Power Brands
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Power Brands

Creare, portare al successo e gestire i propri brand

  1. 380 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Power Brands

Creare, portare al successo e gestire i propri brand

Informazioni su questo libro

Che cosa distingue un prodotto di marca da quelli che non lo sono? Come può un'azienda misurare il valore dei suoi brand? Quali decisioni deve prendere un top manager per gestire con successo un brand? Risposte concrete a queste e altre domande si trovano nella metodologia BrandMatics® di McKinsey & Company. Derivata dall'esperienza maturata nell'ambito di numerosi progetti di consulenza e poi approfondita con rigore accademico, questa non solo propone spunti di riflessione, ma rappresenta anche un vero e proprio strumento di lavoro per manager e professionisti interessati al brand management. Questa edizione di 'Power Brands', libro già tradotto in diverse lingue e apprezzato dai manager di tutto il mondo, illustra l'applicazione della metodologia mediante numerosi esempi tratti anche dai più recenti sviluppi del marketing e del branding: dalla comunicazione sui social network all'influenza della creatività e del content fit sul successo delle campagne pubblicitarie; dalla segmentazione strategica ai nuovi modelli econometrici, fino all'utilizzo di uno strumento analitico innovativo per ottimizzare le prestazioni di marketing in rete elaborato in collaborazione con Google. Esperienze e interviste, fra cui quelle di Bottega Veneta, Bulgari, Costa Crociere, Enel, IP Gruppo api, McCann Erickson, Mediamarket, Nuovo Trasporto Viaggiatori, Plasmon, Yamamay, Young & Rubicam, contribuiscono a delineare l'attuale panorama del branding anche in Italia.

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Informazioni

Editore
ETAS
Anno
2013
Print ISBN
9788817051866
eBook ISBN
9788858649237
Argomento
Business
Categoria
Marketing

1

La funzione del brand e che cosa lo rende forte

Perché, in occasione dei Mondiali di calcio in Sudafrica del 2010, alcune aziende hanno pagato 100 milioni di euro solo per apparire come sponsor? Perché Procter & Gamble ogni anno investe circa 8 miliardi di dollari nel marketing dei suoi prodotti? Come mai, nel 2010, si stima siano stati spesi in pubblicità 450 miliardi di dollari in tutto il mondo? Come si spiega la disponibilità di alcune persone a spendere cifre significative per un Rolex o una borsa di Louis Vuitton? Perché oggi si dice che si “googla” su Internet, invece di dire che si “cercano informazioni” su Internet? E com’è possibile che degli auricolari bianchi, accessorio di marca dell’iPod Apple, siano diventati in tutto il mondo il simbolo urbano di consapevolezza dei trend?
Fatti quotidiani e notizie economiche di questo tipo contribuiscono a illustrare la forza dei brand. È il brand il vero punto di forza del mercato moderno dei beni, che regna sia sui budget domestici dei consumatori sia sui calcoli d’investimento dei gruppi societari. I brand determinano milioni di decisioni d’acquisto e innumerevoli scelte aziendali, fissano prezzi e guidano i margini. Non solo: i brand influenzano anche la nostra percezione e il nostro comportamento, determinano l’autostima e la valutazione degli altri1. In altre parole: i brand influiscono sugli uomini e sui mercati.

