Sabato
SECONDO GIORNO
A Milano
Il ristorante,
una forma di saggezza seduta
Vediamo: naturalezza, autoindulgenza, abitudine, sollievo, fiducia, fantasia, ricordi, curiosità, intuizione (molta), tradizione (un po’), orgoglio (familiare, cittadino, regionale), diffidenza, conformismo, testardaggine, realismo, esibizionismo, divertimento, lodevole entusiasmo, insolita calma. Sono questi i sentimenti con cui noi italiani ci avviciniamo al tavolo di un ristorante. E voi dovreste fare lo stesso, invece di ordinare Linguini Primavera.
Siamo, per dirla in quattro parole, consumati professionisti delle consumazioni. In Europa nessuno mangia come noi. I francesi se ne intendono, ma scivolano ormai verso il manierismo. Si concedono diverse mollezze e qualche salsa di troppo: è tardo-impero culinario, interessante come le rose a fine estate. In Italia c’è ancora vigore repubblicano, innestato sulla tradizione: da secoli cerchiamo consolazione a tavola, e di solito la troviamo. Un italiano non crede che un sugo sia saporito e un olio sia buono. Lo sa. È in grado di mentire, per cortesia o per convenienza. Anche questo è un tocco artistico, se ci pensate.
Notate: sto parlando di tutti gli italiani, non di diecimila gourmet. Esiste una competenza preterintenzionale che taglia le classi sociali, l’età, il reddito, l’istruzione e le aree geografiche. La sicurezza nei giudizi alimentari è legata alla naturalezza con cui affrontiamo il cibo e il vino. Se vedete facce tese, in questo ristorante, è solo perché pensano al conto. Ma ripeto: la gente sa cosa scegliere e cosa evitare. Se ordina il piatto sbagliato è perché vuole sbagliare, per poi lamentarsi. Anche questa, in fondo, è una raffinatezza.
Le statistiche confermano quest’orgoglio gastronomico, frutto più di consapevolezza che di sciovinismo. Novanta italiani su cento, rivela un sondaggio inglese, preferiscono la cucina nazionale a tutte le altre: nessuno stomaco, in Europa, è altrettanto patriottico. La cucina italiana sembra essere la preferita anche dagli stranieri: il 42 per cento degli intervistati la mette al primo posto, seguita da quella cinese e da quella francese. Un terzo posto che potrebbe non soddisfare i nostri vicini d’oltralpe, i quali dovrebbero prenderla invece con sportività: perdere con i migliori non è umiliante.
In Italia abbiamo col cibo nel piatto lo stesso rapporto che alcune popolazioni amazzoniche hanno con le nuvole in cielo: un’occhiata, e sappiamo cosa aspettarci. Per arrivare a questo livello, ovviamente, c’è voluto tempo. Abbiamo conosciuto lunghi intervalli di pochezza gastronomica, dovuta alla povertà («Le locande sono in grado di rivoltare lo stomaco a un mulattiere, le vivande sono cucinate in maniera tale da disgustare un ottentotto», Tobias G. Smollett, romanziere scozzese, 1760 circa). Poi le cose sono migliorate, fino a diventare eccellenti.
Le radici del nostro attuale successo internazionale risalgono alla fine dell’Ottocento, tempo di emigrazione. Nei nuovi paesi di residenza, gli italiani aprirono locande e trattorie, offrendo ai connazionali l’unica cucina che conoscevano: quella familiare. Fu un colpo di genio, perché la famiglia era un laboratorio aperto da secoli, dove la semplicità e la fantasia si univano al buon senso. Anche la cucina italiana del Rinascimento era eccellente, ma costituiva una raffinatezza per classi alte. La nuova cucina italiana, quella che avrebbe conquistato il mondo, era un prodotto onesto, pratico e popolare. Un’altra dimostrazione che noi italiani siamo bravi, quando evitiamo di complicare le cose.
