I pittori italiani del Rinascimento
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I pittori italiani del Rinascimento

  1. 286 pagine
  2. Italian
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I pittori italiani del Rinascimento

Informazioni su questo libro

Apparso in edizione definitiva nel 1930, I pittori italiani del Rinascimento è considerato un classico della critica figurativa: gli studi che raccoglie, sui pittori veneziani, i pittori fiorentini, quelli dell'Italia centrale e dell'Italia settentrionale, contengono intuizioni fondamentali sulle opere della nostra tradizione, alla luce di cardini della critica berensoniana come i valori tattili, il movimento e la composizione spaziale. Da Antonello da Messina a Giovanni Bellini, da Botticelli a Michelangelo, passando per Leonardo da Vinci, Donatello, Andrea Mantegna, Raffaello, Tiziano e tanti altri: un dispositivo per imparare a "leggere" in modo critico, e ad amare, i grandi geni della pittura rinascimentale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817028585
eBook ISBN
9788858602713
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale
I PITTORI ITALIANI DEL RINASCIMENTO
Credo che amare l’arte sia un dono quanto crearla.
— Bernard Berenson
GENIO E CAPRICCI
DI UN SEDUTTORE ANGLOSASSONE
Le ville di Bernard Berenson e di Roberto Longhi, entità quasi sacrali dai nomi curiosamente simili («I Tatti» quella di Berenson, «Il Tasso» quella di Longhi), si scrutavano, e si scrutano, da due versanti opposti delle colline fiorentine, e testimoniano di una rivalità, accesa ma rispettosa, durata oltre mezzo secolo. Se posso addurre una testimonianza personale, io, che sono cresciuto in ambiente longhiano, ho sentito parlar male di tutti, ma quando si arrivava al nome di Berenson, calava il silenzio; lì ci si doveva fermare, perché quello era, comunque si fosse orientati a giudicarlo, un caso a parte. E pazienza se Roberto Longhi, dopo che i rapporti fra i due grandi si erano progressivamente deteriorati (ma anche dopo che Longhi all’inizio del XX secolo aveva offerto la sua penna per tradurre in italiano I Pittori Italiani del Rinascimento), era giunto a definire il suo avversario come «il dottor Berenson», e i suoi famosi repertori come «gli orari ferroviari della pittura italiana».
Vero è che Berenson e Longhi, pur divisi da venticinque anni di età, sapevano benissimo di essere i veri padri di una scienza nuova, che si chiamava Storia dell’Arte; lo sapevano tanto di più in quanto non potevano prevedere l’ingresso sulla scena (avvenuto qualche tempo dopo) della potentissima e genialissima colonna mitteleuropea-britannica: Warburg in primis, e poi Panovsky, Gombrich e via dicendo.
Anche nell’atto di scegliere i propri maestri, Berenson e Longhi avevano voluto distinguersi. L’americano, da bravo anglosassone, aveva aderito alla via positivistica di Giovanni Morelli. Roberto Longhi aveva optato per i cromosomi rabdomantici e zingareschi del Cavalcaselle, che memorizzava i suoi ricordi delle opere d’arte con appunti disegnativi. Longhi, nel corso degli anni, avrebbe fatto lo stesso, e i suoi disegni restano a testimoniare una stagione pionieristica della storia dell’arte.
Ciò detto, bisogna però subito aggiungere – con la serenità portata dal tempo, e dettata da un mondo lontanissimo da quello di cui stiamo parlando – che i due erano assai più vicini di quanto le polemiche di settanta, ottant’anni fa permettessero di pensare.
La parola che li unisce è fondamentalmente una: estetismo; un estetismo che, tradotto in pratica di vita, tendeva fatalmente a diventare snobismo. Si sentivano – comprensibilmente – ormai soli al comando, Berenson e Longhi; e quando si è soli ci si può permettere qualunque cosa.
Per tutta la vita, Longhi pensò che, in fondo, «l’arte nasce dall’arte». E quanto a Berenson, già in questo libro, che raccoglie saggi scritti fra il 1894 e il 1907, costruisce un memorabile monumento all’estetismo, cioè a un’arte che vive di se stessa e delle proprie regole intrinseche: chi è in grado di degustarle, ne trarrà il piacere dovuto; per chi ne è escluso, la sordità sarà perpetua e senza remissioni.