1.1 L’importanza del brand per i consumatori e le aziende

I brand sono onnipresenti: vengono ostentati in pubblico e si nascondono nelle sfere più intime della vita; risvegliano desideri e costituiscono gli snodi di scelta tra i beni delle società avanzate. Nessuno può sottrarsi al loro effetto. Sono simboli di un’economia globale, raggiungono i nuovi mercati molto prima del resto dell’economia e sono estremamente visibili.
Il messaggio è chiaro: nessuna banca, assicurazione, azienda del settore automobilistico o delle telecomunicazioni, nessun costruttore di macchine utensili, fornitore di prodotti chimici, energetici o di gas ignora ormai la crescente importanza dei brand, nemmeno le istituzioni pubbliche come le forze armate, gli enti pubblici di previdenza e l’Unione Europea. Anche le regioni e i comuni hanno riconosciuto la tendenza e hanno reagito di conseguenza. Berlino, per esempio, nel 2007 ha dato il via allo sviluppo di una “strategia per il posizionamento e la comunicazione”, sfociata poi nella discussa campagna d’immagine “be Berlin”2.
I brand influenzano la percezione e il comportamento
La percezione determina la realtà e spesso anche il successo o l’insuccesso: “Perception is reality”. Inconsciamente classifichiamo il prossimo sulla base dell’auto che guida, dell’abbigliamento che indossa o degli accessori che lo circondano. Ci affidiamo ai brand per non affondare nel flusso di segnali e informazioni. Prendiamo per esempio la presentazione della nuova Audi A8 Sedan, che si è tenuta in un gigantesco padiglione Audi presso l’Art Basel a Miami, la fiera d’arte più alla moda del mondo. Oppure la première giapponese della nuova Fiat 500 nel marzo 2008, che ha avuto luogo nel centro culturale italiano di Tokyo, con la presenza di un esclusivo esemplare color avorio dell’auto dipinto a mano dall’artista fiorentino Giuliano Ghelli (un modello che sarebbe stato scelto espressamente per rafforzare l’immagine di Fiat in Giappone, secondo il responsabile del brand Fiat Lorenzo Sistino3). Chi può resistere alla seduzione di queste marche e declinare l’invito? Le marche ci fanno risparmiare tempo, evitandoci di esaminare, chiedere, classificare e di ponderare criticamente prima di prendere decisioni e di agire; sono “l’immagine inconfondibile di un prodotto o di un servizio ancorata nella psiche dei potenziali consumatori”, come afferma Heribert Meffert4. Questa immagine è plasmata dal prodotto stesso attraverso la pubblicità, i punti vendita e il word-of-mouth nella cerchia di amici e conoscenti (figura 1.1).
FIGURA 1.1 GESTIONE INTEGRATA DEL BRAND IN TUTTI I MOMENTI DI CONTATTO CON IL CLIENTE
FIGURA 1.1 GESTIONE INTEGRATA DEL BRAND IN TUTTI I MOMENTI DI CONTATTO CON IL CLIENTE
Le marche possono sottolineare le differenze di classe o cancellarle. Per alcuni il possesso di un Rolex, di una Mercedes o di una borsa di Louis Vuitton può dimostrare la volontà di appartenere a un determinato gruppo sociale.
L’importanza della marca si sta affermando anche in settori in cui il brand non aveva storicamente grande rilevanza. Molte marche commerciali, dotate un tempo di poche connotazioni distintive, ora guadagnano visibilità grazie a idee innovative ed entrano in concorrenza per conquistare il favore dei clienti. Un numero sempre maggiore di marche commerciali investe in misura rilevante in comunicazione e uptrading per la creazione di un profilo distintivo. Le chiare differenze tra prodotti di marca, prodotti unbranded e prodotti di marche commerciali scompaiono di fronte alla sempre più forte concorrenza messa in atto per conquistare il favore e la fiducia dei consumatori.
Alcune catene della grande distribuzione pubblicizzano le proprie marche commerciali addirittura sui mass media. In Germania, Edeka pubblicizza in televisione il proprio brand Gut & Günstig. In Francia, in una campagna pubblicitaria la catena di supermercati E.Leclerc ha confrontato i prodotti di marca con le proprie private label, con il messaggio: “E.Leclerc offre il prodotto di marca al prezzo più basso consentito. Se però acquistate la nostra marca potete avere la stessa qualità pagando il 30% in meno”5.
Il fatturato delle marche commerciali è aumentato notevolmente e il processo è stato accelerato dalla recessione degli ultimi anni. In alcuni segmenti di prodotto (come nell’alimentazione per gli animali o nella carta igienica) e in alcuni paesi (per esempio in Svizzera e in Gran Bretagna) la quota delle marche commerciali è addirittura superiore al 50%.