Certo, anche l’Italia cambia, e apprende cattive abitudini. Si mangia troppo, e troppo spesso: i bambini - che un secolo fa sembravano scheletrici, settant’anni fa erano magri e quarant’anni fa apparivano ben nutriti - oggi sono sovrappeso. Aumenta la remissività davanti ai pasti precotti e surgelati. Non siamo ancora al Tv dinner degli americani, la tomba della conversazione familiare: ma il televisore è acceso, e il microonde aspetta. I due, se ci pensate, si somigliano. E anche in Italia, temo, andranno sempre più d’accordo.
Se vogliamo salvarci dobbiamo puntare sull’orgoglio e sulla diffidenza, che non ci mancano. Alcune abitudini straniere non ci hanno mai convinto, e non ci convinceranno mai. Scriveva Pellegrino Artusi ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), condensato della sapienza nazionale in materia: «Allo svegliarvi alla mattina consultate ciò che più si confà al vostro stomaco; se non lo sentite del tutto libero, limitatevi a una tazza di caffè nero». Era la condanna profetica del breakfast anglosassone, adatto per affrontare brughiere, metropolitane e sguardi diffidenti; non una mattina di giugno in Italia.
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Siamo tra via Meravigli e corso Magenta, terra di residenti benestanti e visitatori coraggiosi. La strada è di un’eleganza sadica perché offre tre possibilità, tutte pericolose: perfido porfido, pazzesco pavé, orrende rotaie. È la Parigi-Dakar del (moto)ciclista urbano. C’è chi pensa che non sia casuale la presenza in zona dell’Ultima Cena: è un monito a chi pensa di venire la sera da queste parti, e poi rientrare a casa su due ruote.
Questo ristorante di via Brisa è circondato da banche, molto milanesi, e dai resti di un anfiteatro, decisamente romano. L’arredamento ricorda quello delle trattorie - mobili laccati, sedie spartane, giardino tra i muri - e attira una clientela elegante. Per trovare i clienti delle trattorie, invece, dovreste cercare le imitazioni dell’eleganza: il cattivo gusto, nella ristorazione italiana, è un indicatore di genuinità. È importante, per esempio, guardare le pareti. Se i quadri sono di buon gusto, diffidate. Meglio i dipinti a olio di un parente, i paesaggi della figlia, le nature morte del cuoco vivace.
Certe delizie kitsch qui non ci sono, ma esistono altri motivi di interesse. In questo ristorante vengono quelli della finanza per trovare quelli dello spettacolo, quelli dello spettacolo per farsi vedere con quelli della moda, quelli della moda per incontrare quelli dei media e quelli dei media per guardare tutti con sufficienza (ma anche loro s’addolciscono, se vengono riconosciuti). In comune questa piccola folla ha due cose: lingua e palato, entrambi allenati e rapidi nei giudizi.
Sono le tredici: a Milano questa è l’ora della colazione, che a Roma vuol dire breakfast, ma a Londra sarebbe il lunch. A Roma, invece, il lunch si chiama pranzo; una parola che a Milano è, per molti, quella che a Napoli chiamano cena. Complicato? Ovviamente. L’alimentazione italiana è regolata da norme che noi diamo per scontate, e non lo sono. Cibo e bevande costituiscono una perfetta metafora del paese: un mare di consuetudini ed eccezioni dove voi stranieri rischiate d’affogare. Poi vi soccorriamo, è chiaro. Ma, come tutti i bagnini dopo un salvataggio, pretendiamo riconoscenza.
Prendete il cappuccino: dopo le dieci del mattino è immorale (forse anche illegale). Al pomeriggio è insolito, a meno che faccia freddo; dopo pranzo, invece, è da americani. La pizza a mezzogiorno è roba da studenti. Il risotto con la carne è perfetto; la pasta con la carne, imbarazzante (a meno che la carne sia dentro un sugo). L’antipasto come secondo piatto è consueto; ma il secondo piatto come antipasto è da ingordi. Il parmigiano sulle vongole è blasfemo; ma se un giovane chef ve lo propone, applauditelo. I fiaschi di vino sono da turisti; se sono appesi alle pareti, da gita sociale. Infine l’aglio: come l’eleganza, dev’esserci ma non si deve notare. Le bruschette che offrono in alcuni ristoranti italiani all’estero, in Italia porterebbero alla scomunica.
