LA FUGGITIVA

- 300 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Alla ricerca del tempo perduto. La fuggitiva - vol. 6
Informazioni su questo libro
La fuggitiva contiene la cronaca di una guarigione, che però non ha nulla di euforico, poiché necessariamente assume i connotati di una distruzione, di un'agonia. L'autore di questa distruzione, il vero protagonista del volume, è il Tempo, qui visto come un'entità che uccide e cancella, in antitesi a quello che restituisce e che resuscita, oggetto della scoperta finale del Tempo ritrovato. Giovanni Bogliolo
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Informazioni
eBook ISBN
9788858610244« Mademoiselle Albertine se n’è andata! » Come la sofferenza, in psicologia, va oltre la psicologia! Un istante prima, mentre mi stavo analizzando, avevo creduto che questa separazione senza esserci rivisti fosse proprio ciò che desideravo, e, paragonando la mediocrità dei piaceri che mi dava Albertine alla ricchezza dei desideri che mi impediva di attuare (e ai quali la certezza della sua presenza in casa mia, pressione della mia atmosfera morale, aveva permesso di occupare il primo posto nella mia anima, ma che al primo annuncio che Albertine se n’era andata non potevano nemmeno entrare in concorrenza con lei, infatti erano subito svaniti), mi ero ritenuto sagace, avevo concluso che non volevo più vederla, che non l’amavo più. Ma quelle parole: «Mademoiselle Albertine se n’è andata», suscitavano nel mio cuore una tal sofferenza che, capivo, non avrei potuto resistervi più a lungo. Bisognava farla cessare immediatamente; tenero con me stesso come lo era stata mia madre nei confronti della nonna in punto di morte, mi dicevo, con la stessa buona volontà di non lasciar soffrire chi si ama: « Abbi un momento di pazienza, troveremo un rimedio, sta’ tranquillo, non ti lasceremo patire così ». E intuendo confusamente che, se poco fa, quando ancora non avevo suonato per Françoise, la partenza di Albertine aveva potuto apparirmi indifferente, perfino desiderabile perché la credevo impossibile, fu in quest’ordine di idee che il mio istinto di conservazione cercò i primi calmanti per metterli sulla ferita aperta: «Tutto questo non ha alcuna importanza perché io la farò tornare immediatamente. Studierò il sistema ma, in ogni modo, sarà qui questa sera. Di conseguenza inutile angosciarsi». «Tutto questo non ha alcuna importanza», non mi ero limitato a dirmelo, avevo tentato di darne l’impressione anche a Françoise, non lasciando trasparire davanti a lei la mia sofferenza perché, anche nel momento in cui la provavo con tale violenza, il mio amore non dimenticava quanto ci tenesse a sembrare un amore felice, un amore corrisposto, soprattutto agli occhi di Françoise che non amava Albertine e aveva sempre dubitato della sua sincerità.
Sì, poco fa, prima che Françoise entrasse, avevo creduto di non amare più Albertine, avevo creduto, da scrupoloso analista, di non trascurare nulla, avevo creduto di conoscere perfettamente il fondo del mio cuore. Ma la nostra intelligenza, per quanto lucida sia, non può scorgere gli elementi che la compongono e che restano insospettati fintanto che, dallo stato volatile in cui rimangono la maggior parte del tempo, un fenomeno capace di isolarli non fa loro subire un inizio di solidificazione. Mi ero ingannato credendo di veder chiaro nel mio cuore. Ma questa conoscenza, che le più sottili percezioni dello spirito non mi avrebbero dato, mi era recata, dura, brutale, estranea, come un sale cristallizzato, dalla brusca reazione del dolore. Avevo una tale abitudine ad avere Albertine accanto a me, e all’improvviso scorgevo un nuovo volto dell’Abitudine. Finora l’avevo considerata soprattutto come un potere vanificante, capace di sopprimere l’originalità e perfino la coscienza delle percezioni; ora la vedevo come una temibile divinità, talmente inchiodata a noi, il suo viso insignificante a tal punto incrostato al nostro cuore, che se questa divinità che quasi non vedevamo si distacca, si allontana da noi, ci infligge le sofferenze più terribili e allora è crudele quanto la morte.
