Aspettando te
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Aspettando te

La felicità arriva senza avvisare

  1. 351 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Aspettando te

La felicità arriva senza avvisare

Informazioni su questo libro

L'amore, il sesso, la carriera, la maternità. Come un giocoliere su un filo, Antonella riesce a tenere ogni cosa in equilibrio e in queste pagine racconta senza reticenze il suo personale, laborioso viaggio verso la felicità. Tutto inizia con un incontro improvviso a Marrakech. È amore e, insieme, arriva il desiderio di un figlio. Ma l'orologio biologico è spietato e quel sogno sembra destinato a non avverarsi. Intanto la carriera preme e richiede impegno ed energie con voracità sempre maggiore. Finché, nel bel mezzo della preparazione di Ti lascio una canzone, accade l'imprevedibile e Antonella resta incinta della piccola Maelle. «Mai come allora ho avuto la sensazione di averlo fatto. Alzare le vele al destino e lasciarmi trasportare. Così era successo con Maelle, così era sempre accaduto nella mia vita. Tutto per essermi esposta, aver giocato la mia mano senza la certezza di vincere. Era vita, semplicemente.»

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817046220
eBook ISBN
9788858612576

Aspettando te






A Maelle

1
Destino

Ci sono attimi ineluttabili e altri transitori, incontri che credi ti cambino la vita e invece attraversano una sola estate, e incontri con il sapore dell’avventura che ti marchiano come un tatuaggio indelebile.
Non sarei dovuta essere in Marocco in quel periodo. La vacanza che avevo programmato era stata spostata mille volte per motivi di lavoro. Andiamo in Grecia, no in Turchia, partiamo ad aprile, no non partiamo affatto. Alla fine quel nome: Marrakech. Ho accettato con qualche titubanza, ignara che quella destinazione era la prima pietra con cui il destino stava lastricando la mia strada.
Sono partita un sabato di fine giugno lasciandomi alle spalle una Roma calda e limpida, insieme con il mio gruppo per eccellenza: mia sorella Cristina e i nostri amici Lisa e Yuri.
Io con il mio storico valigione giallo, Cristina e i suoi occhiali da sole scurissimi, gli altri due arrivati trafelati al gate all’ultimo minuto. Tutti con addosso quella frenesia stupida che si prova sempre quando si parte per un viaggio.
Eravamo legati da un’alchimia speciale, noi quattro. Riuscivamo a stare insieme pur rispettando le nostre personalissime esigenze, unendo convivenza e indipendenza in un’armonia quasi perfetta. Fin dalla prima vacanza in Sicilia, qualche anno prima, era sempre stato così. Questo era il motivo per cui, ogni estate, ci dedicavamo qualche giorno. Una sorta di vacanza premio dopo mesi di duro lavoro e stress di vario genere, di quelli che ti tolgono il colorito dalle guance e ti attaccano allo sguardo un bel paio di occhiaie più grigie del solito. Ci trovavamo quasi nel momento perfetto: tutti stanchi, tutti con qualche giorno di ferie e tutti single dopo una serie di sfortunati fidanzamenti.
Siamo atterrati nel tardo pomeriggio. Il caldo si faceva sentire ma non era quell’afa soffocante di cui qualcuno ci aveva raccontato. Appena scesi dall’aereo, siamo subito stati investiti da una brezza che portava i racconti di un luogo molto diverso da quello che avevamo lasciato, fatto di spezie e deserto, di sole e di terra.
Durante il breve tragitto dall’aeroporto al villaggio ho tenuto per tutto il tempo lo sguardo fisso sul paesaggio che scorreva come un nastro lungo il finestrino. I dintorni brulli dell’aeroporto, le strade polverose e sconnesse, le casupole in pietra, le luci di Marrakech in lontananza. Ogni chilometro lasciato indietro era un passo in avanti verso la vacanza. Più la strada percorrevamo, più la mia testa dimenticava le preoccupazioni, lo stress, la stanchezza.
