Anch’io vorrei dire la mia
ma la gente non sta ad ascoltare.
Vorrei dire che ho voglia di correre
che ho voglia di piangere
di trovare me stesso
alla gente che non ascolta.
Indaffarata sulla morte di un pilota
e la guerra nel Vietnam,
sulla vendita di un prodotto
e il mercato un po’ in regresso,
io vorrei dire e non posso dire.
Perché non spero
perché non credo
alla gente che non ascolta.
Tratta dal reading Luna e lunatici,
con Nicola Del Buono e Martina Colombari
Introduzione
Con Luca, per scrivere questa pietra miliare della letteratura italiana, ci siamo trovati a casa mia a Milano, in un bar di piazza Repubblica, da Victor a Riccione, all’hotel Hyatt di Belgrado, sul lago di Bolsena, in treno, in aereo, in camerino, ci siamo parlati per ore al telefono, ha dovuto anche installare skype... Con un entusiasmo radioso, come se dovessimo scrivere un diario, qualcosa di pubblico e privato che arriva da dentro, dal cuore. Dovendomi, dovendolo, spesso fermare e tempestandolo di «Hai preso nota?», «Hai scritto?», «Rileggi un attimo», «Come l’hai messa giù?», «Cosa scrivi che non ho detto niente?», «Dài Luca che siamo in ritardo», «No, leviamola», «Sì, aggiungila», «Veloce, allora!».
Ma, vi chiederete avidamente, perché ho voluto scrivere questo libro? La domanda e la risposta non cambieranno di una virgola la vita del pianeta, ma io me la faccio e mi rispondo lo stesso, come piacerebbe a Marzullo. Perché ho sentito forte, dentro di me, il bisogno, la necessità, dopo una vita in esposizione, in vetrina, di raccontare come sono e non quello che la gente vede. Per una vita, da una vita, sono Martina Colombari, un personaggio, «la Colombari», ma io sono una persona, mi sento una persona, come tutti siamo delle persone. Quando mi è stata data questa opportunità ho pensato: «Ecco, posso dire agli altri finalmente come sono». A tutti, a tutti coloro ai quali frega qualcosa perlomeno, agli amici, ai colleghi, alle persone che incontro al bar, in metro, sul taxi, potessi darei la mano a tutti.
Sono sempre stata «la Colombari», un po’ scialba, stereotipata, ci si ferma alla mia immagine, soltanto alla mia immagine, e a me dispiace perché io so di essere molto di più, anche qualcosa di diverso (dopo aver letto, saprete se è vero o no). Fatto sta che sento dentro di me un’altra persona che vorrebbe venire fuori ma che, vuoi la velocità della nostra vita, della nostra quotidianità, vuoi la superficialità dei nostri rapporti, si ferma alla bella figura bionda con gli occhi azzurri. Ma io vorrei essere ascoltata, giudicata, criticata, come donna. Datemi un’opportunità, una sola opportunità, per farvi conoscere anche quello che ho dentro, di buono e di cattivo. Poi potrò tornare a essere solo «la Colombari». Ruolo che, per inciso, non sempre mi dispiace.
Non sono la prima, lo so. Lo dicono in tanti, lo pensano in tanti. La maggior parte delle volte tra di noi ci si ascolta soltanto con le orecchie, punto. Mai con l’anima, mai con il cuore, con la testa, con le braccia aperte. Si osserva con gli occhi meccanici del giorno, come si osserva un paesaggio cui siamo abituati. Mai con gli occhi che guardano. Dopo un po’ mi è sembrato di non farcela più. Questo è uno sfogo, non un momento di psicanalisi: posso parlare, sì, posso anche parlare! Non soltanto sfilare. Non soltanto posare. Non soltanto recitare.
Non ho insegnamenti da dare, non ho le nozioni della felicità. Sono un contenitore ancora da riempire. Non ho il segreto del successo nella vita di coppia perfetta, ma ho la storia di un rapporto stabile da quindici anni. Che nel panorama delle coppie di oggi, è un messaggio rivoluzionario. Se a ogni incontro, invece di dirti «Dammi il tuo numero di telefono», ti chiedessero «Come stai?», e se veramente interessasse la risposta, be’, in quella risposta ci sarebbe un mondo. Ma ci interessa davvero saperlo? Abbiamo il tempo di stare a sentire chi risponde alla domanda «Come stai?».