La cosa più urgente da fare era leggere la sua lettera se volevo trovare il sistema di farla tornare. Sentivo di averlo in mio possesso perché, essendo l’avvenire ciò che ancora non esiste se non nel nostro pensiero, ci sembra possibile modificarlo con l’intervento in extremis della nostra volontà. Ma nello stesso tempo mi ricordavo di aver visto agire su di esso altre forze oltre la mia e contro le quali, anche se avessi avuto a disposizione più tempo, non avrei potuto nulla. A che serve che l’ora non sia ancora suonata se non abbiamo alcun potere su ciò che sta per accadere? Quando Albertine era accanto a me, ero ben deciso a mantenere io l’iniziativa della nostra separazione. E poi lei se ne era andata. Aprii la sua lettera. Era così concepita:
« Mio caro, perdonatemi di non aver osato esprimervi a viva voce le poche parole che seguono, ma sono così vile, ho sempre avuto così paura davanti a voi che, anche sforzandomi, non ho trovato il coraggio di farlo. Ecco ciò che avrei dovuto dirvi: “Tra di noi la vita è diventata impossibile”, del resto, con la scenata dell’altra sera, anche voi vi siete reso conto che qualcosa era cambiato nei nostri rapporti. Ciò che si è potuto rabberciare quella notte sarebbe divenuto irreparabile tra qualche giorno. È meglio, dunque, dato che abbiamo avuto la fortuna di riconciliarci, lasciarci da buoni amici; per questo, mio caro, vi invio queste righe e vi prego di essere tanto buono da perdonarmi se vi reco un po’ di sofferenza pensando a quella, immensa, che ne avrò io. Mio grande tesoro, non voglio essere vostra nemica, sarà per me già abbastanza duro divenirvi, a poco a poco e ben presto, indifferente, per cui essendo la mia decisione irrevocabile, prima di farvi consegnare questa lettera da Françoise, le avrò richiesto i miei bauli. Addio, vi lascio la parte migliore di me. Albertine ».
« Tutto questo non significa niente », mi dissi, « anzi è meglio di quanto credessi perché, siccome non lo pensa affatto, ha scritto evidentemente queste righe per compiere un gesto plateale e mettermi paura. Bisogna al più presto architettare qualcosa perché Albertine sia di ritorno questa sera. È triste pensare che i Bontemps siano persone tanto venali da servirsi della loro nipote per estorcermi denaro, ma che importa? Dovessi dare la metà del mio patrimonio a Madame Bontemps perché Albertine sia qui stasera, ne resterà abbastanza, a lei e a me, per vivere agiatamente. » E nel medesimo tempo calcolavo se avrei fatto in tempo quel mattino ad andare a ordinare lo yacht e la Rolls Roy- ce che lei desiderava, non pensando nemmeno più, essendo scomparsa ogni esitazione, che avrei potuto trovare poco saggio regalarglieli. E se anche la mediazione di Madame Bontemps non fosse sufficiente, se Albertine non volesse ubbidire a sua zia e ponesse come condizione per il suo ritorno una completa indipendenza, ebbene! per quanto possa recarmi dolore, gliela concederò, uscirà sola, come vorrà; bisogna esser disposti a compiere sacrifici, per quanto dolorosi essi siano, per la cosa alla quale maggiormente si tiene, e che, malgrado ciò che credevo stamattina, secondo i miei assurdi e precisi ragionamenti, è che Albertine torni a vivere qui. Ma poi, concederle questa libertà mi sarebbe così doloroso? Mentirei se dicessi di sì. Avevo già spesse volte intuito che la sofferenza di lasciarla libera di fare il male lontano da me era forse minore di quel genere di tristezza che mi capitava di provare vedendola annoiarsi in casa mia, in