Due sole citazioni, che illuminano il metodo berensoniano in modo direi definitivo: «Non sarà inutile formulare, ancora una volta, la teoria stessa; ed eccola brevemente. Tutte le arti risultano di sensazioni ideate, non importa con qual mezzo espresse, purché a esse si produca un effetto diretto di cresciuta capacità vitale. Si tratta di sapere che cosa, in una data arte, produce tale effetto; e la risposta è diversa per ciascuna arte, come diversi i mezzi di cui ciascuna arte si serve, e diverse le sensazioni ideate che costituiscono il suo materiale. Nella pittura di figura, ch’è la pittura nell’aspetto tipico, i principali se non unici elementi da cui resulti un effetto di cresciuta capacità vitale sono i valori tattili, il movimento e la composizione spaziale; e con ciò intendo sensazioni ideate di contatto, struttura, peso, resistenza, energia, e sensazioni del rapporto ambientale. Ove uno di cotesti elementi fallisca, e di tanto l’arte resta diminuita».
Talché, «il sentimento può essere così consapevole da restare una sensazione artistica, e la più artistica di tutte, o può dare l’esaltazione d’un rapimento mistico. Per quelli di noi che non sono idolatri né bigotti, questo senso di identificazione con l’universo costituisce l’essenza stessa dell’emozione religiosa; un’emozione indipendente dalla fede e dalla morale, come l’emozione dell’amore. L’emozione religiosa, per alcuni in modo assoluto, per altri almeno in parte, deriva da un senso di identificazione con l’universo; il quale senso, a sua volta, può esser creato dalla composizione spaziale. Ne consegue che l’arte della composizione spaziale è capace di comunicare direttamente emozioni religiose; o almeno qual tanto di emozione religiosa che molti di noi possono realmente sentire, a parte le pratiche di culto. Non vedo altri mezzi con i quali l’emozione religiosa possa essere suggerita in pittura; dico direttamente suggerita, non rappresentata: si badi».
Chiaro, no? L’arte vive in se stessa, e di se stessa si nutre. La differenza fra Berenson e Longhi (chiudiamo qui l’«analisi comparata», sulla quale abbiamo insistito perché ci è parsa eccezionalmente illuminante), è proprio di formazione, che è quanto dire di Dna culturale. Berenson appartiene basicamente alla civiltà anglosassone. Quando pensa a modelli letterari per la sua scrittura, ha in testa commentatori salaci come Ruskin e Oscar Wilde. Quando ricorda pittori moderni, al top del suo gusto ci sono eleganti seduttori come Whistler, Sargent e i Preraffaelliti. Quando si riferisce all’epistemologia, anzi proprio alla filosofia, moderne, dimostra – con ogni merito – una buona conoscenza della psicologia anglosassone pre-freudiana. È già molto, visto che la vera e propria conoscenza del pensiero di Freud si diffonderà, in Europa e in America, nei decenni successivi.
Longhi è invece, in toto, un adepto della cultura francese. In letteratura ha come faro la discendenza Stendhal, Balzac, Baudelaire, Flaubert, Zola. In pittura, il suo riferimento è quello realistico, con Courbet come stella polare. Ecco perché sono tanto diverse le collezioni artistiche dei due padri della storiografia artistica moderna. Berenson colleziona Medioevo e Rinascimento, cioè, come dice lui, l’«adolescenza» e la «giovinezza» del pensiero figurativo. Longhi – guidato da costellazioni realistiche ottocentesche – cerca le premesse di quel realismo, e dà il meglio di sé quando raccoglie (e interpreta criticamente) il realismo sei-settecentesco, e poi la continuazione di un pensiero «realistico» nel XX secolo. Tutte cose che Berenson – dal suo punto di vista – non può che aborrire.
Ma cerchiamo di vedere analiticamente le componenti del seducente universo intellettuale di un uomo che è vissuto in Lituania fino al decimo anno di età (non dimentichiamolo mai), che si è formato in una cultura americana ancora assai lontana dalla modernità (la prima grande mostra di arte europea sarà l’Armory Show del 1913), e che poi sprofonda nell’estetismo europeo.