Nel passare davanti alla città abbiamo sentito il cuore fermarsi un momento alla vista delle altissime mura che la circondano, infuocate dal sole rosso del tramonto. Erano immagini che aprivano spiragli di anima per troppo tempo chiusi dalla routine e dal lavoro.
Infine, come dal nulla, un viale costellato di fiaccole ci ha annunciato che avevamo raggiunto la nostra destinazione.
Già dall’ingresso, il villaggio sembrava fantastico. Grandi colonne dai colori ambrati si perdevano su archi e soffitti altissimi, da cui pendevano lanterne e luci soffuse. L’impressione era quella di essere stati catapultati in qualche storia da Mille e una notte: era un ambiente dove odalische e tappeti volanti si sarebbero trovati perfettamente a loro agio. Inservienti in lunghe vesti bianche ci hanno accolto offrendoci un tè alla menta, il primo dei tanti che avrei gustato in quei giorni, bollente e delizioso. Cristina ne aveva parlato fin dal primo giorno: «Finalmente potrò assaggiarlo» diceva, e infatti è stata lei a insegnarmi come berlo per non scottarmi le dita, tenendo il bicchiere sul bordo.
Nonostante la temperatura estiva, quella bevanda calda si è rivelata assolutamente ideale; scorreva dentro rimettendoci in pace col mondo.
Dopo l’aperitivo una ragazza ci ha condotto alle nostre stanze. Abbiamo attraversato praticamente l’intero villaggio: siamo passati davanti alla splendida piscina illuminata, abbiamo percorso i vialetti su cui si affacciavano casette basse dai colori chiari in stile locale, curiosato nella meravigliosa Spa dalle cui finestre fuoriusciva un leggero profumo di oli essenziali.
Era la mia prima volta in Marocco e ne sono rimasta subito affascinata. Quel luogo arido e suggestivo, carico di colori e odori nuovi, mi circondava di sensazioni che non avevo mai sperimentato prima.
Non ero in cerca di nulla, a Marrakech. Uscivo da una storia e avevo soltanto voglia di non pensare a niente, di diluire i ricordi nelle atmosfere di un posto nuovo, di lasciarmi trasportare. Volevo relax, sole, lunghe notti di sonno. Ero assieme ai miei veri amici a ridere, sorridere, sperimentare gusti e usanze, cenare sotto le stelle del deserto.
Ho subito amato quel luogo ruvido e autentico, dalla prima alba limpida al mio incontro con la città, che abbiamo voluto immediatamente visitare. Era un incredibile mosaico di colori, architetture e persone gravitanti attorno al grande Suk. Marocchini, turisti, uomini d’affari, donne in costume locale, tutti si muovevano in una caotica danza che turbinava all’aperto e confluiva nei vicoli del mercato, stretti e altrettanto affollati, coperti da sottili assi in legno da dove filtrava polverosa la luce del sole.
All’improvviso riuscivo a comprendere perché la piazza fosse sinonimo del caos più totale: vi si trovava davvero di tutto e nell’ordine più sparso che si potesse immaginare. In un angolo decine di spezie colorate erano esposte in piramidi perfette, nell’altro stoffe grezze erano accatastate le une sulle altre in altissime colonne. Tuniche lavorate a mano sventolavano al passaggio dei turisti e i venditori mostravano, affabili, sandali di ogni genere e fattura. Donne sorridenti cucinavano zuppe dall’odore pungente in enormi pentoloni e le servivano su tavoli improvvisati, incantatori di serpenti tenevano d’occhio i loro cestini in attesa di potersi esibire per poche monete. Il rumore delle voci, delle grida, dei richiami era quasi assordante.
Tra una bancarella e l’altra, il più delle volte ricavate da lamiere, stracci e vecchi teli, si snodavano vicoli angusti che spesso conducevano ai ristori locali. L’odore di cibo speziato si infilava ovunque: era sulla merce, sulle mani dei venditori, arrivava con il vento che soffiava leggero sulle nostre spalle.
