Alla ricerca del tempo perduto. All'ombra delle fanciulle in fiore - vol. 2
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Alla ricerca del tempo perduto. All'ombra delle fanciulle in fiore - vol. 2

  1. 300 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Alla ricerca del tempo perduto. All'ombra delle fanciulle in fiore - vol. 2

Informazioni su questo libro

"Ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L'opera è solo una sorta di strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscimento dentro di sé, da parte del lettore, di ciò che il libro dice, è la prova della sua verità." Ben presto il lettore scoprirà che quest'opera è pura verità. La nostra adolescenza, la trama e l'ordito dei nostri amori e delle nostre frustrazioni, i fantasmi delle persone e gli abbagli di felicità e tristezza, sono nelle mani di quanti abbiamo incontrato, travisato, ricordato e dimenticato, rievocato e poi reincontrato, sempre diversi, nel cammino verso un chiarimento disperato della realtà; nelle mani di Gilberte e Albertine, personaggi che, una volta letti, non potremo mai dimenticare. Servirà a tante cose la lettura di questo libro, ma anche a guarire delle angosce adolescenziali ancora dentro di noi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
eBook ISBN
9788858610169
ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE
PARTE PRIMA
INTORNO A MADAME SWANN
Colpo di timone e cambiamento di rotta nei caratteri — Il marchese di Norpois — Bergotte — Come smetto di vedere momentaneamente Gilberte; primo e lieve abbozzo del dolore che suscita una separazione e degli irregolari progressi dell’oblio.
Mia madre, quando si trattò di avere per la prima volta a pranzo M. de Norpois, siccome si rammaricava che il professor Cottard fosse in viaggio e lei stessa non frequentasse più del tutto Swann perché sia l’uno che l’altro avrebbero potuto suscitare l’interesse dell’ex ambasciatore, mio padre rispose che un ospite eminente, un illustre scienziato come Cottard non poteva mai sfigurare in un pranzo, ma Swann con il suo esibizionismo, con quella sua maniera di gridare ai quattro venti le relazioni anche più insignificanti, era un volgare sbruffone che il marchese di Norpois, secondo una sua tipica espressione, avrebbe trovato «pestifero». Ora questa risposta di mio padre richiede qualche parola di spiegazione perché alcuni ricorderanno forse un Cottard molto mediocre e uno Swann che in materia mondana era portato per delicatezza a una modestia e una discrezione quasi eccessiva. Ma per quest’ultimo era accaduto che alla personalità di Swann figlio o dello Swann del Jockey, il vecchio amico dei miei genitori ne avesse aggiunto una nuova (che non doveva essere l’ultima), quella di marito di Odette. Adattando alle modeste ambizioni di questa donna l’istinto, il desiderio, l’abilità che aveva sempre posseduto, si era ingegnato a costruirsi una nuova situazione, molto al di sotto della precedente e adeguata alla compagna che con lui l’avrebbe condivisa. E in questa nuova situazione Swann si rivelava diverso. Ora (pur continuando a frequentare da solo i propri amici ai quali non voleva imporre Odette se non quando erano loro a chiedergli spontaneamente di conoscerla), poiché era una seconda vita che iniziava in comune con sua moglie, in mezzo a persone nuove, sarebbe stato ancora possibile capire che per valutare il loro grado sociale e di conseguenza la soddisfazione di amor proprio che poteva provare a riceverli, si fosse servito come termine di paragone, non delle persone più brillanti che costituivano il suo ambiente prima del matrimonio, ma delle precedenti relazioni di Odette. Ma, anche quando si veniva a sapere che quelli con cui desiderava fare amicizia erano sciatti funzionari, donne corrotte, orpelli di balli di ministeri, si restava stupefatti nel sentirlo, lui che un tempo e, ancora oggi, dissimulava tanto amabilmente un invito di Twickenham o di Buckingam Palace, sbandierare ai quattro venti che la moglie di un sottocapo di gabinetto era venuta a far visita a Madame Swann. Si dirà, forse, che dipendeva dal fatto che la semplicità dello Swann elegante non era stata in lui che una forma più raffinata di vanità e che, come certi israeliti, il vecchio amico dei miei genitori era riuscito a rappresentare di volta in volta gli stadi successivi attraverso i quali erano passati quelli della sua razza, dallo snobismo più ingenuo e dalla più volgare cafonaggine alla più raffinata cortesia. Ma la ragione principale, e applicabile all’umanità in genere, stava nel fatto che le nostre stesse virtù non sono qualcosa di libero, di fluttuante di cui possiamo disporre permanentemente; esse finiscono per fondersi così strettamente nel nostro animo con le azioni, in occasione delle quali ci siamo fatti un dovere di esercitarle, che se si presenta per noi un’attività di altro ordine siamo colti alla sprovvista e nemmeno ci passa per la testa che potrebbe comportare la messa in pratica di quelle stesse virtù. Swann, tutto preso dalle sue nuove amicizie, fiero di poterle citare, era come quei grandi artisti modesti o generosi che, se alla fine della loro vita decidono di occuparsi di cucina o di giardinaggio, mostrano un’ingenua soddisfazione per le lodi che vengono tributate ai loro piatti o alle loro aiuole su cui non ammettono la critica che accettano invece di buon grado quando si tratta dei loro capolavori; o come altri che mentre son pronti a dare per niente una delle loro tele non possono perdere, in compenso, quaranta soldi al domino senza arrabbiarsi.