Una volta un’amica inglese ha definito tutto ciò «fascismo alimentare». Le ho risposto: esagerata. Hai ordinato il cappuccino dopo cena, e non ti abbiamo nemmeno condannata al confino.
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Qualcuno ha scritto che in Italia lo stomaco ha una valenza metafisica, come l’erba del prato in Inghilterra. Vero. Ma la nostra ossessione è più vitale: gli inglesi, l’erba, non la mangiano. Noi parliamo del cibo prima di mangiarlo, quando lo mangiamo e dopo averlo mangiato. Le discussioni digestive rassicurano lo stomaco e preparano la mente: a un nuovo pasto e a una nuova discussione.
La gastronomia è diventata una passione che sconfina con l’ossessione. Per mangiare fuori casa spendiamo, ogni anno, cinquanta miliardi di euro. Nella somma sono comprese prevedibili mense, ma anche imprevedibili mollezze; alcune conferme, ma anche diverse sorprese. Qui a Milano un pasto in un ristorante costa più che a Parigi. Eppure continuiamo a prenotare, a mangiare e a bere: salvo poi guardare il conto, e protestare.
Siamo vittime delle nostre buone abitudini - mangiar bene in Italia è come cacciare in riserva: difficile sbagliare - e del marketing. Oggi infatti i ristoranti offrono sempre qualcos’altro, oltre al cibo, e lo fanno pagare: visibilità o riservatezza, innovazione o tradizione, estetica o nostalgia, provocazione o rassicurazione.
Ultimamente va tutto ciò che è biologico, naturale, rustico: certi aggettivi funzionano come psicofarmaci. Abbiamo ripreso a mangiare insalata appena hanno cominciato a chiamarla rucola, radicchio, trevisana, chioggia, soncino, belga e rughetta. L’olio ha vinto la guerra, il burro batte in ritirata. Resiste - anche qui - un certo minimalismo, parente della nouvelle cuisine, che sazia più il cervello dello stomaco, e turba l’italiano antico che c’è in noi.
Molti giovani cuochi l’hanno capito: prendono ricette tradizionali, e ci lavorano sopra. Quasi sempre, il trucco è mettere abiti leggeri a idee muscolose. Operazione meritoria. La cucina, infatti, è come il dialetto: o si usa o si perde. Il rischio è quello dello snobismo gastronomico. Il francese Roland Barthes, cinquant’anni fa, parlava del «piatto contadino come fantasia rurale di cittadini annoiati». Senza fretta, ma ci stiamo arrivando anche noi.
Lo prova la moda del florilegio verbale: le cose più semplici assumono nomi incomprensibili. A molti ristoratori non sembra vero d’avere tutte quelle parole gratuite a disposizione, così esagerano. Ricordate ieri sera, sui Navigli? Avete scelto passato di verdura, ma sul menu stava scritto «vellutata di verdure di stagione al profumo di finocchietto selvatico, servita coi crostini e olio extravergine d’oliva d’Abruzzo» (un modo per farlo pagare dieci euro). E quel «formaggio caprino avvolto nel controfiletto di bue, passato in padella, servito con le cipolle rosse di Tropea brasate»? Era carne con formaggio, romanzata.
I menu italiani sono ormai un racconto, un attestato di provenienza, una dichiarazione d’intenti. Qualche volta leggo la traduzione, per capire cosa mi arriverà nel piatto. Shrimps and beans roll è più chiaro di «fagottino croccante alla maniera dello chef con gamberi e fagiolini». Sea trout and sea bass è più onesto di «freccia di trota salmonata e branzino con timballo al cumino».
Un cantautore piemontese, Paolo Conte, ha protestato così:
«Pesce Veloce del Baltico»
dice il menu, che contorno han?
«Torta di mais» e poi servono
polenta e baccalà,
cucina povera e umile
fatta d’ingenuità
caduta nel gorgo perfido
della celebrità…
Sembra un buon riassunto dei rischi che corriamo. A meno che le parole siano un dolce sofisticato. In questo caso, potremmo accettarle. Fino all’arrivo del conto: poi capiremmo che oggi, nell’età dell’euro, nemmeno gli aggettivi sono gratis.