mia compagnia. E probabile che nel momento stesso in cui mi avesse chiesto di andare da qualche parte, concederglielo, lasciarla fare, con l’idea che dove andasse ci fossero orge organizzate, mi sarebbe stato atroce. Ma dirle: « Prendete la nostra barca o il treno, e per un mese andate nel tal paese che non conosco, dove non saprò niente di quel che farete», questo spesso non mi era dispiaciuto per l’idea che lontana da me, facendo poi i debiti confronti, mi preferisse ad altri e allora sarebbe stata felice di ritornare. D’altronde, lei stessa si- diramente desidera tornare, e non esige affatto quella libertà alla quale, per altro, riuscirei facilmente a porre dei limiti, giorno per giorno, offrendole quotidianamente nuovi piaceri. No, ciò che Albertine ha voluto è che non fossi più insopportabile con lei, e soprattutto — come un tempo Odette con Swann — che mi decida a sposarla. Una volta sposata non ci terrà più alla sua indipendenza, e noi resteremo tutti e due qui, così felici! Probabilmente vorrà dire rinunciare a Venezia, ma le città più desiderate — e ancor più di Venezia certe donne, per esempio la duchessa di Guermantes, o il teatro — come diventano pallide, indifferenti, morte, quando noi siamo legati a un altro cuore da un legame così doloroso che ci impedisce di allontanarci! Albertine, d’altronde, ha perfettamente ragione in questa faccenda del matrimonio. Anche la mamma trovava ridicoli tutti questi ritardi. Sposarla! Ecco quello che avrei dovuto fare da un pezzo, quello che bisognerà che io faccia e che l’ha indotta a scrivere quella lettera di cui non pensa una parola, e per raggiungere il suo scopo ha rinunciato per qualche ora a ciò che deve desiderare tanto quanto lo desidero io, vale a dire, tornare qui. Sì, è questo che ha voluto, questo è lo scopo del suo gesto, mi diceva la mia ragione compassionevole; ma io sentivo che la mia ragione, dicendomelo, si situava sempre dal punto di vista dell’ipotesi che aveva adottato fin dall’inizio. Ora, io sapevo perfettamente che era quell’altra l’ipotesi che era sempre stata vera. Probabilmente questa seconda ipotesi non sarebbe mai stata abbastanza ardita da formulare espressamente che Albertine avrebbe potuto esser legata a Mademoiselle Vinteuil e alla sua amica. E tuttavia, quando ero stato sommerso da quella terribile notizia, al momento in cui entravamo nella stazione di Incarville, era stata proprio quest’ultima ipotesi a essere confermata. In seguito, la stessa ipotesi non aveva mai concepito che Albertine potesse lasciarmi di sua iniziativa, e soprattutto in questo modo, senza avvertirmi né darmi il tempo di poterglielo impedire; ma comunque sia, dopo il nuovo immane soprassalto che la vita mi aveva fatto compiere, se la realtà che mi si presentava mi era inusitata quanto quella di fronte alla quale ci pongono la scoperta di un fisico, le indagini di un giudice o le interpretazioni di uno storico riguardo ai retroscena di un crimine o di una rivoluzione, questa realtà superava, sì, le deboli previsioni della mia seconda ipotesi, ma pertanto le adempiva. Questa seconda ipotesi non era un prodotto dell’intelligenza, e la paura panica che avevo provato la sera in cui Albertine non mi aveva baciato e la notte in cui avevo udito il rumore della finestra, questa paura non era ragionata. Ma — e il seguito lo dimostrerà ancor meglio, così come molti episodi hanno potuto già indicare — il fatto che l’intelligenza non sia lo strumento più sottile, il più potente, il più appropriato