Ci sono un aspetto teorico e un aspetto narrativo, nella personalità di Berenson. L’aspetto teorico è mirabilmente, forse miracolosamente, aperto e curioso. Oltre alle importantissime meditazioni sulla psicologia (tradotta in «psicologia visiva») di cui parlavamo prima, l’americano ha eccellenti conoscenze storiche, si permette acute osservazioni sociologiche (da un «mondano» come lui, d’altronde, non ci si poteva aspettare di meno), è chiaramente innamorato della letteratura (quella di lingua inglese, appunto), e molto sa di musica, quella musica che in America sta per fare un balzo in avanti verso la modernità così diverso dalla rivoluzione dodecafonica che avrà vita in Europa.
Con tale strumentazione, pone mano – sempre con intelligenza acutissima – ai suoi amori e alle sue idiosincrasie nel campo delle arti figurative. Tenteremo addirittura di enumerare gli uni e le altre, alla luce della cultura storico-artistica dei nostri giorni.
Berenson è straordinario e squisito quando parla della cultura classicistica, che è il suo polo di riferimento, e proprio, a suo dire, la «giovinezza» dell’arte. Scrive pagine magnifiche a proposito di Giotto, della Firenze quattrocentesca, del Perugino, di Raffaello, di Michelangelo, di Tiziano, e curiosamente – bisogna dire così – anche di Lorenzo Lotto, del quale non capisce tuttavia l’aggancio con Leonardo e con la sua teoria dei «moti dell’animo», e insomma l’importanza fondamentale di quei pensieri per la nascita della psicologia moderna.
Le idiosincrasie cominciano proprio con Leonardo, e culminano in una presa di posizione come questa: «L’“espressività” è sorella gemella del “grazioso”. [...] Intendo l’espressione connessa ad emozioni della vita vissuta; l’espressione che viene imitata per i significati che essa ha nella vita. In arte, tale espressione ha poco o punto merito intrinseco; questo merito, in arte, procede dai valori tattili e dall’azione, insieme armonizzati; ma i muscoli che determinano le lievi trasformazioni facciali richieste ad esprimere le emozioni, quasi non hanno giuoco sul nostro sistemo corporale; e le sensazioni ideate che loro si riferiscono, mancano quasi completamente di diretta capacità ad esaltare il senso vitale».
Leonardo e quattro secoli di cultura espressionistica, culminati nell’Espressionismo storico press’a poco contemporaneo di queste parole, si saranno rivoltati nella tomba. Ed è ovvio poi che, con queste premesse, Berenson sottovaluti i Manieristi come Pontormo e Rosso Fiorentino, i lombardi come Moretto, Romanino e Savoldo, un pre-naturalista come Jacopo Bassano, e in generale tutta la pittura oltre-appenninica, la cui comprensione sarà poi grande merito di Roberto Longhi.
Niente di tragico. Nessuno è perfetto. Questo libro va anzi letto – come un pilastro storico imprescindibile – non meno per le sue preclusioni che per i suoi amori.
Infatti, l’aspetto straordinario e seducentissimo dei Pittori Italiani del Rinascimento è ancora, e soprattutto, quello letterario, o per meglio dire narrativo. Questo è uno splendido romanzo che ora ha il passo sinfonico di un Henry James, ora le punture maligne di Oscar Wilde, nella musica larga e sincera di un amore per le cose belle, che sta sopra a tutto, e governa, o dovrebbe governare, ogni atto della nostra vita.
È un libro che chiunque ami le cose belle (appunto) non può non leggere, per amarlo e talora per odiarlo. A testimonianza dei capricci e della genialità fioriti sul corpo dell’arte un secolo – vale a dire tre o quattro stagioni – fa.
Flavio Caroli
gennaio 2009
I PITTORI ITALIANI
DEL RINASCIMENTO
Libro Primo
PITTORI VENEZIANI
I
Fra le scuole pittoriche italiane, è la scuola Veneziana che esercita, su innumerevoli appassionati d’arte, il fascino più costante e vigoroso. Nei presente, breve discorso sullo sviluppo di detta scuoia, riusciremo forse a chiarire alcune ragioni del nostro speciale interesse per i pittori di Venezia, nell’atto stesso d’intendere le tendenze spirituali che si concretarono nella loro arte, e l’efficacia della loro lezione su tutta la pittura europea dei tre ultimi secoli.