Colpa mia che spesso, quasi sempre, non ascolto. Ma colpa anche della superficialità dei rapporti odierni in cui troppe volte non ci si dice altro che: «Dài, ma non puoi non esserci su Facebook!», «Posso taggarti?», «Vuoi condividere?», «Mi dai l’amicizia?», «Ti piace? Non ti piace? Elimina», «Leggi botta e risposta». Ma fare due chiacchiere guardando la luna piena di ieri sera, no? Per legare con qualcuno, colleghi o macchinisti o truccatori o baristi o comparse, per instaurare un rapporto che vada un po’ oltre i saluti, lo scherzo, la battuta, una giornata sul set o cinque mesi sul set non cambiano niente. Non è solo una questione di tempo o del mestiere di attrice. Anche commesse, segretarie, impiegate hanno lo stesso problema, credo. Ogni tanto basta poco. Persino una conversazione col tassista nel tragitto dall’aeroporto all’hotel mi dà qualche volta lo stesso appagamento di una serata con re Juan Carlos alla corrida. Mi accorgo di preferire pane e porchetta sul marciapiede tra un ciak e l’altro, alle ostriche che mangiai seduta a tavola a casa Agnelli quando c’era ancora l’Avvocato, prima di una partita tra Juventus-Milan. Naturalmente, non per Agnelli, grandissima persona, uomo di un’intelligenza incredibile, pazzesco latin lover, affascinante, ma per le ostriche, che odio.
La mia è una vita meravigliosa, e io mi gusto tutto, malinconie comprese. L’estate del 2010, per esempio. Lontana da mio marito e da mio figlio, girando due fiction ho tappato i buchi di solitudine scattandomi di continuo fotografie per una mostra di autoritratti, fatta interamente da me e allestita in autunno. Sono anche andata avanti a lavorare su questo libro. Non mi piace fermarmi. Sul set, quando nelle pause gli altri mi vedevano abbandonarmi agli autoscatti, pensavano fossi pazza. Eppure credo che tutti abbiano bisogno della carità degli altri, non la questua sul sagrato di una chiesa, ma di una pacca sulla spalla, di una persona che ti inviti a sederti e che ti dica «raccontami», abbiamo bisogno di una parola. Una soltanto. Ricevo mille telefonate al giorno: c’è qualcuno, ce n’è uno che vuol sapere realmente come va? Sei contenta, sei felice, sei triste? MA SENZA GIUDIZIO! Quando ho deciso di stare via cinque mesi tutti mi ripetevano: «Eh, ti mancherà tuo figlio» facendomi sentire una madre snaturata. Poi, quando lontana dai miei affetti cercavo un po’ di conforto, mi dicevano: «Eh, ma lo sapevi già che sarebbe stato così». E allora? Le mettiamo nel contratto le malinconie? Le solitudini? Per fortuna un giorno è arrivata la telefonata di mio padre che era in vacanza in Croazia: «Dài, va bene così, meglio che stare a casa senza lavorare, avrai Natale per riposarti». Vero, ha ragione lui. Ma al dodicesimo timbro della Serbia sul passaporto per la fiction a Belgrado, non mi è sembrato di essere in guerra soltanto perché la guerra là l’hanno fatta davvero.
Concedetemi almeno mi sembrasse di essere da sola, come un soldatino.
I miei amici hanno riso
Già vedo, percepisco i sorrisini della gente quando entro in libreria, come se tutti si chiedessero: ma la Colombari legge? Forse dovrà solo fare un regalo... Figuriamoci quando mi hanno chiesto di scriverlo, un libro. I miei amici hanno riso: «Ormai scrivono proprio cani e porci». Ho riso anch’io alle loro amabili cattiverie. Infatti non l’ho presa come una sfida, mi sono affidata a un co-writer e ho deciso che sarebbe stato semplicemente il racconto di me stessa, pubblica e privata.
Non conoscendo i meccanismi editoriali e la magia con cui nasce un titolo, con un’intuizione, un’illuminazione improvvisa, mi sono persino sorpresa nell’interrogarmi più volte al giorno, facendomi una carrellata estenuante: Non guardarmi così, troppo aggressivo. Allora Guardami così, sembrava anche invitante, intimo: guardami come vuoi tu. Guardami così per quello che dico, mettici pure la mia faccia se ti pare, esterno e interno. O guardami da un buco della serratura, ti do questa opportunità. Prova a guardarmi così. Ma non vale l’onanismo, meglio soprassedere.
