era ripiombato nell’abulia. La volubilità, l’alternarsi di entusiasmo e cupezze, il suo continuo oscillare tra stati di eccitazione seguiti da disillusione, cominciavano seriamente a preoccupare i suoi familiari. Galvano ne aveva parlato alla madre, che per la prima volta in tanti anni, e solo dopo la scomparsa della principessa, era tornata a Palermo, fermandosi a Terre Rosse. Pur essendosi allentati da quando il figlio ragazzino era rimasto a vivere a Palermo, i rapporti di Madda con Raimondo non s’erano mai interrotti del tutto. Seguivano piuttosto l’avventuroso saliscendi della vita del principe e passavano per lunghi periodi di silenzio e improvvisi ritrovamenti. Madda, vivendo lontana, aveva continuato a mantenere un rapporto più stabile con il secondogenito, che la teneva informata come poteva delle imprendibili evoluzioni esistenziali di Raimondo. Se adesso aveva deciso di venire a constatare di persona l’effettivo stato di salute del figlio, era perché il suo istinto di madre le diceva che era meglio così. Raimondo però si faceva vedere poco, preferiva stare rintanato al castello, uscendone di tanto in tanto solo per dar sfogo alle sue bizzarrìe. Come quella sera in cui aveva organizzato un gran pranzo a Palazzo Butera per tutti i calciatori del Palermo, e alla fine aveva convinto Bronée a palleggiare nei saloni in cui la nonna aveva ricevuto i reali di mezza Europa.
Dai camerieri che lo accudivano, Galvano veniva a sapere che Raimondo beveva molto e, troppo spesso ubriaco, era diventato intrattabile. Si addormentava vestito. Poi si svegliava nel cuore della notte e spariva. La mattina dopo lo ritrovavano per casa completamente sfatto.
Aveva fatto ancora parlare di sé nel novembre del 1953, al matrimonio di Gianni Agnelli e Marella Caracciolo di Castagneto a Strasburgo. Era partito in macchina da Milano, correndo nella nebbia e rischiando due volte di finire fuori strada. Ed era arrivato all’alba, stravolto, cercando una stanza, ma senza fortuna. L’albergo riservato agli ospiti era al completo. Allora era andato a bussare alla porta della contessa Carla Colli da Felizzano, che aveva il compito di ricevere gli invitati e indirizzarli alla cerimonia. La povera contessa non sapeva come comportarsi, Raimondo s’era gettato sul suo letto e s’era addormentato. Richiamata dai suoi impegni, lo aveva lasciato lì. Ma il telefono, nella sua stanza, continuava a trillare perché tutti la cercavano, il fioraio, gli addetti al rinfresco, i fotografi, il maître. Disturbato dalle continue chiamate, Raimondo aveva pregato il portiere dell’albergo di non passargli più telefonate: «A quelli che la vogliono, dica che la contessa Colli è morta improvvisamente. Io sono lo zio, venuto per organizzare i funerali». Così almeno aveva potuto riposare due ore, mentre tutti gli ospiti commentavano costernati quel lutto proprio il giorno del matrimonio.
Intanto i guai economico-finanziari di Casa Lanza aumentavano. Galvano aveva potuto far fronte alle banche che premevano per la restituzione degli ingenti prestiti dati a sostegno delle miniere solo grazie all’aiuto di Agnelli. Un giro di cambiali pesantissime, da quaranta e cinquanta milioni di lire del tempo, andava e tornava da Torino a Palermo. Il giovane Lanza, ormai al tracollo, non era in grado di restituirne all’amico neppure una minima parte.
Nei momenti in cui non si abbandonava alla depressione, Raimondo continuava a sfornare strani progetti, ora un’industria ultramoderna per conciare le pelli dei tonni, ora di nuovo il petrolio siciliano. Ma il suo modo di occuparsene era intermittente, e il suo tenore di vita si manteneva esagerato, malgrado le crescenti difficoltà familiari. Continuava a viaggiare frequentando i migliori alberghi e incaricando gli addetti al ricevimento di inviare i conti alla «stimatissima» (così venivano indirizzati) Amministrazione della Casa Lanza di Trabia e Butera, che cominciava a ritardare vergognosamente i pagamenti.