Quanto al professor Cottard, lo rivedremo a lungo, molto più avanti, in casa della Padrona, al castello della Raspelière. Al momento, per quanto lo riguarda è sufficiente far osservare che se per Swann, a rigore, il cambiamento può sorprendere perché si era compiuto senza che io ne avessi alcun sentore quando vedevo il padre di Gilberte agli Champs-Elysées, dove, tra l’altro, non rivolgendomi la parola non poteva far sfoggio davanti a me delle sue relazioni politiche (è vero che se anche l’avesse fatto, io forse non mi sarei subito accorto della sua vanità, perché l’idea che ci siamo fatta da tempo di una persona chiude gli occhi e ottura gli orecchi; mia madre per tre anni non notò affatto il rossetto che una delle sue nipoti si metteva sulle labbra quasi fosse stato invisibilmente disciolto in un liquido, fino al giorno in cui una particella supplementare, o qualche altra causa produsse il cosiddetto fenomeno della soprassaturazione; tutto il rossetto non notato cristallizzò, e mia madre di fronte a quell’improvvisa profusione di colori dichiarò, come si sarebbe fatto a Combray, che era una vergogna e interruppe quasi ogni rapporto con sua nipote.) Ma per Cottard, invece, l’epoca in cui lo si è visto assistere all’esordio di Swann, in casa Verdurin, era già abbastanza lontana; ora, gli onori e i titoli ufficiali vengono con gli anni. Inoltre si può essere illetterati, fare stupidi giochi di parole e possedere un dono particolare che nessuna cultura generale è in grado di supplire, come il dono del grande stratega o del grande clinico. In effetti, i colleghi di Cottard non lo consideravano soltanto un oscuro tirocinante divenuto con il tempo una notorietà europea. I più intelligenti tra i giovani medici dichiararono — almeno per alcuni anni, perché le mode cambiano nate come sono esse stesse dal bisogno di cambiamento —, che se mai si fossero ammalati, Cottard era il solo maestro a cui avrebbero affidato la propria pelle. Probabilmente avrebbero preferito frequentare certi primari più colti, più artisti con i quali poter parlare di Nietzsche, di Wagner. Quando si faceva musica in casa di Madame Cottard, le sere in cui riceveva gli allievi e i colleghi del marito nella speranza che diventasse un giorno preside della facoltà, lui, invece di stare ad ascoltare, preferiva giocare a carte in un salotto vicino, ma tutti vantavano l’immediatezza, la profondità, la sicurezza del suo occhio clinico e delle sue diagnosi. In terzo luogo, per quel che riguarda quell’insieme di atteggiamenti che il professor Cottard aveva con un uomo come mio padre, bisogna tener presente che la natura che riveliamo nella seconda parte della vita non è sempre, anche se spesso lo è, la nostra originaria natura, espressa o attenuata, arricchita o spenta, a volte è una natura opposta, un vero e proprio vestito rivoltato. Salvo dai Verdurin, che stravedevano per lui, l’aria esitante di Cottard, la sua timidezza, la cortesia eccessiva gli erano valse in gioventù continue prese in giro. Quale amico caritatevole gli consigliò un atteggiamento glaciale? L’importanza della sua posizione sociale gli rese più facile assumerla. Dovunque, salvo dai Verdurin, dove ridiventava istintivamente se stesso, prese a comportarsi con freddezza, se ne stava volentieri in silenzio, e quando parlava assumeva toni perentori, non tralasciando di dire cose sgradevoli.