per individuare il vero, non è che una ragione in più per cominciare proprio con l’intelligenza e non da un’intuizione dell’inconscio, da una fede deliberata nei presentimenti. È la vita che, a poco a poco, caso per caso, ci permette di osservare che ciò che è più importante per il nostro cuore, o per il nostro spirito, non ci è insegnato dal ragionamento ma da altre forze. E allora l’intelligenza stessa, rendendosi conto della loro superiorità, abdica con il ragionamento davanti a esse e accetta di divenire loro collaboratrice e serva. L’imprevista sventura in cui mi trovavo coinvolto mi sembrava di averla già conosciuta (come l’amicizia di Albertine con due lesbiche) per averla letta in tanti segni in cui (malgrado le affermazioni contrarie della mia ragione che si basava sulle parole di Albertine) avevo potuto discernere la sua stanchezza, l’orrore di vivere così da schiava; quante volte questi segni mi era parso di vederli, come scritti in un invisibile inchiostro, dietro le pupille tristi e sottomesse di Albertine, sulle sue guance che all’improvviso avvampavano in un inesplicabile rossore, nel rumore della finestra che all’improvviso si era aperta! Probabilmente, non avevo osato interpretarli fino in fondo e formulare esplicitamente l’idea della sua improvvisa partenza. Avevo esclusivamente pensato, in uno stato d’animo equilibrato dalla presenza di Albertine, a una partenza combinata da me a una data indeterminata, vale a dire situata in un tempo inesistente; di conseguenza avevo semplicemente avuto l’illusione di pensare a una partenza, così come le persone si figurano di non temere la morte quando vi pensano mentre sono in buona salute, mentre in realtà non fanno che introdurre un’idea puramente negativa entro questa buona salute che, appunto, l’approssimarsi della morte altererebbe. D’altronde l’idea della partenza di Albertine voluta da lei stessa avrebbe potuto venirmi in mente mille volte, il più chiaramente, il più lucidamente possibile, ma mai avrei sospettato ciò che sarebbe stata per me, vale a dire nella sua realtà, quella partenza, quella cosa originale, atroce, sconosciuta, quel male totalmente nuovo. Avrei potuto pensare a quella partenza, se l’avessi prevista, per anni, di continuo, senza che tutti quei pensieri messi in fila avessero il più debole rapporto, non solo per intensità ma per somiglianza, con l’i- nimmaginabile inferno di cui Françoise aveva sollevato il velo dicendomi: « Mademoiselle Albertine se n’è andata ». Per rappresentarsi una situazione sconosciuta l’immaginazione prende a prestito elementi noti e, proprio per questo, non riesce a rappresentarsela. Ma la sensibilità, anche la più fisica, riceve, come il solco lasciato dalla folgore, il marchio originale e a lungo indelebile dell’avvenimento nuovo. E osavo appena dirmi che se avessi previsto quella partenza sarei stato probabilmente incapace di figurarmela in tutto il suo orrore, ma, se Albertine me l’avesse annunciata e io l’avessi implorata, minacciata, sarei stato comunque incapace di oppormi. Come era lontano da me, ora, il desiderio di Venezia! Come un tempo a Combray quello di conoscere Madame de Guermantes quando veniva l’ora in cui io non tenevo che a un’unica cosa: che la mamma venisse in camera mia a darmi la buona notte! E in realtà erano proprio le inquietudini provate all’epoca della mia infanzia, che, al richiamo della nuova angoscia, erano accorse a rinforzarla, ad amalgamarsi a essa in una massa compatta che mi soffocava.