Gli articoli di marca sono dunque seriamente minacciati dalle marche commerciali. I produttori riconducono questo cambiamento al fatto che i distributori hanno ridotto in modo massiccio l’assortimento di marca e le promozioni a favore dei propri brand. La minaccia rappresentata dalle marche commerciali è rafforzata anche dal fatto che la grande distribuzione di prodotti alimentari ha creato una forte presenza pubblicitaria: tra i 10 top spender tedeschi troviamo Aldi, Lidl e Edeka, tre gruppi che, come descritto, si avvalgono frequentemente dei programmi televisivi per la loro pubblicità.
Nessuna categoria di prodotto può tutelarsi dalla diffusione delle marche commerciali, anche in territori una volta ritenuti sicuri: ne è un esempio il settore del tabacco, in cui le marche commerciali europee finora non erano riuscite a guadagnare terreno (con l’eccezione dei mercati tedeschi). In pochi anni, si è passati dai 7,5 miliardi di sigarette private label vendute nel 1997, ai 22 miliardi di 5 anni dopo, con un aumento di quasi il 200%. Negli anni successivi, le vendite di sigarette sono scese drasticamente in tutto il mercato, a causa dell’aumento delle tasse sui tabacchi, ma la differenza è rimasta notevole: le sigarette di marca sono scese del 22%, le marche commerciali solo del 14%6. Il potere dei brand è quindi solo un dominio apparente ormai in declino? No, al contrario: nel panorama dei brand si stanno sviluppando nuovi e sempre diversi “ecosistemi”. I grandi distributori innalzano sempre di più il profilo delle proprie marche, evitando di posizionarle come “marche economiche”, seguendo un trend iniziato già da tempo in altri paesi europei come la Gran Bretagna. E se si crede alla definizione della marca proposta da Meffert, quale “immagine inconfondibile di un prodotto o di un servizio ancorata nella psiche dei potenziali consumatori”7, diventa difficile attenersi alla rigorosa distinzione fra marche commerciali e marche industriali. Come dimostrano gli esempi di H&M e The Body Shop, dal punto di vista del cliente è irrilevante se una marca rappresenta un articolo di marca classico o una marca commerciale. Per esempio, se qualcuno volesse spiegare a un cliente in fila alla cassa di Aldi che il Tandil nel suo carrello non è una “vera” marca ma solo una marca commerciale, non sarebbe compreso.
D’altro canto, i produttori di articoli di marca già affermati hanno iniziato a riunire le loro forze per sostenere la concorrenza delle marche commerciali. Per fare un esempio, nel 2009 Procter & Gamble ha introdotto nel mercato tedesco i Pampers Simply Dry, pannolini con un livello di prezzo ribassato del 20%, pensati soprattutto per gli acquirenti attenti ai prezzi e quindi per il segmento target a cui puntano anche le marche commerciali. Come passo successivo Procter & Gamble sta progettando di offrire varietà a prezzi più convenienti per più della metà delle categorie di prodotto nelle quali è attivo il gruppo.
I brand hanno bisogno della comunicazione e sono consapevoli delle potenziali ripercussioni negative. Le aziende che non utilizzano al meglio le potenzialità di tutti i canali di comunicazione, che non pubblicizzano costantemente l’azienda e il brand, escono presto di scena e vengono lasciate in disparte. I media, ma anche i consumatori, sempre più visibili su Internet grazie ai blog, a Twitter o ai post su Facebook, agiscono in modo indipendente e non manovrabile. I social network stanno diventando potenti opinion maker, che spingono le marche ma che possono anche danneggiarle notevolmente.
Per fare un esempio, nell’ottobre 2006 il brand per l’igiene personale Dove di Unilever ha pubblicato in Internet il video Dove Evolution, mostrando come una “ragazza della porta accanto”, grazie all’aiuto di trucco, restyling e tecnica digitale, possa trasformarsi in una modella di rara bellezza. Attraverso l’iniziativa “Per la bellezza autentica”, Dove ha così accusato il suo intero settore di creare ideali di bellezza distorti. Su YouTube il video ha totalizzato più di 15 milioni di contatti in un solo anno. A tutto ciò si è aggiunta un’ampia e positiva risonanza sui media, che hanno registrato più di un miliardo di commenti. Unilever ha valutato che il ritorno di questa produzione, costata 50.000 dollari, è stato di circa 50 milioni di dollari8. Un anno dopo, Dove ha diffuso un altro video su Internet, intitolato Onslaught: una vera e propria tempesta di spot pubblicitari di biancheria intima, prodotti dietetici e interventi di chirurgia plastica, che avrebbero potuto fortemente condizionare la percezione di sé e della propria bellezza da parte di una ragazzina. Il video terminava con un consiglio a tutti i genitori: “Parlate con vostra figlia, prima che lo faccia l’industria della bellezza”. Anche questo video è stato guardato da più di un milione di persone e la risonanza sui media è stata