Poté sperimentare questo nuovo contegno con quei clienti che, non avendolo ancora incontrato non erano nemmeno in grado di far paragoni e sarebbero stati stupiti di venire a sapere che non era un uomo per natura rude. Soprattutto si sforzava di costruirsi una maschera di impassibilità, e, anche durante il servizio in ospedale, quando se ne usciva con uno di quei suoi giochi di parole che facevano ridere tutti, dal primario all’ultimo degli esterni, lo faceva sempre senza muovere un muscolo della faccia, d’altronde irriconoscibile da quando si era rasato barba e baffi.
Diciamo per concludere chi era il marchese de Norpois. Era stato ministro plenipotenziario prima della guerra e ambasciatore all’epoca del 16 maggio, e, malgrado questo, con grande meraviglia di molti, incaricato più volte, in seguito, di rappresentare la Francia in missioni straordinarie — e anche come controllore del Debito in Egitto, dove, grazie alle sue grandi capacità finanziarie, aveva reso importanti servigi — da governi radicali che un semplice borghese reazionario si sarebbe rifiutato di servire, e ai quali il passato di M. de Norpois, i suoi legami, le sue opinioni avrebbero dovuto renderlo sospetto. Ma quei ministri dalle idee progressiste sembravano esser consapevoli che con una simile designazione dimostravano quale fosse la loro larghezza di idee quando erano in gioco gli interessi superiori della Francia, si mettevano al di sopra degli uomini politici meritando che il «Journal des Débats» li qualificasse uomini di Stato, e infine beneficiavano del prestigio legato a un nome aristocratico e dell’interesse che, quasi come un colpo di scena, risveglia una scelta inattesa. E sapevano anche che questi vantaggi potevano ottenerli facendo appello a M. de Norpois senza dover temere da parte sua la benché minima mancanza di lealtà al regime politico, mancanza contro la quale l’estrazione sociale del marchese doveva non metterli in guardia bensì garantirli. E in questo il governo della Repubblica non si ingannava. Innanzi tutto perché una certa aristocrazia, educata fin dall’infanzia a considerare il proprio nome come un vantaggio personale che niente può toglierle (e di cui i suoi pari, o coloro che sono di rango ancor più elevato conoscono abbastanza esattamente il valore), sa che può astenersi dal compiere, dato che non vi aggiungerebbero nulla, gli sforzi che compiono, senza alcun risultato ulteriore apprezzabile, tanti borghesi, unicamente per professare opinioni conformiste o frequentare esclusivamente dei benpensanti. In compenso, preoccupata di innalzarsi agli occhi delle famiglie principesche o ducali, al di sotto delle quali è immediatamente situata, questa aristocrazia è conscia di poterlo fare soltanto annettendo al proprio titolo ciò di cui essa difetta, ciò che, a parità di titolo, la farà prevalere: un’influenza politica, una notorietà artistica o letteraria, un grande patrimonio. E le attenzioni che si guarda bene dal rivolgere all’inutile nobilotto di campagna ricercato dai borghesi e della cui sterile amicizia un principe non gli sarebbe affatto grato, le prodigherà agli uomini politici, fossero anche massoni, ma gente in grado di aprire le porte delle ambasciate, o di dare un appoggio nelle elezioni, agli artisti o agli scienziati il cui favore aiuta a «sfondare» nel ramo in cui primeggiano, a tutti coloro insomma che sono in grado di conferire un nuovo lustro o di portare a buon fine un ricco matrimonio.