Le guide turistiche avevano ragione: l’atmosfera della città era elettrizzante, rendeva l’aria densa di impressioni, faceva sognare anche chi credeva di avere i piedi saldamente ancorati a terra. Ma di questo mi sarei resa conto soltanto dopo.
I giorni sono trascorsi con la pigra serenità della vacanza, trovavano il loro senso nel profumo della crema abbronzante, in una lunga nuotata in piscina, in una cena tra chiacchiere e risate.
È stato solo uno degli ultimi giorni che i miei amici hanno proposto di andare a vedere lo spettacolo serale. Devo confessarlo: nonostante fossi in compagnia, per me era una fatica uscire la sera. Dopo un aperitivo al tramonto, una bella doccia e una ricca cena assieme a loro, desideravo solo mettermi a dormire per affrontare al meglio un nuovo giorno.
«Andate voi» ho detto.
«Dai, non ci siamo mai stati! Non possiamo ripartire senza averlo visto almeno una volta.»
«Ma dai, Lisa, lo sai che a me queste cose non interessano…»
«Antonella, non è una proposta. Tu stasera esci con noi!» ha esclamato convinta mentre gli altri due annuivano senza lasciarmi scampo.
Ci siamo seduti nell’arena affollata, io con il mio vestitino a fiori anni Cinquanta e un’espressione ancora perplessa. Il villaggio era pieno di cartelli che annunciavano lo spettacolo Stelle del deserto. Quando le tende si sono aperte è apparsa una decina di ballerine seguite da altrettanti mangiatori di fuoco. E poi così, improvvisamente dal nulla, cinque cammelli.
È stato proprio Yuri a farmelo notare. Io ero distratta dall’ingresso a sorpresa delle strane creature gibbute, che ruminavano ignare di essere protagoniste di uno show. Me ne stavo lì stupita a fissare quegli enormi animali, domandandomi come avessero fatto a portarli là, e temendo che sfondassero da un momento all’altro il palco facendo una frittata di cammelli, quando lui ha attirato la mia attenzione dicendo qualcosa del tipo: «Quello è davvero un bel ragazzo, e ti sta anche guardando…».
In realtà non saprei ripetere le sue precise parole, ma ricordo di avere facilmente capito di chi stesse parlando: Eddy, uno degli animatori, un ragazzo mulatto dallo sguardo intenso che avevo già intravisto nei giorni precedenti.
«Sì, sì, sta proprio buttando l’occhio: guardalo!» ha insistito Yuri.
In effetti, facendoci caso, mi ero accorta che quel ragazzo vestito di bianco si girava a intervalli regolari verso di me. Be’, magari era colpa del mio vestito appariscente. Forse ho annuito o forse no. Non ero in cerca di una storia, nemmeno occasionale. Volevo semplicemente trascorrere una settimana piacevole, lasciare che il tempo – in quel luogo tanto suggestivo – scivolasse lento, e dedicarmi soltanto a me stessa.
I giorni passavano e quel ragazzo sembrava materializzarsi continuamente davanti ai miei occhi, lasciando dietro di sé una scia di pensieri che non riuscivo a fermare. A tirare il freno ci ha pensato quel sergente di ferro della mia coscienza. Quando gli ho chiesto quanti anni avesse e mi ha risposto «ventotto», mi sono detta: ok, lasciamo proprio perdere. Il mio carattere metteva paletti a qualsiasi fantasia: eravamo troppo diversi per età, mentalità, cultura. Lui era troppo giovane, bello, arrendevole, un classico della banalità: la turista quarantenne con l’aitante ragazzo mulatto. L’idea era inconcepibile eppure rimaneva lì, a galleggiare nella mia testa senza mai andare a fondo. Io e Eddy l’animatore: assurdo. Me lo ripetevo di continuo per mettere a tacere i nostri sguardi, per convincere me stessa che la mia attenzione nei suoi confronti era solamente un’innocente distrazione sulla quale sorridere con le amiche.