Piacere, Martina. Bello. Un mondo di sguardi. Da vent’anni vivo con addosso gli occhi di tutti. Ci convivo, non mi disturba, mi piace. Mi piace entrare in un ristorante e capire che tutti si girano. Ma ho la coda di paglia e un attimo dopo sento addosso le silenziose critiche, i giudizi sommessi, perché alla fine il problema non sono gli altri e i loro sguardi, ma il mio relazionarmi con gli altri. Le insicurezze sono mie. I miei colleghi dicono: «Fregatene, non puoi essere così debole. Non puoi essere ancora così piccola da subire l’antagonismo». Eppure, quando arrivano le giovani attrici che si mettono subito in competizione con me, io non mi tiro indietro. Un po’ per gioco, credo, perché cercare sempre una sfida è una cosa innata che ho. Ho bisogno di un termine di paragone per confrontarmi. E vincere. Mi rimproverano di accettarla, la competizione, come se dovessi ancora affermarmi, far vedere quanto valgo. «Cosa devi ancora dimostrare?» Domanda inutile. Quando non avrò più niente da dimostrare, sarò in Tibet a occuparmi solo della mia spiritualità.
Questa sono io, un po’ femminista, alla Jessica Rabbit, non sono così, mi disegnano così. Martina allo specchio, l’abbiamo già vista. Vestita, nuda... questa è un’altra ancora, ma lo specchio è lo stesso. Racconterò più avanti che la stessa Martina che era per dieci pagine su «Max» con le tette al vento in estate è la stessa che si infila balsamo di tigre nel naso, mascherina, guanti e a fine gennaio raccoglie cadaveri ad Haiti. Ci sono questi poli estremi e hanno tutti lo stesso punto di contatto: me stessa.
Se la dessi farei il cinema, da incompresa, volgare, anche se a me proprio non sembrava. Anzi lo trovavo molto esaustivo. C’era una volta, c’è oggi, alla Sergio Leone. Ma non sono così vecchia. Sceneggiatura di uno spaghetti-western.
Dalle luci della ribalta al fango di Haiti, troppo crudo. Back-stage o Back-off (compreso il Fuck-off aggiunto da mio marito) non mi convincevano: sarebbero stati delusi tutti quelli che si aspettavano chissà quali retroscena. Un’amica che mi vuole bene mi suggerì un titolo alla Lina Wertmuller: Sei così bella fuori per quanto sei bella dentro, o il ritornello di una canzone di Pupo: Il mio cuore guerriero, ridondante. Pensai anche a Leggimi col cuore, Ascoltami col cuore, Guardami col cuore. Oppure a un titolo a metà tra un film di Tinto Brass e Il senso di Smilla per la neve: Il senso di Martina, ma poi ho pensato che i miei primi cinque sensi sono già sviluppatissimi senza bisogno di aggiungere il sesto.
I
Il grande bluff
Non si può fermare il tempo,
ma puoi fermare i sogni intorno a te.
Ornella Vanoni e Gino Paoli
Ho un ricordo impagabile della mia esperienza in radio di qualche anno fa. Ogni sabato mattina conducevo un programma di due ore su Radio101, Sabato Martina. È straordinaria la sensazione che mi ha regalato, sin dalla prima puntata: sembrava di lavorare in famiglia, nel salotto di casa. Non avevo la sensazione di essere in pubblico, ma in mezzo al pubblico. Forse era un errore, ma non facevamo nemmeno la scaletta, andavamo a braccio, a ruota libera e io ero davvero libera: non dovevo pensare a come accavallare le gambe, tenere il mento alto in modo che la luce dello studio nascondesse le occhiaie o sorridere senza averne voglia. Arrivavo negli studi di via Locatelli struccata, in tuta, maglietta, scarpe da ginnastica, mischiando i colori, senza nemmeno essermi mai guardata una volta allo specchio prima di uscire di casa. Ci inventammo il personaggio di Sabrina, che interpretavo io: una mia cugina romagnola che lavorava vendendo piadine su un carrozzone ambulante, avvelenata con Martina perché – a suo dire, rigorosamente con cadenza e dialetto romagnolo – la bella, talentuosa, meritevole di successo era lei e non «quella sgallettata là che l’ha data a sciatori e calciatori». Nell’autoironia ero talmente coinvolta che mia cugina, insomma io, me ne dicevo di tut...