Ma per quel che riguarda M. de Norpois, restava soprattutto il fatto che, in una lunga pratica di diplomazia si era imbevuto di quello spirito negativo, abitudinario, conservatore, del così detto «spirito di governo» che è tipico di tutti i governi, e, in particolare, sotto tutti i governi, è tipico delle cancellerie. Aveva attinto dalla Carriera l’avversione, il timore e il disprezzo di quei metodi più o meno rivoluzionari, e comunque scorretti, che sono i metodi dell’opposizione. Salvo in alcuni illetterati del popolo come delle classi alte, per cui la differenza dei generi è lettera morta, ciò che avvicina non è la comunanza delle opinioni ma l’affinità degli spiriti. Un accademico del genere di Legouvé e che fosse un sostenitore dei classici avrebbe applaudito più volentieri l’elogio di Victor Hugo fatto da Maxime Du Camp o da Mézières, che non quello di Boileau fatto da Claudel. Un identico nazionalismo basta ad avvicinare Barrès ai suoi elettori che non devono fare grande differenza fra lui e Georges Berry, ma non a quei suoi colleghi dell’Accademia che, avendo le sue stesse opinioni politiche ma un altro genere di spirito, gli preferiranno perfino avversari come Ribot e Deschanel, cui, a loro volta, da fedeli monarchici, si sentono più vicini, che non a Maurras e a Léon Daudet i quali per altro si augurano anche essi il ritorno del re. Avaro di parole, non soltanto per abitudine professionale di prudenza e riservatezza, ma anche perché le parole hanno maggior valore, offrono più sfumature agli occhi di uomini, i cui sforzi di decenni per riavvicinare due paesi si riassumono, si traducono — in un discorso, in un protocollo — in un semplice aggettivo, in apparenza banale ma in cui essi vedono tutto un mondo, M. de Norpois passava per essere un uomo di grande freddezza alla Commissione dove sedeva accanto a mio padre con il quale tutti si congratulavano per la amicizia che gli dimostrava l’ex ambasciatore. Mio padre, per primo, se ne meravigliava. Perché essendo poco socievole, all’infuori della cerchia dei propri intimi, era abituato a non vedersi cercare da nessuno e lo confessava con semplicità. Ma era consapevole che le manifestazioni di amicizia verso di lui da parte del diplomatico dipendevano da quell’ottica del tutto personale in cui ognuno si pone per decidere delle proprie simpatie, ottica dalla quale tutte le qualità intellettuali o la sensibilità di una persona non risulteranno per uno di noi che essa annoia o infastidisce una buona raccomandazione quanto la lealtà e l’allegria di un’altra che agli occhi di molti passerebbe per vuota, frivola e insulsa. «De Norpois mi ha invitato di nuovo a pranzo, è straordinario; alla Commissione dove non ha rapporti privati con nessuno sono tutti stupefatti. Sono sicuro che mi racconterà ancora qualche emozionante episodio della guerra del ’70.» Mio padre sapeva che M. de Norpois era stato forse il solo ad avvertire l’imperatore della crescente potenza e delle intenzioni bellicose della Prussia, e che Bismarck aveva per la sua intelligenza una stima particolare. Ancora recentemente, all’Opéra, durante la serata di gala offerta a re Teodosio, i giornali avevano notato il prolungato colloquio che il sovrano aveva concesso a M. de Norpois. «Vorrei sapere se quesita visita del re è veramente importante,» ci disse mio padre che si interessava molto di politica estera. «So bene che il vecchio Norpois è molto abbottonato, ma con me si confida, è così amabile.»