Così è stato fino all’ultima sera, quando i miei occhi si sono posati di nuovo su quel sorriso disarmante, sulla sua bocca perfetta. A cena siamo capitati allo stesso tavolo, seduti uno di fronte all’altra. Prima i soliti discorsi tra me e i miei amici, alcune battute, poi ci siamo guardati e abbiamo cominciato a scambiare qualche parola. Un attimo, e il resto del mondo è scomparso. Le voci degli altri perse in un sottofondo indistinto, la sala piena di gente all’improvviso meno a fuoco, il cibo che resta nel piatto, dimenticato. Nonostante la complicazione della lingua – la conversazione era avvenuta un po’ in italiano, un po’ in inglese, qualche parola di francese – l’intesa era stata istantanea. Un saluto veloce per lasciarlo tornare al suo lavoro e una strana sensazione rimasta addosso, come un profumo.
È stato più tardi, verso le undici, che ci siamo incrociati di nuovo. I miei amici si sono dileguati, complici di un’intimità che avevano intuito all’istante. Eravamo soli. Ci siamo messi a parlare, Eddy e io. E ogni parola dava avvio a un discorso, che si rivelava una finestra aperta su un mondo sconosciuto e affascinante.
Mi ha raccontato di come avesse iniziato a lavorare in giro per il mondo, del suo passato in Africa, di qualche divertente aneddoto della stagione, ha voluto sapere della mia vita. L’avevo immaginato abituato al disordine dei villaggi, alla superficialità di un’eterna vacanza, a sorrisi di compiacenza per vacanziere a caccia di avventure, e invece all’improvviso dietro al cliché scoprivo un uomo dall’intelligenza acuta, riflessivo, profondo, ricco di un passato carico di eventi che gli regalavano una maturità inaspettata.
Credo sia stato a quel punto che mi sono detta: «Ma sì, ma chi se ne importa, e lasciamoci andare!». Che poi, diciamolo, era facile essere travolti dalle emozioni sotto le stelle di Marrakech; Eddy giocava in casa.
Avevo deciso di viverla per quello che era: una storia di inizio estate senza progetti, da prendere così, per il bello che dava, fra un tramonto rosso e un sorso di tè.
Sono ripartita il giorno dopo. Ci siamo scambiati il numero, perché è così che di solito si fa. Si sta bene insieme, si pronuncia qualche frase di circostanza e si scrivono dieci cifre su un pezzo di carta già sapendo che non verranno mai composte. È questo il gioco, sono queste le regole. Chiedere di più sarebbe stato ingenuo. Ho salutato un bellissimo ragazzo che si apprestava a diventare capo villaggio e sono tornata a Roma, il suo numero scritto su un biglietto nel portafogli, il cuore che si faceva un po’ più piccolo insieme con i tetti della città che l’aereo lasciava sotto di sé.
«Com’è andata poi con quel ragazzo?» ha chiesto Yuri.
«Siamo stati bene» ho replicato senza entrare nel dettaglio.
«E adesso?» ha insistito lui.
«Mah, adesso niente. Andrà come andrà» ho risposto senza crederci troppo.
La telefonata mi ha sorpresa in Toscana. Era la seconda parte della mia vacanza, quella tranquilla: lontana da villaggi, nessun animatore che strapazza la coscienza e ormoni a riposo. Non poteva durare.
Ho trovato una chiamata persa, un numero sconosciuto con un prefisso improbabile: 212. Vuoi vedere che? Ma no, non è possibile, sarà stato un errore. Ho provato a richiamare il numero per pura curiosità: ha risposto il villaggio di Marrakech. Il villaggio di Eddy.
Poche parole: come stai, com’è andato il viaggio, dove sei ora. Era indubbiamente un primo passo. È facile lasciare queste storie a dissolversi in mezzo alle foto delle vacanze, sospese tra i ricordi senz’altro senso che rappresentarne un altro. Ma telefonarsi, dopo, significa spingersi un passo avanti. La direzione non era ancora chiara a nessuno dei due, eppure il desiderio di proseguire era evidente, faceva prendere un respiro...

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