Certo, fisicamente quel colpo al cuore che dà una simile separazione e che, con la terribile potenza di registrazione che il corpo possiede, fa del dolore qualcosa di contemporaneo a tutte le epoche della nostra vita in cui abbiamo sofferto — certo quel colpo al cuore su cui forse un po’ specula (tanto poco ci si cura del dolore altrui) la donna che desidera lasciare il massimo rimpianto di sé, sia che, semplicemente adombrando una falsa partenza, voglia ottenere condizioni migliori, sia che, partendo per sempre — per sempre! — desideri punire, o vendicarsi, o continuare a essere amata, o (interessata alla qualità del ricordo che lascerà) per rompere brutalmente quella rete di stanchezza, di indifferenza che aveva sentito tessersi intorno a sé — certo, quel colpo al cuore ci si era ripromessi di evitarlo, ci si era detti che ci si sarebbe lasciati in buoni rapporti. Ma è estremamente raro che ci si lasci in buoni rapporti, perché se i rapporti fossero buoni non ci si lascerebbe. Inoltre la donna verso la quale ci si mostra più indifferenti sente tuttavia, oscuramente, che, pur stanchi di lei, in virtù di una medesima abitudine ci si è vieppiù attaccati a lei, e ritiene che, elemento essenziale per lasciarsi in buoni rapporti, sia andarsene dopo aver avvertito l’altro. Ora, però, avvertendo l’altro, la donna ha paura di venir ostacolata. Ogni donna sente che, più il suo potere su un uomo è grande, il solo modo di andarsene è fuggire. Fuggitiva perché regina. È così. Certo, esiste una distanza immensa tra la noia che solo un istante prima essa ci ispirava e quel furioso bisogno di averla presso di sé per il fatto che se ne è andata. Ma questi stati d’animo hanno una loro ragione, a prescindere da quelle già esposte nel corso di quest’opera e da altre che lo saranno più avanti. Innanzi tutto, la partenza spesso ha luogo nel momento in cui l’indifferenza — reale o presunta — è al culmine, al punto estremo dell’oscillazione del pendolo. La donna si dice: « No, non si può più andare avanti così! » proprio perché l’uomo non fa che parlare di lasciarla, o di pensare a lasciarla; così sarà lei a prendere l’iniziativa. Allora, avendo il pendolo raggiunto l’altra sua estremità, la distanza è la massima; in un attimo ritorna al punto di partenza; ancora una volta, a prescindere da tutte le debite ragioni; è talmente naturale! Il cuore batte; e d’altronde la donna che se n’è andata non è più la stessa di prima. La sua vita accanto a noi, troppo risaputa, vede, d’un tratto, aggiungere a sé tutte le vite alle quali si mescolerà, e forse è proprio per mescolarsi ad esse che lei ci ha lasciato. Di modo che questa nuova ricchezza di vita della donna in fuga retroagisce sulla donna che era accanto a noi e forse premeditava la sua partenza. Alla serie dei fatti psicologici che possiamo arguire e che fanno parte della sua vita con noi, della nostra noia per lei troppo evidente, della nostra gelosia anche (per cui gli uomini che sono stati lasciati da parecchie donne lo sono stati quasi sempre allo stesso modo a causa del loro carattere e di reazioni sempre identiche che è possibile calcolare: ognuno ha un suo modo di essere tradito, come di prendersi il raffreddore) a questa serie non troppo misteriosa per noi, corrisponde una serie di fatti che noi abbiamo ignorato. Da qualche tempo lei doveva intrattenere rapporti scritti o verbali, tramite qualcuno, con il tale uomo, o la tal donna, attendere un certo segnale che forse abbiamo dato noi stessi senza saperlo dicendole: « Monsieur X... è venuto, ieri, a trovarmi », se per caso aveva stabilito con Monsieur X... che, il giorno prima di quello in cui avrebbe dovuto raggiungerlo, costui sarebbe venuto a trovarmi. Quante possibili ipotesi! Soltanto possibili? Io costruivo la verità, ma soltanto nel possibile, a tal punto che avendo un giorno aperto per errore una lettera indirizzata a una delle mie amanti, lettera scritta in stile convenuto e che diceva: «Attendo sempre un segnale per andare dal marchese di Saint-Loup, avvertitemi domani con una telefonata », ricostruii una sorta di fuga progettata; il nome di Saint-Loup veniva fatto solo per indicare un’altra persona, perché la mia amante non lo conosceva ma mi aveva spesso sentito parlare di lui, e per di più la firma era una specie di soprannome pressoché illeggibile. Ora, la lettera non era indirizzata alla mia amante, ma a una persona della casa che portava un nome diverso ma che era stato letto male. La lettera non era scritta in linguaggio cifrato ma in un cattivo francese, perché a scriverla era stata un’americana effettivamente amica di Saint-Loup, come lui stesso mi disse poi, e certi caratteri vergati in modo strano avevan fatto pensare a un soprannome, mentre si trattava di un nome assolutamente reale, ma straniero. Quel giorno, dunque, mi ero completamente ingannato nei miei sospetti. Ma l’armatura intellettuale che in me aveva collegato quei fatti, del tutto falsi, era essa stessa la forma così giusta, così inflessibile della verità che quando, tre mesi più tardi, la mia amante (che allora si figurava di passare tutta la vita con me) mi aveva lasciato, era stato in maniera assolutamente identica a quella che io avevo immaginato la prima volta. Giunse, infatti, una lettera con le stesse caratteristiche che avevo erroneamente attribuito alla precedente, ma questa volta il significato del segnale era evidente.