Raimondo se ne fregava. Nello stesso periodo le annotazioni della ragioneria di famiglia rivelavano che nel giro di pochi mesi aveva ordinato a Roma «un’Alfa Romeo 2500 Blu Francia per la somma di 3 milioni 750mila lire», e da Franceschini in via Condotti, uno dei più eleganti negozi di abbigliamento della Capitale, «quattro camicie pongee, quattro da smoking, cinque Oxford, quattro popeline, due zephir, quindici fazzoletti, una cravatta smoking, per un totale di 192mila lire». Erano spese ordinarie per uno come lui, impegnato ogni giorno in feste e doveri di rappresentanza. Ma semplicemente, non poteva più permettersele.
Non accettava il brusco mutamento della sua situazione economica. Non voleva neppure sentirne parlare. Aveva preso a parolacce l’amministratore di casa, quando si era permesso di informarlo che a un anno dalla scomparsa della principessa il patrimonio familiare era stato depauperato di un miliardo, una cifra incredibile per il tempo e più o meno equivalente alla dote portata dalla nonna: la somma che aveva consentito di prolungare di cinquant’anni la grandeur dei Lanza era stata dissipata da Raimondo in dodici mesi.
Una volta aveva mandato a quel paese Galvano che, non sapendo più come onorare le cambiali e non volendo insistere con l’amico, gli aveva chiesto di parlarne lui ad Agnelli. Si ostinava a non prendere atto che i feudi, occupati dai contadini, ormai erano da considerarsi perduti. Telefonava a Genco Russo, il mafioso a cui faceva capo l’azienda agricola più importante, in contrada Polizzello, lo convocava al castello, aspettandolo sul terrazzo, al tramonto, fumando assorto nei suoi pensieri e inebriato dal suono di un grammofono ad alto volume. Il boss mafioso lo ascoltava sfogarsi in silenzio, con un’espressione impassibile sul volto. Ma non appena accennava a interloquire, il principe lo tacitava, brusco: «Insomma, hai capito. Pensaci tu».
Nel bel mezzo di questo terremoto aveva pure deciso di sposarsi. Olga era incinta e stava per nascere la figlia Venturella, un nome così carico di speranze. Pur riservato, praticamente senza invitati, tranne l’editore Dino Fabbri e il suo autista, che facevano da testimoni, il matrimonio, celebrato a Milano il 27 gennaio del 1954, era stato come una boccata d’aria, un raggio di sole nel grigiore di un inverno terribile. Raimondo, alla romana, ripeteva che «i figli portano la pagnotta», come a dire che l’arrivo della bambina era un segno di fortuna.
Poi in primavera a Capri, dopo la nascita di Venturella, lui e Olga erano stati ospiti dell’armatore Aristotele Onassis a bordo del suo panfilo Christina. Giornate felici, sembrava di essere tornati ai vecchi tempi. Il miliardario greco amava festeggiare con gli amici fino a tardi, e durante la crociera Raimondo aveva trovato il modo di proporre anche a lui il progetto del petrolio siciliano. Onassis non s’era sbilanciato, ma aveva accettato l’invito del principe al castello per l’estate successiva.
I preparativi per riceverlo somigliavano a quelli in uso a Palazzo Butera a inizio secolo. Il vecchio personale era stato mobilitato al completo: maggiordomi, cuochi, camerieri, mancava solo Maria la Francese che intanto era morta. Raimondo si dedicava personalmente anche ai dettagli. Quell’estate non s’era praticamente mosso dal castello. Era solo andato a luglio a Nuova Delhi, per una battuta di caccia grossa organizzata da un maharaja indiano.
L’attesa sagoma del Christina si materializzò davanti al terrazzo del castello il pomeriggio del 1° settembre. Aristotele e Athina Onassis ebbero la sensazione di sbarcare in un paradiso. Tutto era a posto: il giardino, le luci, i fuochi pirotecnici preparati per accoglierli e un pranzo siciliano a base di pasta con broccoli e involtini di sarde che l’ospite aveva molto apprezzato. La sera, quando tutti s’erano ormai ritirati, il principe e l’armatore erano rimasti a conversare sul terrazzo, sotto il cielo stellato. Onassis sembrava deliziato. Beveva e fumava, usando il famoso portacenere ricavato dalla testa del pescecane accoltellato da Raimondo.