Quanto a mia madre, forse l’Ambasciatore non aveva in sé quel genere di intelligenza verso la quale si sentiva maggiormente attratta. E devo dire che la conversazione di M. de Norpois era un repertorio così completo di forme superate di linguaggio tipiche di una carriera, di una classe, di un’epoca — epoca che per quella carriera e per quella classe potrebbe anche non essere del tutto finita — che a volte mi pento di non aver tenuto a mente integralmente e così come li esponeva, i discorsi che gli ho sentito fare. Avrei ottenuto un effetto di démodé, con altrettanta facilità e allo stesso modo di quell’attore del Palais Royal che a chi gli domandava dove mai riuscisse à trovare i suoi straordinari cappelli rispondeva: «Io non trovo i miei cappelli. Li conservo». Insomma, credo che mia madre giudicasse M. de Norpois un po’ «vecchio stile», cosa che era lungi dall’apparirle spiacevole dal punto di vista dei modi, ma la seduceva meno nel campo, se non delle idee — perché quelle di M. de Norpois erano molto moderne — delle espressioni. Soltanto, intuiva che parlare al marito con ammirazione del diplomatico che gli attestava una predilezione tanto rara, voleva dire lusingarlo delicatamente. Rinforzando nell’animo di mio padre la buona opinione che aveva di M. de Norpois e di conseguenza inducendolo ad averne una buona anche di se stesso, mia madre aveva coscienza di compiere quello fra i suoi doveri che consisteva nel rendere piacevole la vita al proprio marito, così come faceva quando sorvegliava che la cucina fosse accurata e il servizio silenzioso. E siccome era incapace di mentire a mio padre, si imponeva di ammirare anche lei l’ambasciatore per poterlo lodare con sincerità. D’altronde istintivamente apprezzava la sua aria di bontà, la sua cortesia un po’ desueta (e così cerimoniosa che quando camminando diritto e impettito scorgeva mia madre passare in carrozza, prima di rivolgerle una scappellata, gettava via il sigaro appena cominciato), la sua conversazione così misurata durante la quale parlava di sé il meno possibile e teneva sempre in considerazione ciò che poteva riuscire gradito all’interlocutore, la puntualità talmente sorprendente nel rispondere a una lettera che quando, avendogliene appena spedita una, mio padre riconosceva la scrittura di M. de Norpois su una busta, il primo impulso era di credere che per cattiva sorte la loro corrispondenza si fosse incrociata: si sarebbe detto che esistessero per lui dei turni supplementari e privilegiati di distribuzione di posta. Mia madre si meravigliava che fosse così preciso nonostante fosse tanto occupato, così amabile nonostante dovesse dividersi tra tante persone, senza rendersi conto che i «nonostante» sono sempre dei «perché» misconosciuti e che (allo stesso modo che i vecchi sono sorprendenti per la loro età, i re pieni di semplicità e i provinciali al corrente di tutto) erano le stesse abitudini che permettevano a M. de Norpois di adempiere a tanti impegni e di essere puntuale nelle sue risposte, di piacere in società ed essere affabile con noi. Inoltre, l’errore di mia madre, come quello di tutte le persone troppo modeste, dipendeva dal fatto che lei situava le cose che la riguardavano al di sotto e di conseguenza al di fuori delle altre. La risposta che secondo lei l’amico di mio padre era stato tanto meritevole da inviarci rapidamente perché scriveva ogni giorno molte lettere, lei la isolava dal gran numero di lettere di cui quella non era che una, allo stesso modo come non considerava che un pranzo in casa nostra fosse per M. de Norpois uno degli innumerevoli impegni della sua vita sociale: non pensava che l’ambasciatore era stato abituato, un tempo, in diplomazia, a considerare i pranzi come facenti parte delle sue funzioni e a sciorinare in essi la sua grazia inveterata, alla quale sarebbe stato troppo chiedergli di rinunciare, in via eccezionale, quando veniva da noi.
La prima volta che M. de Norpois venne a pranzo a casa nostra, un anno in cui andavo ancora a giocare agli Champs-Elysées, mi è rimasta impressa nella memoria perché il pomeriggio di quello stesso giorno andai finalmente a sentire la Berma, alla matinée, in Phèdre, e anche perché chiacchierando con M. de Norpois mi accorsi d’un tratto, e in maniera nuova, quanto i sentimenti risvegliati in me da tutto ciò che riguardava Gilberte Swann e i suoi genitori differissero dai sentimenti che questa stessa famiglia suscitava in qualsiasi altra persona.
Probabilmente notando lo stato di depressione in cui mi gettava l’avvicinarsi delle vacanze di Capodanno durante le quali, come Gilberte stessa mi aveva annunciato, non avrei potuto vederla, un giorno mia madre, per distrarmi, mi disse: «Se hai sempre tanta voglia di sentire la Berma credo che tuo padre forse ti permetterà di andarci; la nonna potrebbe accompagnarti».
Siccome M. de Norpois gli aveva detto che avrebbe dovuto lasciarmi andare a sentire la Berma perché per un ragaz...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Premessa All'ombra delle fanciulle in fiore
  5. Bibliografia
  6. All'ombra delle fanciulle in fiore
  7. Note
  8. Sommario