Questa sventura era la più grande di tutta la mia vita e, malgrado tutto, la sofferenza che mi suscitava era superata forse dalla curiosità di conoscerne le cause: chi Albertine aveva desiderato, chi aveva ritrovato. Ma le origini di questi grandi avvenimenti sono come quelle dei fiumi, per quanto si percorra la superficie terrestre non si trovano mai. Albertine aveva, forse, premeditato da tempo la sua fuga? Non ho specificato (perché allora mi sembrava soltanto affettazione e malumore, ciò che Françoise definiva «tenere il muso») che dal giorno in cui aveva smesso di baciarmi aveva avuto un’aria malinconica, sulle sue, gelida, con un tono di voce triste anche per le cose più semplici, lenta nei movimenti, senza mai sorridere. Non posso dire che ci fosse alcuna prova di una connivenza con qualcuno all’esterno. Françoise, molto tempo dopo, mi raccontò che essendo entrata due giorni prima della sua partenza in camera di Albertine, non aveva trovato nessuno; le tende erano chiuse ma si era accorta, dall’odore dell’aria e dal rumore, che la finestra era aperta. E in effetti aveva scorto Albertine sul balcone. Ma non è detto che lei, da là, avesse potuto comunicare con qualcuno e, d’altronde, le tende chiuse sulla finestra aperta si potevano spiegare con il fatto che Albertine sapeva come io temessi le correnti d’aria e che, anche se le tende me ne proteggevano poco, avrebbero impedito a Françoise di vedere dal corridoio che le ante erano aperte tanto di buon’ora. No, non ci vedo niente di speciale, se non un piccolo episodio che dimostra soltanto che il giorno prima Albertine sapeva che sarebbe partita. In effetti, la vigilia aveva preso, senza che io me ne accorgessi, una gran quantità di carta e di tela da imballaggio che si trovava in camera mia, con la quale imballò i suoi innumerevoli peignoirs e vestaglie tutta la notte per partire l’indomani mattina. È l’unico fatto; ed è tutto. Non posso attribuire importanza al gesto di avermi restituito quasi di forza, quella sera, mille franchi che mi doveva, anche questo non ha niente di speciale perché lei era estremamente scrupolosa nelle faccende di denaro.
Sì, il giorno prima aveva preso la carta da imballaggio, ma non era solo dal giorno prima che sapeva che se ne sarebbe andata! Infatti non era la tristezza a indurla a partire, ma la decisione presa di partire, di rinunciare alla vita che aveva sempre sognato, le avevano dato quell’aria triste. Tristezza, formalmente fred...
Indice dei contenuti
- Cover
- Occhiello
- Frontespizio
- Premessa La fuggitiva
- Bibliografia
- La fuggitiva
- Note
- Sommario