Nei tre giorni successivi i greci erano stati sottoposti a un soffocante programma di impegni. Palermo era bellissima, nel suo clima settembrino. Terre Rosse e il Palazzo Butera illuminati per riceverli, la nobiltà siciliana in fila per conoscerli e omaggiarli. L’ultimo giorno Onassis era stato portato allo Steri, l’antica sede dell’Inquisizione in cui le esecuzioni dei condannati a morte venivano compiute per precipitazione, lanciandoli dal tetto del palazzo. Ne rimase affascinato. L’indomani il Christina mollò gli ormeggi con a bordo anche Raimondo e Olga, che rimasero due giorni in crociera prima di sbarcare a Taormina. Con Athina e Aristotele si salutarono affettuosamente, da amici. Raimondo si chiedeva se la visita in Sicilia avesse solo incuriosito Onassis o se potesse sperare anche di averlo conquistato come socio.
La mattina prima della partenza per la crociera aveva chiesto a Zizzo se gli piacesse il Christina. Era dai tempi della visita del Kaiser, agli inizi del Novecento, che a Palermo non si vedeva uno yacht grande come una nave. Zizzo gli aveva risposto con senso della misura: «’Un su’ cosi pi nuatri», non è roba per noi. E il principe: «Se tutto andrà in un certo modo, l’anno prossimo ne avremo una più bella!». Si illudeva, sognava, era pieno di sé.
In Sicilia c’è un piccolo paese, Piana degli Albanesi, abitato da una colonia storica di immigrati dall’Albania che professano il rito ortodosso. L’insediamento di questa piccola comunità, che pregava attorno a preti barbuti e per fare la comunione usava il pane e non l’ostia, aveva fatto sorgere una tale diffidenza tra i siciliani delle campagne limitrofe che ne era nato un proverbio: «Si viri un lupu e un grecu, lassa ’u lupu e spara ’u grecu». Di educazione cosmopolita, abituato a conoscere e frequentare gente di tutto il mondo e a non sentirsi mai straniero, Raimondo si era dimenticato di quello strano detto. Se ne ricordò quando ricevette la lettera di Onassis che lo ringraziava per la grandiosa ospitalità al castello e a Palermo, ma declinava l’invito a investire in Sicilia.
Forse fu proprio in quel momento che il principe pensò davvero che fosse finita. Non aveva mai voluto credere che un’immensa fortuna come quella dei Lanza potesse esaurirsi, ma adesso, caduta ogni speranza di sorreggerla e di prolungarla, doveva rendersi conto della realtà. Si era ritirato al castello. Zizzo, vedendolo abbrutito, silenzioso, sempre ubriaco, gli occhi iniettati di fuoco e la sigaretta eternamente accesa, lo sorvegliava da vicino. Si rifiutava di rispondere al telefono anche alla moglie, che da Milano, dov’era impegnata in teatro, lo chiamava tutti i giorni. Una sera chiese di essere accompagnato a Palermo, non era in condizione di guidare. Lo portarono a Terre Rosse e i parenti, a vederlo, si spaventarono. In pochi giorni era diventato l’ombra di se stesso. Urlava, sbatteva le porte, ascoltava musica a un volume impossibile, come se volesse stordirsi. Non parlava più con nessuno. Olga intanto s’era accorta di essere di nuovo incinta e non sapeva come dirglielo.
Sebbene sconsigliate, lei e Venturella arrivarono a Palermo. Inutilmente, Raimondo non aveva voluto vederle e Galvano aveva preso la scusa che non fosse prudente incontrarlo perché aveva la varicella. Olga aveva potuto così salutarlo solo prima di ripartire, dal giardino di Terre Rosse, mentre Raimondo si affacciava a una finestra. Si erano urlati da lontano: «Come stai?». «Non preoccuparti.» Ma il suo sguardo non era affatto rassicurante.
Alla fine era toccato a Madda convincere il figlio a lasciarsi curare. «È inutile, è tutto inutile» continuava a ripeterle Raimondo, che tuttavia aveva accettato di farsi visitare da un vecchio amico neurologo a Roma. Arrivarono con Galvano nella Capitale di prima mattina, il 30 novembre. Non volendo presentarsi in quelle condizioni al Grand Hotel, puntarono all’Eden, in via Ludovisi, dove trovarono il proprietario, Oscar Wirth, ad attenderli al portone. Furono sistemati rapidamente al secondo piano in due stanze comunicanti, la 238 e la 240. Un minuto dopo Raimondo, davanti al fratello, si spogliò nudo e si gettò sul letto.
L’amico specialista era stato prudente. Prima di visitarlo, lo aveva tranquillizzato, chiacchierando e tornando ai ricordi della loro adolescenza. Poi, con domande precise, aveva cominciato a indagare...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Introduzione
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. XII
  17. XIII
  18. XIV
  19. XV
  20. XVI
  21. Note