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Si parla tanto di cucina e vino, ma non abbastanza di quello che ci sta intorno. Un ristorante italiano è fatto anche di rituali che eccitano e sconcertano. Per esempio, il coperto. Ve lo leggo in faccia: non capite che quel participio sul conto è un antipasto esoterico, e dovreste ringraziarci.
Lo Zingarelli 2005 lo definisce così: «Dal francese couvert, dal latino coopertu(m): “coperto”, in quanto è ciò con cui si copre la tavola». Quindi: «Insieme di piatti, posate, bicchieri e simili necessario per una persona a tavola». Perciò: «Posto a tavola». Dunque: «Quota fissa che si paga in un ristorante per ogni posto a tavola». Resta una domanda: perché? È una definizione dell’aggettivo a gettar luce su questo mistero minore della ristorazione: «Coperto: ambiguo, nascosto, dissimulato. E quei che ‘ntese il mio parlar coverto (Dante, Inferno, IV, 51)». In sostanza: ci fanno pagare, e non ci dicono il motivo.
Noi italiani abbiamo smesso di angustiarci: consideriamo il «coperto» una tassa storica, indiscutibile come quella sulla televisione, illogica come molte cose in Italia. Voi invece vi agitate: il «coperto» vi sembra un sotterfugio e un leggero ricatto (soprattutto quand’è abbinato al pane: «Pane e coperto: € 1,50»). Dimenticate le punitive mance americane, una forma di liberalità obbligatoria che arriva al 20 per cento del conto: un ossimoro che negli Usa hanno finito per accettare, ma turba i sonni degli europei in visita.
Tuttavia, non si può negare: il «coperto» è subdolo. Appare e scompare come un fenomeno carsico: c’è, non c’è, svanisce, ritorna. Alcuni ristoranti l’aggiungono al servizio. Talvolta viene tralasciato per le comitive, e imposto alle coppie. Nelle ricevute fiscali, di solito, è presente: a patto che esista una ricevuta, e non sempre accade. Anche questo sconcerta i forestieri: non capite perché, quando il ristoratore scarabocchia il conto su un foglietto, ha l’aria di farvi un favore. Quand’è chiaro che siete voi a fare un favore a lui, consentendogli di incassare la somma in nero, e risparmiare il 40 per cento d’imposte.
Domandateglielo, la prossima volta: vi guarderà come un artista offeso: «Come? Avete provato le gioie della tavola e vi perdete in queste piccolezze? Va be’, vi offrirò un limoncello…». Perché quello, dovete sapere, c’è sempre. È il nostro calumet della pace, dopo una guerra che vincono sempre loro.
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Anche i bagni dei ristoranti sono un territorio misterioso. La prima difficoltà è trovarli. Il cartellino con la freccia «Toilette» è l’inizio di una caccia al tesoro. Il luogo dei desideri si trova infatti accanto a due porte identiche con scritto «Privato», all’uscita di sicurezza e all’ingresso della cucina. Una passione milanese è la scaletta a chiocciola che precipita verso il sotterraneo. Passando tra casse d’acqua minerale, lavapiatti in disuso e sguatteri sorpresi, s’arriva finalmente in bagno.
A quel punto occorre trovare l’interruttore, perché in quell’antro la luce naturale non è mai arrivata. Logica vorrebbe: entrando, a destra, in bella evidenza. Ma questo non accade. L’interruttore è mimetizzato. Se il muro è bianco, sarà bianco. Se il muro è bianco-sporco, sarà sporco. Talvolta l’accensione avviene tramite fotocellula, e veniamo salutati da una raffica di neon, come stelle del cinema o ladri colti in flagrante.
E lo scarico? Sono arrivato a contare diciotto diversi meccanismi d’azionamento, di solito ben mimetizzati (leva laterale, leva verticale, pulsante a muro, pedale, catenella al soffitto e così via). Da qualche tempo va di moda una semisfera di gomma nera da premere col piede. Raramente funziona al primo colpo. Di solito bisogna insistere, come per pompare un materassino. Se sentite un suono ritmico e ansimante venire da dietro una porta chiusa, non preoccupatevi: non è sesso, ma uno scarico coronato da successo.
Ultimo ostacolo, il lavandino. I rubinetti dei bagni pubblici sono una forma di...