notevole. L’eco però non è stata più unanimemente positiva, come dimostrato dai commenti di numerosi blogger, che hanno collegato i messaggi di Dove ai messaggi di tono diverso di altri brand del gruppo (come per esempio Axe). In un mondo in cui tutti sono in grado di far conoscere la propria opinione su Internet, i brand possono trarre benefici dalla pubblicità, ma possono anche subirne le conseguenze negative. Le critiche a Dove si sono ulteriormente inasprite quando, poco dopo, è trapelato che il famoso fotografo Pascal Dangin aveva ritoccato le immagini pubblicitarie dei prodotti Dove, per nascondere le imperfezioni della pelle e delle pettinature di quelle donne che sarebbero dovute apparire naturali9.
Nella primavera del 2010, anche il colosso alimentare Nestlé ha conosciuto a proprie spese la potenza dei social media, quando Greenpeace ha rimproverato al gruppo di accelerare l’abbattimento della foresta pluviale in Indonesia e quindi di contribuire alla riduzione dell’estensione dell’habitat dell’orango, a causa della raccolta e dell’impiego dell’olio di palma (usato, per esempio, nella produzione delle barrette KitKat). Per sensibilizzare l’opinione pubblica, Greenpeace si è avvalsa di diversi canali di comunicazione, mettendo in Rete su YouTube una parodia provocatoria di uno spot pubblicitario di Nestlé, aprendo un gruppo in Facebook e un microsito sul tema, pubblicando infine i commenti di Twitter su un grande schermo LED installato proprio di fronte alla sede centrale tedesca dell’azienda a Francoforte; il tutto accompagnato da manifesti e proteste. Quando Nestlé ha reagito con forme di censura, si è scatenato uno scambio di comunicazioni in Rete fra i detrattori di Nestlé. Il video è stato caricato a più riprese sui più svariati portali video e blog, la stampa si è interessata al tema e i consumatori hanno bombardato con commenti negativi la fan page di Nestlé su Facebook. Nel giro di pochi giorni, oltre un milione di persone ha visto il video e in 750.000 si sono uniti alle proteste sulla grande fan page di KitKat, prima che questa venisse rimossa da Nestlé a causa delle numerose critiche. Il danno all’immagine, almeno nel mondo online, non è da sottovalutare: digitando il nome Nestlé su Google o Twitter, ormai da tempo si ottengono quasi esclusivamente link su questo tema. Nel marzo 2010, l’11% della comunità online giudicava ancora negativamente l’attività di Nestlé; tre mesi dopo, la percentuale era già salita al 30%, secondo quanto emerge da una valutazione di Mike Schwede, esperto di social network10.
L’ex responsabile marketing di Nokia ha espresso la sua convinzione: “In futuro i brand verranno costruiti e distrutti su Internet, in cui vigono nuove regole di marketing. Chiunque cerchi di raggirare la gente, sarà smascherato e debitamente stroncato”11.
Questi esempi dimostrano che la comunicazione del brand non implica automaticamente spese pubblicitarie. La catena di abbigliamento Zara opera in un settore in cui le spese pubblicitarie rappresentano mediamente circa il 4% del fatturato12. Ma Zara riesce a prosperare anche senza pubblicità: il suo unico strumento pubblicitario sono i negozi, situati sempre nelle vie principali del centro e allestiti dai migliori progettisti e vetrinisti. Uno sguardo alle vetrine durante il giro in città e il passaparola dei clienti soddisfatti: non serve molto altro per portare tra la gente milioni di modelli couture. È un processo che funziona meravigliosamente: tra il 2002 e il 2008 il fatturato del brand Zara è cresciuto in media del 15% annuo (più velocemente di quello del rivale H&M, che non rende nota la somma dei suoi investimenti pubblicitari). Alla fine del 2009, Zara contava 1869 negozi in tutto il mondo, incluse le filiali di Zara Home, 1348 in più rispetto a sei anni prima13.
Jägermeister è un altro esempio di gestione efficace della marca che non ha investito somme ingenti in pubblicità sui mass media. Alla fine degli anni Novanta, dopo una presenza ventennale sul mercato americano senza aver ottenuto grande successo, il management del brand tedesco ha deciso di cambiare la propria strategia di comunicazione. Jägermeister si è rivolto ai clienti più giovani, soprattutto agli studenti, e ha adottato strategie di comunicazione a basso costo ma mirate, come la sponsorizzazione di eventi studenteschi o le iniziative pubblicitarie nei locali frequentati da stud...

Indice dei contenuti

  1. Power Brands
  2. Copyright
  3. Indice
  4. Prefazione
  5. Ringraziamenti
  6. 1. La funzione del brand e che cosa lo rende forte
  7. 2. Misurare il brand
  8. 3. Creare il brand
  9. 4. Gestire il brand
  10. 5. BrandMatics®: 10 prospettive
  11. 6. Appendice