Considerati nel complesso della scuola, fin da principio i Veneziani manifestarono il più squisito senso coloristico. Quasi mai freddo, di rado troppo focoso, il colorito dei Veneziani mai ci fa pensare a qualcosa d’aggiunto dopo, come accade per tanti Fiorentini; né si esaurisce, come in certi Veronesi, nella mera materia pittorica. Quando l’occhio ha imparato a valutare l’oscuramento dei colori cagionato dal tempo e dal sudicio, quando ha imparato a tener conto degli sfortunati tentativi di restauro, le migliori pitture Veneziane si presentano con quell’armonia di concepimento e d’esecuzione ch’è caratteristica ai capolavori dei poeti più schietti. La signoria del colore è dunque la prima cosa che attira quasi tutti verso i pittori Veneziani. Colore che non soltanto dà all’occhio un piacere immediato, ma agisce come una musica sui sentimenti, ed eccita il pensiero e la memoria come farebbe la creazione d’un gran compositore.
II
Dal primo principio, la Chiesa sera resa conto dell’influsso del colore, e di quello della musica, sulle emozioni. E dai tempi più antichi, adoperò il mosaico e la pittura ad esaltare i propri dogmi e a narrare le sacre leggende; non soltanto perché era questo l’unico modo di comunicare con gente che non sapeva leggere né scrivere, ma perché valeva ad istruire questa gente, al tempo stesso distogliendola dalla indagine critica; ed agiva, anzi, come uno stimolo indiretto sui sentimenti della pietà e della contrizione. Dopo i più bei mosaici dei primi secoli, le opere giovanili di Giovanni Bellini, il maggior maestro veneziano del Quattrocento, rispondono insuperabilmente a tale intento religioso. Con Giovanni Bellini, la pittura aveva raggiunto un grado in cui non c’erano più difficoltà tecniche che inceppassero l’espressione d’una emozione comunque profonda. E non si possono guardare dipinti del Bellini col morto Redentore sorretto dalla Vergine o dagli angioli, senza sentirsi tocchi da altissima compassione; come non si mirano le sue prime Madonne senza un moto di pavida riverenza. E Giovanni Bellini non è solo. I suoi contemporanei, Gentile Bellini, i Vivarini, Crivelli e Cima da Conegliano, tutti presero a dipingere nello stesso spirito, ed all’incirca con gli stessi effetti divoti.
Così la Chiesa aveva educato i fedeli ad interpretare la pittura come un linguaggio, e a cercarvi l’espressione dei più spontanei sentimenti. Ma non poteva sperare d’averla per sempre confinata nel campo della religione. La gente cominciava a sentire il bisogno della pittura come di qualche cosa che partecipasse alla vita quotidiana: un bisogno press’a poco com’è per noi quello del giornale; né questo era straordinario, se consideriamo che, fino all’invenzione della stampa, e a parte il linguaggio parlato, la pittura fu il solo modo di comunicare idee alle masse. Circa al tempo che Giovanni Bellini e gli artisti contemporanei toccavano la maturità, la Rinascenza aveva cessato d essere un movimento intellettuale, fomentato soltanto da eruditi e poeti. S’era tanto divulgata da richiedere espressioni popolari oltre che letterarie; e così verso la fine del quindicesimo secolo influì naturalmente sulla pittura: mezzo di espressione che la Chiesa, coll’adoperarlo per un migliaio d’anni, aveva reso famigliare e benamato.
Ad intendere la Rinascenza nell’epoca che il suo spirito comincia pienamente a realizzarsi in pittura, è necessario scorrere il movimento di pensiero effettuatosi in Italia nel periodo precedente; perché solo quando tale movimento fu giunto a un certo grado di sviluppo, la pittura ne divenne il mezzo d’espressione più naturale.
III
I dieci secoli che passarono fra il trionfo del Cristianesimo e la metà del Trecento, furono efficacemente paragonati ai primi quindici o sedici anni nella vita individuale. Siano essi pieni di gioia o di dolore, di avversità o di pace, questi anni giovanili soprattutto si caratterizzarono da una certa mancanza d’indipendenza e da un senso d’inconsapevolezza. Ma sulla fine del secolo quattordicesimo, accadde in Europa press’a poco quello che accade nella vita di tutti gli individui dotati. Si risvegliava il senso della personalità. E benché tale risveglio più o meno fosse sentito ovunque, in Italia si dette prima che nel resto d’Europa e fu più intenso. La prima manifestazione consistette in una curiosità sconfinata e insaziabile, che spingeva a cercar di conoscere quanto più si poteva del mondo e della natura umana. Si stud...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. I PITTORI ITALIANI DEL RINASCIMENTO
  5. Indice